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Oltre il genere in concezione binaria Il dibattito sul’intersezionalità

PARTE I. Politiche di genere e trasformazione: dal dominio tecnico-politico a quello

1.5 Oltre il genere in concezione binaria Il dibattito sul’intersezionalità

Una delle sfide più attuali per le politiche di genere è rappresentata infine dal dibattito sull’intersezione tra politiche di genere e differenze di classe, culturali, di orientamento sessuale etc., in corso sin dagli anni ’70 e oggi in fase di seppur graduale istituzionalizzazione.

Il concetto di intersezionalità (gender intersectionality) è definito come il complesso sistema di ineguaglianze e differenze interdipendenti nel quale gli individui sono immersi e attraverso il quale identità, esperienze vissute, relazioni ed alleanze politiche e rappresentazioni culturali prendono forma e sono

43 costruite, discorsivamente e sul piano materiale (Crenshaw, 1991; Verloo, 2006; Siim & Skieje, 2008). La definizione più utilizzata è ampia, ed include siti o assi di differenziazione eterogenei, che comprendono genere, razza/etnia, classe sociale, orientamento sessuale, età, disabilità e religione (Collins, 1999; Grabham & Cooper, 2008; Walby, 2009; Young, 1997).

Leggo il dibattito sull’intersezionalità come attraversato da due approcci: la prima fase, nella seconda metà degli anni ’70 e durante gli anni ’80, è stata marcata da una teorizzazione che chiamerei “reattiva” contro il femminismo bianco e anglosassone da parte delle donne di colore e centrata su un’accusa esplicita di razzismo al femminismo bianco (in parallelo all’accusa di sessismo rivolta ai maschi neri del movimento antirazzista). Alcuni elementi di questo discorso tornano ricorsivamente entro nuove configurazioni più complesse, sollecitati anche dai tempi di ‘scontro di civiltà’. La fase successiva, che ha visto poi coniato il vero e proprio termine di intersezionalità, potrebbe essere definita come “costruttiva” di una modello alternativo e, appunto, intersezionale, per le politiche e la ricerca femminista, portatrice di sforzo per dare forma ad una cornice teorica condivisa e critica per l’agire femminista (Crenshaw, 1991; Verloo, 2006).

Pratibha Parmar, descrivendo la nascita nel Regno Unito dell’Organizzazione delle Donne di Origine Africana e Asiatica (OWAAD, Organization of Women of African and Asian Descent) all’inizio degli anni ‘80, riferiva della ‘crisi del femminismo bianco tradizionale’ come occasione per la creazione di uno spazio di azione indipendente da parte delle donne di colore (Parmar, 1989, 56). Le politiche del femminismo bianco occidentale e le analisi ad esse sottostanti venivano percepite come non rappresentative delle donne di colore e, laddove tentassero di farlo, erano accusate di assumere tratti razzisti (Amos & Parmar, 1984, p. 4). In quel periodo era in gioco la reazione a un falso universalismo implicito nel femminismo occidentale e, coerentemente, una critica ai suoi discorsi sulle donne del “Terzo Mondo” e “di colore”, o più spesso, ai suoi silenzi in merito. L’antropologa Chandra Mohanty arrivava a parlare di

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colonizzazione discorsiva delle «eterogenee vite materiali e storiche delle donne del terzo mondo, basata su un’assunzione di privilegio e universalità etnocentrica da una parte, e su un’autocoscienza inadeguata circa l’effetto del corpus di studi occidentale sul terzo mondo in un sistema mondiale segnato dal dominio Occidentale» (Mohanty, 1991, p. 53). Ciò che Mohanty criticava alle femministe occidentali era sostanzialmente l’incapacità di cogliere la complessità e le relazioni di potere, il loro essere articolate in una logica non binaria, oltre la diade ‘vittima/oppressore’ e non collocate in una fonte di dominio unilaterale e indifferenziato attivo attraverso censura e proibizione. La sua proposta è di assumere una prospettiva Foucaultiana e smettere di cercare una versione non contraddittoria del femminismo come rappresentativo di soggetti oppressi e ‘puri’ tout court.

Per quanto il dibattito sopra richiamato avesse anticipato e gettato le basi per i nodi teorici fondamentali (hooks, 1998), la formazione chiara e originale d’intersezionalità come concetto e teoria è dovuta a Kimberlè Crenshaw, docente di Legal Studies presso UCLA e leader del movimento d’intellettuali noto come

Critical Race Theory. Nel suo studio sulle donne vittime di stupro e violenza negli USA, ha proposto una categorizzazione di tre principali forme di intersezionalità che sintetizza e include tutti gli esempi e gli specifici aspetti critici messi in luce da altre studiose di colore precedentemente citate: l’intersezionalità strutturale è l’esperienza qualitativamente differente di quei soggetti che sono collocati all’intersezione, appunto, tra due o più termini di disuguaglianza, e le domande di ricerca principali a questo livello interrogano l’amplificazione ed il reciproco rinforzo messo in atto nelle esperienze reali delle persone da sfruttamento di classe, sessismo, omofobia e lesbofobia, ed altri regimi di discriminazione. Invece, l’intersezionalità politica riguarda le spesso confliggenti agende o le strategie politiche delle minoranze basate su reciproca elusione di gruppi discriminati e che anch’esse possono avere esiti di rinforzo di discriminazione per quei soggetti che sono collocati all’intersezione di diversi gruppi di appartenenza. Infine, l’intersezionalità rappresentativa-figurativa riguarda la costruzione attiva

45 dell’immagine degli ‘altri’ nei discorsi e nei testi pubblici, attraverso meccanismi di stereotipizzazione, esotizzazione, vittimizzazione come la stessa Mohanty aveva chiarito nel proprio lavoro (Crenshaw, 1991). La teorizzazione avviata da Crenshaw ha lo scopo di mediare tra quella che potrebbe richiamare una critica post strutturalista dell’essenzialismo e ciò che l’autrice definisce un «persistente bisogno di politiche d’identità: a questo punto nella storia, si è fortemente sostenuto che la strategia di resistenza più critica per i gruppi oppressi sia quella di occupare e difendere una politica del posizionamento/della localizzazione sociale (politics of social location), piuttosto che dismetterla e distruggerla». (Crenshaw, 1991, 1297).

Un dibattito originato nel contesto statunitense ha trovato vasta eco anche in Europa: come già evidenziato anche nelle sezioni precedenti la rete di studiose che ha sviluppato il progetto QUING di comparazione tra le politiche di genere in ventinove paesi ha proposto l’utilizzo di una nuova formulazione intersezionale delle stesse, comunicabile e immediatamente leggibile come “gender+” (QUING, 2009b).

Dalla fine degli anni ’90 in Europa effettivamente il modo in cui le diseguaglianze sono trattare nell’azione di policy è cambiato sensibilmente. Nel 1997 il Trattato di Amsterdam ha introdotto con l’Articolo 13 una misura anti- discriminatoria su base ampia mirata a contrastare le discriminazioni basate su sesso, razza o origine etnica, credo religioso, disabilità e orientamento sessuale. Dopo pochi anni la Carta dei Diritti Fondamentali con l’art.21 ha proseguito sulla stessa strada. Alcune Direttive adottate come quella sull’Eguaglianza Razziale (European Commission, 2000a) e quella sull’Eguaglianza nell’Occupazione (2000b/78/EC) hanno sancito il principio di pari trattamento tra persone negli ambiti dell’istruzione, della formazione, del lavoro, della sicurezza sociale, della sanità e in generale dell’accesso a beni e servizi. Negli anni successivi queste misure sono state presentate tra i principali successi politici dell’Unione Europea e rafforzate da azioni di sensibilizzazione e campagne mediatiche.

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Il mondo delle politiche di genere è stato attraversato al riguardo da un dibattito che ha interrogato criticità e potenzialità e inizialmente lasciato spazio all’espressione di dubbi e timori rispetto alla perdita di centralità delle questioni di genere. Allison Woodward ha preso in esame il caso del Belgio, come contesto nazionale più direttamente sensibile agli orientamenti di policy della Commissione rilevando come i primi tentativi di mettere in pratica politiche cosiddette per le diversità abbiano finito con non tenere conto delle diseguaglianze di genere mostrando così come il Gender Mainstreaming si esponga fortemente al rischio di “diventare vittima del suo stesso successo” (Woodward, 2005). Il fatto che altri gruppi sociali prendano il mainstreaming di genere come ‘caso di successo’ da emulare è pericoloso, si afferma, nel momento in cui una dimostrazione d’impatto e reale e sostanziale successo è ben lungi dall’essere provata. I timori espressi sembrano a tratto frutto di un approccio difensivo, specie nel momento in cui si rimarca come, oltre a non potere identificare le donne con una minoranza, non siano comparabili la base teorica delle politiche di genere radicata solidamente nei gender studies e supportata dai movimenti di donne con l’azione più frammentata e meno sostenuta dal mondo della ricerca, degli altri gruppi sociali che chiedono l’ampliamento delle politiche di mainstreaming. Approccio difensivo che segnala i tratti di frammentazione e autoreferenzialità che rischiano di assumere le stesse politiche di genere, se non è messo in questione il problema delle relazioni tra un discorso di genere neutrale o che astragga dalle differenze di classe, di provenienza geografica/etnica, di orientamento sessuale e disabilità e dei conseguenti rischi d’implicazione con discorsi classisti, razzisti, etero normativi e discriminatori delle disabilità.

Più nel merito delle iniziative politiche dell’Unione Europea, è stato fatto notare come nell’affrontare la questione delle diseguaglianze multiple si rischi di non riuscire ad affrontare il livello strutturale delle stesse utilizzando un approccio che presuppone equivalenza e somiglianza tra le stesse con l’esito di fomentare competizione politica tra le diseguaglianze (Verloo, 2006). Si rende

47 piuttosto necessario analizzare i processi e le caratteristiche differenti delle diseguaglianze, i meccanismi strutturali e il ruolo dello stato e della sfera delle relazioni private e intime come fonti delle diseguaglianze.

Certo la stessa teoria dell’intersezionalità è in fase di costruzione e presenta ancora diverse lacune che, se per un verso possono darle le sembianze di un neologismo accademico di tendenza, dall’altra sono anche le origini della fertilità della ricerca e del dibattito che da essa stanno originando (Davis, 2008). Basti pensare al lavoro di studiose come Sylvia Walby che, propone di guardare ai fenomeni dell’intersezionalià di genere come espressione di sistemi sociali di discriminazione interdipendenti e interrelate, recuperando il concetto di sistemi sociali attraverso la teoria della complessità e con l’intento di evitare sia ricadute nel funzionalismo che nel relativismo culturale e nelle politiche dell’identità (Walby, 2007 e 2009). Le strutture di discriminazione per genere, etnia, classe sociale, disabilità, orientamento sessuale, vanno guardate come sistemi in intersezione che costituiscono, l’uno per l’altro, ambienti di sviluppo. Gli effetti di feedback positivi e negativi, le relazioni non lineari e non chiaramente definite e le sovrapposizioni non gerarchiche tra istituzioni, portano oltre l'identificazione genere=famiglia; classe=economia; razza=etnicità/nazione/confini. Concetti quali path dependency (letteralmente: dipendenza dal percorso), co-esistenza e interdipendenza, rimandano a nuovi modelli di causalità non lineare e interrelazione, mentre il radicamento nella sociologia di Marx, Weber e Simmel nel pensare ai sistemi sociali, previene dall’attribuire enfasi esclusiva alla funzione di adattamento del sistema al suo ambiente e di lasciare spazio sia per la agency individuale e di gruppo che per un cambiamento non adattivo.

Senza dubbio c’è un accordo nel campo delle politiche di genere sul fatto che data la complessità dell’intersezionalità di genere l’approccio semplicistico dell’adattare le attuali politiche di gender mainstreaming a diversi livelli di discriminazioni non possa rappresentare la soluzione. Nuovi strumenti di analisi e metodi d’implementazione vanno elaborati, anche a livello della formazione e partecipazione della società civile; soprattutto la consultazione di diversi gruppi,

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ricorda Verloo, non può essere presentata come la soluzione al problema dato il rischio di confondere posizioni politiche e sociali. La strada sembra essere quella di lavorare a un’espansione del gender mainstreaming in modo che possa includere anche l’intersezionalità politica e strutturale passando per un esame di tutti gli strumenti di analisi e d’implementazione per verificare che non contengano pregiudizi verso altri assi di discriminazione e in ultima analisi contribuire a migliorare la qualità dello stesso gender mainstreaming. Per il resto la possibilità di cominciare a definire le strategie per un mainstreaming dell’uguaglianza o delle diseguaglianze, non può non essere affrontata per quanto necessariamente porterà con sé conflitti e contestazioni e dovrà essere accompagnata da un aumento di risorse (Verloo, 2006). Dai dati empirici raccolti attraverso studi comparativi sulle politiche di genere è emerso come una dimensione intersezionale sia per lo più assente nelle politiche e una presenza sia rilevabile più a livello di diagnosi che di prognosi e soluzioni o vere e proprie misure di policies. Sono stati rilevati anche pregiudizi attivi verso altre disuguaglianze, in particolare la presentazione della configurazione razza/etnicità/paese di origine con modalità razziste (Verloo & Lombardo, 2009).

Poiché le politiche di genere non possono essere considerate esse stesse immuni da stereotipi e frequentemente rivelano una comprensione del genere che tende a conservare le gerarchie di potere esistenti tra le donne e a lasciare sotto silenzio l’“alterità”, le autrici concludono come la dimensione intersezionale non possa che aumentare proprio l'auto riflessività delle politiche di genere nella forma di un’autocoscienza dei propri pregiudizi culturali da parte dei policy makers. Dubbi e questioni aperte permangono riguardo ai problemi legati alle solidarietà tra gruppi, così come alla competizione e alle procedure istituzionali che potrebbero in parte volontariamente favorire l'uno o l'altra. Questioni di potere si pongono anche riguardo all’accesso a risorse scarse e a processi di territorializzazione/monopolizzazione, questioni delle quali in particolare i decisori politici dovrebbero essere particolarmente consapevoli per tentare politiche che possano promuovere cooperazione tra gruppi. Anche a

49 questo riguardo si sottolinea l’importanza di guardare ai processi di apprendimento e deliberazione tra gruppi, studiando le modalità per risolvere tensioni e contestazioni tra ed entro i gruppi continuando a tenere vivi i dibattiti che sono in corso (Verloo & Lombardo, 2009, p.79).