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Capitolo 4: il processo a carico dell’ente La messa alla prova.

7. L’ordinanza del Tribunale di Milano

L’ordinanza emanata dal Tribunale di Milano il 27 marzo 2017, attualmente è l’unica pronuncia edita in materia e soprattutto è di segno contrario rispetto a tutto quanto finora è stato ipotizzato.

Nello specifico, la difesa di una Società a responsabilità limitata chiamata a rispondere di un illecito ex D.lgs 231/2001 chiedeva al Tribunale di Milano che il procedimento fosse sospeso per un determinato periodo di tempo, all’interno del quale potesse essere svolto un programma di trattamento che prevedeva, in capo all’ente, l’esecuzione del lavoro di pubblica utilità.

Il tribunale milanese ha respinto l’istanza difensiva, escludendo pertanto la possibilità che tale istituto possa trovare applicazione anche nei confronti degli enti.

Il ragionamento, su cui la decisione del tribunale si è basata parte da una prima constatazione, ovvero che nessuna norma di cui agli articoli 168-bis c.p., 464-bis c.p.p., e neppure del D.lgs 231/2001, prevede espressamente che l’ente possa avvalersi dell’istituto in esame e che quindi l’unica strada interpretativa per risolvere la questione riguarda la possibilità di un’applicazione analogica dell’istituto.

Partendo da tali premesse, l’organo giudicante milanese si è poi soffermato sulla natura della messa alla prova, analizzando se l’istituto abbia natura di diritto processuale, e questo non sarebbe di ostacolo a eventuali interpretazioni analogiche, oppure di diritto sostanziale, e in

tal caso precluderebbe ogni possibilità di estensione dell’istituto in

malam partem, stante il principio costituzionale della riserva di legge.

Il Tribunale, basandosi sulle recenti conclusioni a cui le Sezioni Unite erano pervenute, ha riconosciuto che la messa alla prova ha 202

una dimensione squisitamente ibrida e racchiude al suo interno sia profili di diritto processuale che aspetti più sostanziali.

La natura processuale della messa alla prova, si osserva nell’ordinanza, “la colloca nell’ambito dei procedimenti alternativi al giudizio” e “realizza una rinuncia alla potestà punitiva condizionata al buon esito

di un periodo di prova controllata e assistita”. Del resto il Tribunale

riconosce “soprattutto la natura sostanziale dell’istituto, che persegue

scopi socialpreventivi in una fase anticipata, in cui viene ‘infranta’ la sequenza cognizione-esecuzione della pena in funzione del raggiungimento della risocializzazione”. Stante la dimensione di

diritto sostanziale della messa alla prova, il tribunale si ricollega ai corollari del principio di legalità ex art. 25, comma 2 Cost. in materia penalistica, forte anche di quanto affermato dalla recente giurisprudenza costituzionale , in forza del quale il potere di 203

normazione di materia penalistica, in quanto incidente sui diritti fondamentali dell’individuo e, in particolare, sulla sua libertà personale, è riservato all’organo legislativo e alle fonti primarie . 204

Il tribunale ha poi precisato che “mentre il principio della riserva di

legge può, a certe precise e limitate condizioni, essere relativo quanto alla descrezione del precetto, esso ha carattere assoluto quanto all’individuazione della pena”. Ne consegue così che “la sanzione da

Cass. SS.UU., 31 marzo 2016, n. 36272. 202

si veda la sentenza della Corte Costituzionale 8 ottobre 2012, n.230, in 203

cortecostituzionale.it

M.Miglio, La sospensione del procedimento con messa alla prova non si 204

applicare ad una fattispecie che ne sia priva non può essere rinvenuta attraverso l’interpretazione analogica. In caso contrario l’interprete della legge si trasformerebbe in legislatore con marcata incidenza negativa sia sul principio di certezza sia sulla stessa efficacia determinante delle disposizioni penali coinvolte in siffatta operazione interpretativa, diretta a correlare, con del giudice il comportamento del soggetto attivo del reato ad una pena non costituente oggetto di specifica comminatoria legislativa ”. 205

Sono del tutto intuibili le conclusioni che vengono apportate. “(…) in

assenza, de iure condito, di una normativa di raccordo che renda applicabile la disciplina di cui agli articoli 168-bis c.p alla categoria degli enti, ne deriva che l’istituto in esame, in ossequio al principio di riserva di legge, non risulta applicabile ai casi non espressamente previsti, e quindi alle società imputate ai sensi del D.lgs 231 del 2001”.

la parte della sentenza qui citata richiama Cass. SS.UU., 26 maggio 1984, 205

Conclusioni.

A distanza di ormai quasi vent’anni dall’entrata in vigore del Decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, che sanciva il rovesciamento del principio riassunto nel brocardo “societas delinquere non potest”, introducendo nel diritto penale dell’economia la disciplina delle fattispecie di responsabilità della persona giuridica, un costante e cospicuo lavoro dottrinale e una notevole produzione giurisprudenziale sono intervenuti sui diversi e molteplici aspetti della materia, sia in termini sostanziali che processuali, pur non risolvendo pienamente, a tutt’oggi, molte delle questioni che inevitabilmente si sono aperte in termini di interpretazione e applicazione, per effetto dell’introduzione nel nostro ordinamento della punibilità degli enti collettivi.

Questioni in parte direttamente legate alla lettera della legge, in parte evidenziatisi nella concreta applicazione alle diverse fattispecie, anche in relazione ai rapidi mutamenti della società e dell’economia e al costante ampliamento del catalogo dei reati, tuttora in progressiva evoluzione (si pensi soltanto alle implicazioni relative, in senso ampio, alla gestione e all’utilizzo dell’enorme massa dei dati digitali e, proprio in questi ultimi giorni, alle sempre più realistiche prospettive di

introduzione nel catalogo della legge di reati societari di natura tributaria in relazione all’imminente termine per l’applicazione della Direttiva 2017/1031 in materia di tutela penale degli interessi

finanziari dell’Unione Europea).

E’ fuor di dubbio che una delle questioni principali che il legislatore ha dovuto affrontare e che ha impegnato e tuttora impegna dottrina e giurisprudenza è quella riguardante il processo a carico dell’ente, da cui discendono i numerosi profili di compatibilità e di incompatibilità con il processo a carico della persona fisica.

Se è vero infatti che, per scelta stessa del legislatore delegato,

l’impianto del d. lgs 231/2001 configura un “micro codice” autonomo, è altrettanto vero che il rinvio stabilito dall’art. 34 alle disposizioni del codice di procedura penale e del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, in quanto compatibili, ha determinato un sistema ibrido nel quale la questione della ‘compatibilità’ si è posta e si pone in tutte le fasi del processo penale a carico dell’ente, con maggiore o minore complessità a seconda delle diverse fasi e dei diversi riti vigenti.

Così è in tema di garanzie per l’ente incolpato ai fini della

partecipazione e della garanzia del diritto di difesa in tutti gli stati e i processuali, anche in relazione alla necessità di individuare la persona fisica destinataria per l’ente di tali garanzie, in merito alla

giurisdizione, alla competenza e a tutte le questioni connesse al tema del dualismo che si crea nel simultaneus processus, dalla

rappresentanza dell’ente, alla difesa di fiducia, all’ufficio di testimone. Gli aspetti più rilevanti di compatibilità e incompatibilità nel processo all’ente rispetto a quello nei riguardi della persona fisica si registrano senz’altro nell’ambito dei riti speciali.

Uno di essi è rappresentato nella previsione del comma 4 dell’art. 62, laddove si dispone l’impossibilità di accedere al giudizio abbreviato in presenza di una sanzione interdittiva definitiva. Si tratta di una

evidente divergenza tra le condizione di imputato dell’uno e dell’altro soggetto, che l’art. 35 equipara, ma che il citato art. 62 differenzia nell’accessibilità al rito in questione, dal momento che la disciplina codicistica non conosce esclusioni, fianco nei procedimenti per fattispecie che prevedono la pena dell’ergastolo, affidando in secondo luogo alla discrezionalità del giudice il vaglio della domanda di rito e la decisione di concedere l’accesso in una fase in cui oltretutto le sanzioni definitive non sono ancora state irrogate.

Vi è poi sempre al riguardo del rito abbreviato la questione della legittimazione attiva alla richiesta di definizione alternativa, che investe le problematiche relative alla natura dei soggetti destinatari dell’imputazione, con riguardo alle vicende modificative che la persona giuridica potrebbe aver subito (operazioni straordinarie, ad esempio), alla figura del difensore in caso di non comparizione del legale rappresentante, alla mancata costituzione dell’ente, tutte questioni, insieme ad altre, riguardanti la necessità di rendere il procedimento nei confronti dell’ente-imputato idonee ad assicurare tutte le garanzie difensive della persona-imputato.

Altro istituto nel quale emergono consistenti profili di compatibilità e incompatibilità rispetto alla disciplina codicistica è quello della sanzione su richiesta, in particolare riguardo ai presupposti speciali di ammissibilità del rito, anche in relazione alle connessioni con

l’eventuale definizione da parte dell’imputato persona fisica ai sensi dell’art. 444 c.p.p., oltre alla condizione che l’illecito amministrativo contestato sia punibile con la sola sanzione pecuniaria, e ai presupposti ordinari, per i quali l’art. 34 funge da filtro rispetto alla disciplina codicistica. Anche in questo rito il controllo del giudice assume una fondamentale importanza sia in termini di verifica dei requisiti formali e temporali, sia sull’inapplicabilità di sanzioni interdittive in via definitiva, rivestendo perciò un ruolo, come si è detto a proposito del rito abbreviato, di estrema discrezionalità.

Un’altra questione controversa riguarda l’ammissibilità della confisca in caso di patteggiamento, sulla quale la dottrina si è divisa, ma la conclusione a cui si giunge è circa la sua ammissibilità, per effetto della sommatoria tra i tre elementi dell’obbligatorietà ex art. 19, della natura stessa della sentenza di patteggiamento e della previsione di

confisca del profitto anche in caso di assenza di responsabilità dell’ente.

Ultimo, ma non l’ultimo, l’istituto della sospensione con messa alla prova ha determinato uno dei più importanti motivi di richiesta di rivisitazione del d. lgs 231, in quanto non previsto nel decreto per ovvi motivi, non essendo al tempo presente nel codice di procedura penale. L’eventuale applicazione al processo all’ente comporta però la

valutazione di una serie di aspetti di compatibilità rispetto alla persona, in primis quello della preclusione di carattere quantitativo-qualitativo, valutazione che evidenzia una sostanziale compatibilità, con delle eccezioni rispetto all’ampio spettro del catalogo dei reati “231”.

Rimangono aperte questioni relative ai requisiti soggettivi, ai contenuti della prova, evidentemente diversi tra persona ed ente, al profilo compensativo-reintegrativo, all’affidamento al servizio sociale, al lavoro di pubblica utilità, inteso come contributo effettivo in termini sociali e di riparazione dei costi sostenuti dalla collettività a causa dell’illecita condotta dell’ente, ai criteri decisori affidati al giudice per disporre la messa alla prova.

Tutte tali questioni si incrociano con il ruolo e la dimensione del Modello Organizzativo e in particolare la sua predisposizione ex ante, che potrebbe anche fungere da requisito discriminante per

l’ammissione alla messa alla prova.

Molteplici questioni aperte, che la giurisprudenza sin qui non ha affrontato, se si esclude la pronuncia del Tribunale di Milano con l’ordinanza emanata il 27 Marzo 2017, escludendo la possibilità dell’estensione all’ente dell’istituto, in forza della sua natura

sostanziale e alla riserva assoluta di legge in materia di individuazione della pena, che porta ad escludere qualsiasi applicazione analogica.

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