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Alternative e variazioni interne al processo a carico dell'ente. La compatibilità dei riti speciali

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Academic year: 2021

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Capitolo 1. Origini e aspetti principali del Decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231.

1. Societas delinquere er puniri potest. ………..5
 2. Il D.lgs 231/2001: natura giuridica della responsabilità dell’ente…8



 2.1. La natura amministrativistica. ………..9
 
 2.2. La natura penalistica………10
 
 2.3. Il tertium genus………..11
 3. I destinatari e gli esclusi della disciplina ex D.lgs 231/2001…….13


3.1. I “destinatari”……..………..14


3.2. Gli “esclusi”………16
 4. Gli autori materiali del reato e il loro rapporto funzionale con

l’ente…..……….18
 5. La commissione del reato nell’interesse o a vantaggio dell’ente.22
 6. L’interesse e vantaggio nei reati colposi………..24
 7. Il principio di autonomia della responsabilità degli enti………….27


7.1. L’esenzione da responsabilità……….30


Capitolo 2. Il processo a carico dell’ente. Aspetti generali di compatibilità e incompatibilità con il processo alla persona fisica. 1. Una soluzione ibrida………36
 2. Gli aspetti di compatibilità con i principi fondanti del

procedimento………38


Sub a) “ente incolpato”, “ente quasi imputato”………..40


Sub b) Giurisdizione e competenza………..42


Sub c) L’improcedibilità………..44


Sub d) Il simultaneus processus; casi di separazione………45


Sub e) La rappresentanza dell’ente: modalità di costituzione…..49


Sub f) Il difensore di fiducia……….52


(2)

Sub g) L’incompatibilità con l’ufficio di testimone………..53
 3. Le indagini preliminari………..56


Sub a) La notizia di reato……..………..57


Sub b) I limiti cronologici……….59


Sub c) L’avviso di conclusione delle indagini preliminari; un dubbio interpretativo……..……….64


Sub d) L’informazione di garanzia……….65


Sub e) L’archiviazione………..68
 4. L’udienza preliminare………71


Sub a) La contestazione dell’illecito amministrativo………..71


Sub b) Modalità di contestazione………..73


Sub c) Decadenza dalla contestazione……….74


4.1. I provvedimenti emessi in udienza preliminare………76


Sub a) Gli atti preliminari………76


Sub b) La costituzione delle parti……….79


Sub c) La discussione…………,,,……….81


Sub d) La sentenza di non luogo a procedere………..82


Sub e) Il decreto che dispone il giudizio e la formazione del fascicolo per il dibattimento………83

Capitolo 3. Il processo a carico dell’ente. I riti speciali.

1. Premessa………85
 2. Il giudizio abbreviato………86


2.1. I profili generali………..86


2.2. Gli aspetti di compatibilità e incompatibilità………88


2.2.1. Il presupposto speciale………..88


2.2.2. L’art. 438 c.p.p………90
 


Sub a) la legittimazione alla richiesta di definizione alternativa.


(3)

Sub b) la forma della richiesta………..…94


Sub c) i termini per la proposizione della richiesta…………95


Sub d) la forma del provvedimento dispositivo del giudizio.
 ………..………98


Sub e) la richiesta semplice e la richiesta condizionata…..98


Sub f) il diritto del pubblico ministero alla prova contraria..99


Sub g) il controllo del giudice……….………100


Sub h) il diniego di accesso al rito e possibili rimedi…….103



 2.2.3. L’art. 441 c.p.p. ………..107
 
 2.2.4. L’art. 441-bis c.p.p. ………..……….110
 
 2.2.5. L’art. 442 c.p.p. ………..111
 
 2.2.6. L’art. 443 c.p.p. …………..………116
 


2.3. Gli effetti premiali………119


3. L’applicazione della sanzione su richiesta………120


3.1. I profili generali………120


3.2. Gli aspetti di compatibilità e incompatibilità………..123


3.2.1. I presupposti speciali di ammissibilità del rito……….123


3.2.2. I presupposti ordinari………..………125


3.2.3. Il procedimento………..………..128


3.2.4. Il controllo del giudice………..129


3.2.5. I possibili esiti della richiesta di applicazione di una sanzione………..131


3.3. La sentenza di patteggiamento………132


3.4. Gli effetti premiali………..……….133


3.5. L’ammissibilità della confisca in caso di patteggiamento…134


3.6. L’ impugnazione della sentenza di patteggiamento…….…137


(4)

4. Il procedimento per decreto………….………138



 4.1. I profili generali………138



 4.2. Gli aspetti di compatibilità e incompatibilità………..140



 4.2.1. I presupposti ordinari………..………140



 4.2.2. L’iter processuale……….141



 4.2.2.1. La richiesta del pubblico ministero………141



 4.2.2.2. Il controllo del giudice……….…142



 4.2.2.3. il decreto di applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria………..………..143



 4.3. Gli effetti premiali………144



 5. Il giudizio immediato e il giudizio direttissimo: difficoltà pratiche…..……….145

Capitolo 4: il processo a carico dell’ente. La messa alla prova. Un’ipotesi applicativa. 1. Premessa……….148


2. Profili generali………..149


3. Requisiti oggettivi e soggettivi di ammissibilità……….150


4. I contenuti della prova………..……….…152



 4.1 Profilo compensativo-reintegrativo………..…153



 4.2 L’affidamento al servizio sociale………154



 4.3 Il lavoro di pubblica utilità………..…155


5. Criteri decisori per l’ammissione al rito………..156


6. La messa alla prova e la rivalutazione del Modello organizzativo………158


7. L’ordinanza del Tribunale di Milano………..……..160

Conclusioni ………..163

(5)

Capitolo 1. Origini e aspetti principali del Decreto Legislativo 8 Giugno 2001, n. 231.

1. Societas delinquere et puniri potest.

L’articolo 27 della Costituzione, al primo comma, recita che “la responsabilità penale è personale” e con tale importante assetto si è ritenuto per lungo tempo di escludere la possibilità che il diritto penale potesse reprimere condotte non ascrivibili all’azione di una persona fisica ed escludendo quindi una possibile responsabilità penale per fatto altrui. Tale impostazione rendeva impossibile prevedere l’imputazione di una responsabilità penale in capo all’ente.

Quanto appena detto veniva riassunto nel brocardo “societas

delinquere non potest” , in quanto a fatica si poteva prefigurare una 1

condotta delle persone giuridiche, intesa come elemento del reato, oppure una loro “coscienza e volontà”, presupposto necessario per addebitare loro un rimprovero di colpevolezza; ancora, risultava impensabile adottare nei loro confronti la sanzione penale per eccellenza, la pena detentiva. Tutto ciò aveva condotto ad una esclusione tout court di qualsiasi soggetto diverso dalla persona fisica dall’elenco dei soggetti muniti di capacità penale.

Numerosi sono gli elementi che venivano portati a sostegno della tesi enunciata:

Concetto che presuppone il compimento dell’azione penalmente rilevante 1

da parte di un soggetto-persona fisica; ad avallare ciò, vi è l’idea hegeliana che intende la condotta come espressione della “volontà realizzata”, e dunque la condotta penalmente rilevante può essere posta in essere solo da un soggetto in grado di autodeterminarsi tramite scelte razionali; in tal senso, M. Riverditi “la responsabilità degli enti: un crocevia tra repressione e specialprevenzione”, Jovene Editore, Napoli, 2009, pag. 8.

(6)

Il concetto di persona, intesa come soggetto portatore di diritti o soggetto di diritto , deve necessariamente coincidere con il concetto di 2

uomo. Diritti che possono essere estesi anche alle persone giuridiche ma solo per mezzo di una fictio, la quale è creata e voluta dal legislatore ed è l’unica fonte di uguaglianza tra persona fisica e persona giuridica. Quindi, il giudizio penale non può e non deve basarsi su concetti astratti e soprattutto non può attribuire alcuna volontà, condotta o pena ad una persona ficta.

Lo stesso primo comma dell’art. 27 della Costituzione, come già detto, enuncia il divieto di responsabilità per fatto altrui, rendendo incostituzionale l’irrogazione di sanzioni all’ente in luogo della persona fisica. A ciò si aggiunga poi anche il fatto che le sanzioni eventualmente irrogate nei confronti delle persone giuridiche avrebbero colpito inevitabilmente anche persone terze innocenti, quali ad esempio i dipendenti e i soci dell’ente. Infine, analizzando anche il terzo comma dell’art. 27 Cost., il quale attribuisce alla sanzione una funzione di rieducazione, si evidenzia la necessità che il soggetto destinatario della punizione sia essere in grado di capire il motivo della sua sanzione al fine di poter riceverne una correzione, cosa che risulta difficile se si pone mente alla società come soggetto non pensante. Tutto ciò ha comportato un “costo” che è stato pagato dal diritto 3

penale dell’economia, in quanto tale disciplina ha potuto indirizzare i propri precetti e le proprie sanzioni solamente nei confronti degli autori materiali dei fatti penalmente rilevanti, nonostante le società

Art. 1 Cod. Civ.: “La capacità giuridica si acquista dal momento della 2

nascita”.

Al costo dell’esclusione della responsabilità penale degli enti si riferiva il 3

titolo del saggio di Franco Bricola, Il costo del principio ‘societas delinquere non potest’ nell’attuale dimensione del fenomeno societario, in Riv. it. dir. proc. pen., 1970, p. 951 ss.

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commerciali abbiano avuto un ruolo centrale e prevalente nello svolgimento dell’attività d’impresa.

L’avvento dell’impresa organizzata moderna, nuova entità rispetto al passato, che si caratterizza per essere un’organizzazione orientata a un fine economico e soprattutto per essere “autonomo centro di interessi e rapporti giuridici, punto di riferimento di precetti di varia natura, e matrice di decisioni ed attività di soggetti che operano in nome, per conto o comunque nell’interesse della società”, mette in crisi tale sistema.

Sulla base dell’esperienza criminologica si inizia a realizzare come gli enti collettivi a struttura complessa e organizzata ricoprano ruoli centrali e soprattuto non subalterni rispetto alle persone fisiche, nella criminalità economica. Due erano le fattispecie tipiche in cui si individuava tale partecipazione della società: casi in cui l’attività dell’ente, seppur esso non fosse nato con lo scopo di realizzare reati, aveva per oggetto una politica aziendale volta al loro conseguimento; casi in cui la commissione di reati era dovuta a un difetto di controllo da parte delle figure apicali nei confronti dei loro subordinati oppure da una non efficace organizzazione interna.

Si è presa, pertanto, coscienza della capacità di delinquere degli enti, iniziando quindi a vedere crollare quel dogma secondo cui “societas

delinquere non potest”, assumendo consapevolezza del fatto che quelle

ragioni del passato in base alle quali si escludeva una qualsiasi possibilità di colpevolizzazione dell’ente, adesso potevano e dovevano essere relativizzate e adattate alle peculiarità della responsabilità della

societas.

Tanto per ragioni di politica criminale quanto per ragioni indirizzate alla tutela di quei soggetti terzi innocenti che ingiustamente potrebbero subire dei pregiudizi, molti sono stati e sono tutt’ora gli atti di diritto

(8)

sovranazionale diretti a promuovere e a sollecitare gli Stati a prevedere una specifica normativa per punire gli enti in relazione alla commissione di illeciti penali.

L’ordinamento italiano ha nel giugno del 2001 finalmente recepito tale

input, con l’emanazione del d.lgs 231/2001, attuativo della legge

delega 29 settembre 2000 n.300, il quale contiene la “disciplina delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica”.

Tale decreto legislativo sancisce definitivamente il superamento dell’ormai vecchio dogma per cui societas delinquere et puniri non

potest per approdare ad una nuova epoca, in cui invece societas delinquere et puniri potest.

2. Il D. Lgs,. 231/2001: natura giuridica della responsabilità dell’ente.

Entrando nel merito della disciplina, un primo aspetto da analizzare riguarda la natura giuridica della responsabilità che viene imputata all’ente, in quanto tanto nella rubrica che nel suo articolo 1 la legge parla rispettivamente di “responsabilità amministrativa” e di “responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato”. Tale aspetto ha alimentato il dibattito sulla natura della responsabilità, tutt’ora aperto sia in dottrina che in giurisprudenza, e la questione rileva ai fini dell’applicazione pratica delle norme, allo scopo di determinare se a tale tipo di responsabilità debba applicarsi, nel caso in cui si ritenga di vertere in materia di responsabilità penale, il principio di colpevolezza oltre ad altri istituti di diritto penale sostanziale.

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2.1. Natura amministrativistica . 4

A favore di tale orientamento depone il tenore letterale, dato non di poco conto, visto che manifesta espressamente la volontà del legislatore delegato di sottrarre le sanzioni del d.lgs 231/2001 ai circuiti del diritto penale. Per di più, se si guarda alla disciplina generale del decreto, una serie di istituti da esso previsti, quali il regime quinquennale della prescrizione dell’illecito e la disciplina degli atti interruttivi, sembrano avvicinarsi allo schema del modello amministrativo. 


Ad avallare tale orientamento vengono indicate le norme regolanti l’allocazione della responsabilità in caso di vicende societarie modificative come la fusione e la scissione e soprattutto la previsione del meccanismo di inversione dell’onere probatorio tipizzato dall’art.6 nel caso in cui a commettere il reato presupposto sia un soggetto in posizione apicale.


A tutt’oggi parte minoritaria della giurisprudenza aderisce a tale orientamento.


A sostegno di tale orientamento, Trib. Milano, G.i.p. Forleo, ord. 9 marzo 4

2004, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 1333, con nota di C.F. GROSSO, Sulla costituzione di parte civile nei confronti degli enti collettivi chiamati a rispondere ai sensi del d.lgs n. 231 del 2001 davanti al giudice penale, ivi, p. 1335 ss; Trib. Milano, G.i.p. Tacconi, ord. 25 gennaio 2005, Italaudit s.p.a, in Soc.,2005, p. 1441, con nota di BARTOLOMUCCI, ivi, p. 1443; Trib. Milano, sez. X, ord. 3 marzo 2005, p.3, in www.rivista231.it; Trib. Milano, G.i.p. Vanarelli, ord.18 gennaio 2008, p.4, ivi ed anche in Cass.pen., 2008, p. 3858 ss; Trib. Torino, II Corte di Assise, 15 aprile 2011, Thyssenkrupp, in Soc., 2012, p. 100

(10)

2.2. Natura penalistica . 5

Orientamento dottrinale prevalente, esso qualifica in termini penali il modello di responsabilità ex d.lgs. 231/2001, sostenendo che sussistono una serie di indici sistematici idonei a superare l’etichetta normativa formale .
6

Per prima cosa si fa notare come il principale presupposto applicativo della responsabilità degli enti, da cui deriva solitamente l’inquadramento giuridico dell’illecito, consista nella commissione di un illecito penale, cioè di un reato che trasmette all’ente l’impronta del crimine.


Altro elemento a sostegno di tale orientamento discende dall’essere attribuita la competenza per l’accertamento del fatto e l’irrogazione delle sanzioni all’organo giudiziario penale, e non ad un apparato della Pubblica Amministrazione, nell’ambito dello stesso processo per la persona fisica. C’è poi da aggiungere che i principi governanti la

Cass., sez. II, 30 gennaio 2006, n.3615, Jolly Mediterraneo s.r.l., in casa. 5

pen.,2007, p.74 ss; Trib. Torino, ord. 11 giugno 2004, in riv. trim. dir. pen. Ec., 2004, p.294 ss., con nota di A.NISCO;

A sostegno della tesi sulla natura penalistica, S . M. CORSO, Codice della 6

responsabilità “da reato” degli enti, Giappichelli, Torino, 2014, p. 238 ss; G. ARIOLLI, La costituzione di parte civile nel processo a carico degli enti, in www.ratiolegis.it; F. AVERSANO, A. LAINO e A.MUSIO, Il danno all'immagine delle persone giuridiche. Profili civilistici, penalisti ed erariali., Giappichelli, Torino, 2012; A. BERNASCONI, Responsabilità amministrativa degli enti (profili sostanziali e processuali),in Enciclopedia del diritto, Annali, vol. II, tomo II, Milano, Giuffrè, 2008, pp. 957-1015; D PULITANO’, ibidem; K .TIEDEMANN, La responsabilità penale delle persone giuridiche nel diritto comparato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, fasc. 3, p. 625; A.ALESSANDRI, Riflessioni penalistiche sulla nuova disciplina, in La responsabilità amministrativa degli enti, AA.VV., Ipsoa, 2002; C. BERTEL, La responsabilità penale delle persone giuridiche, in Riv. trim. dir. pen. ec., 1998; M. NUCCIO, La colpa di organizzazione alla luce delle innovazioni legislative apportate dalla legge 123/2007, in Resp. amm. soc. ent. , 2008, 1.

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materia, contenuti negli articoli 2 e 3 del decreto (e nello specifico riserva di legge, irretroattività favorevole, retroattività favorevole), sono quelli propri del diritto penale e sono per di più scritti con un lessico che riprende quello del codice penale. Lo stesso vale per il rito processuale, che riprende esattamente le cadenze di quello penale e alle cui regole si fa espresso richiamo in quanto compatibili (art. 34). 
 Guardando poi alla struttura dell’illecito, i criteri ascrittivi della responsabilità girano intorno al nucleo della “colpa di organizzazione” ovvero la mancata adozione o il mancato rispetto di standard organizzativi doverosi .
7

Infine, a sostegno della natura penalistica di tale responsabilità, sono da sottolineare indizi quali la previsione della punibilità del tentativo, del tutto irrilevante nel sistema degli illeciti amministrativi ex l. 689/1981 e l’assetto complessivo dell’apparato sanzionatorio.


2.3. Tertium genus.

L’impostazione attualmente più diffusa, soprattutto nell’indirizzo giurisprudenziale, è rappresentata da un tertium genus.


Essa pone la natura della responsabilità dell’ente in una categoria ibrida, perché non altrimenti collocabile se non con forzature e distonie, in uno dei sotto-sistemi sanzionatori disciplinati dal nostro

Decreto Legislativo 231/2001: la colpa di organizzazione, su 7

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ordinamento giuridico nazionale .
8

Quello che si può dire a riguardo di tale orientamento è che esso gioca, all’interno di questa diatriba circa la natura di tale responsabilità, un ruolo conservatore molto vicino al primo orientamento citato, favorevole ad una natura amministrativistica.


Tale orientamento però non fornisce argomentazioni idonee a poter rispondere agli interrogativi circa quale sia la disciplina analogicamente applicabile al fine di colmare lacune normative o per risolvere dubbi interpretativi.

Presa coscienza del fatto che nella prospettiva interna il modello di responsabilità descritto dal d.lgs 231/2001 presenta una connotazione ibrida, in quanto ci sono punti in comune tanto con il sistema penale quanto con il sistema sanzionatorio amministrativo, l’analisi più fruttuosa sembra essere quella che colloca la responsabilità dell’ente nella sfera della materia penale.


Alla luce di tale inquadramento e sulla base del principio di coerenza e unità dell’ordinamento dovrebbe poi seguire una logica estensione di tutti i principi che regolano la materia nell’ordinamento interno e se del caso anche l’applicazione in via analogica della relativa disciplina.

In tale direzione va soprattutto Cass., sez. VI, 17 luglio 2009, n.36083, 8

Mussoni, in Cass. pen., 2010, p. 1938 ss., secondo cui il d.lgs n. 231/2001 “ha introdotto un nuovo sistema di responsabilità sanzionatoria, un tertium genus rispetto ai noti e tradizionali sistemi di responsabilità penale e di responsabilità amministrativa, prevedendo una autonoma responsabilità amministrativa propria dell’ente,dell’ente, allorquando è stato commesso un reato (…) da un soggetto che riveste una posizione apicale nell’interesse o vantaggio della società (…), sul presupposto che (…) il fatto-reato commesso da un soggetto che agisca per la società è fatto della società di cui essa deve rispondere”; Cass., Sez VI, 16 luglio 2010, n. 27735, Brill Rover, in Cass. pen., 2011, p.1876 ss., e in Soc., 2010, p.1243 ss.

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3. I destinatari e gli esclusi dalla disciplina ex D.lgs 231/2001.

Ai commi 2 e 3 dell’art 1 del decreto legislativo, il legislatore delegato individua gli enti “destinatari” della disciplina punitiva e quelli invece che ne sono esclusi.


I destinatari sono gli enti forniti di personalità giuridica e le società, nonché le associazioni anche prive di personalità giuridica.


Gli enti esclusi invece, sono: lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli enti pubblici non economici e gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.


Il legislatore delegato, al fine di non generare potenziali lacune nelle elencazioni tassative e casistiche, ha optato per una selezione dei soggetti attraverso elementi normativi generali e sintetici, ma ciò nonostante, dietro a questa apparente chiarezza semantica, si ritrovano non pochi elementi di difficoltà nell’interpretazione, tali per cui ancora oggi risulta incerta la copertura sanzionatoria del d.lgs 231/2001.


È comunque possibile desumere, almeno in linea teorica, dalla complessiva articolazione normativa e dalle ragioni di politica criminale dirette all’introduzione della corporate liability (responsabilità aziendale), alcuni criteri sistematici funzionali ad orientare l’interpretazione in merito all’inclusione oppure no di determinati enti tra i destinatari della disciplina:

• Autonomia soggettiva: tale da evidenziare una possibile spaccatura tra l’interesse o il vantaggio dell’ente, art. 5 d.lgs 231/2001, e quello della persona fisica che lo gestisce e/o che si pensa autore materiale del reato.

• Finalità lucrativa: ossia il carattere tipico della criminalità “del profitto”, che rappresenta un carattere paradigmatico dei corporate

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• Autonomia patrimoniale: l’ente è titolare di un patrimonio proprio o di un fondo comune.

• Composizione collettiva e struttura organizzativa, che sia tale per cui si possa muovere un rimprovero di colpa di organizzazione all’ente. Questi caratteri che molto aiutano nell’individuazione dei destinatari della disciplina, in realtà non sono stati adeguatamente normativizzati all’interno del disposto normativo ex art.1 d.lgs 231/2001, il quale invece lascia ampio margine all’interprete per letture assai estensive dell’ambito soggettivo di applicazione del sistema punitivo delle

societas.

3.1. I “destinatari”.

Il comma 2, a causa della sua formulazione, è in grado di includere un novero di destinatari collettivi assai ampio. Ciò che preme innanzitutto osservare è attraverso l’indicazione dell’applicabilità, oltre che alle persone giuridiche, anche alle associazioni prive di personalità giuridica, il legislatore ha allo stesso tempo ottenuto un duplice effetto: da un lato contrasta possibili modalità di aggiramento della normativa, dall’altro rende possibile estendere il riferimento della legge alla generale categoria degli enti.

É quindi stato possibile, grazie a questa generica formulazione, ricomprendere all’interno del comma 2 le più svariate forme giuridiche qualificanti le organizzazioni collettive: le società commerciali, le società di capitali e di persone, le cooperative, le società fiduciarie, le mutue assicuratrici, le fondazioni anche bancarie.

Qualche dubbio invece si è avuto con riferimento alle società occulte e le società apparenti, sulla base di motivi riguardanti non solo la

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difficoltà probatoria della sussistenza di una struttura organizzata collettiva ma anche la scarsa funzionalità della sanzione.

Altro aspetto controverso riguarda quegli enti che sono formalmente riconducibili ad un unica persona e che quindi per forza di cose si caratterizzano per quella concreta coincidenza tra persona fisica e entità giuridica, le c.d società unipersonali. A riguardo la giurisprudenza di merito si è espressa affermando una applicabilità 9 optimo iure del d.lgs 231/2001 nei confronti di quest’ultime e quanto

affermato è stato poi suffragato da una parte della dottrina, la quale ha sottolineato come, pur non avendo tali enti carattere collettivo, essi sono caratterizzati sul piano giuridico da un’autonomia soggettiva rispetto alla persona fisica e da un patrimonio proprio separabile da quello della persona fisica ( sono alcuni di quei caratteri che in precedenza sono stati analizzati al fine di poter individuare, in linea teorica, i destinatari della normativa).

Diverso è poi il caso delle imprese individuali. A riguardo si sono registrati orientamenti divergenti della giurisprudenza. Nello specifico si possono indicare tre sentenze della suprema corte: la prima del 2004 nella quale se ne affermava chiaramente l’esclusione dal novero 10

dei destinatari del d.lgs 231/2001: la seconda, del 2011 , nella quale si 11

ribaltava completamente la situazione e si prevedeva l’applicabilità della disciplina punitiva anche alle imprese individuali, tale pronuncia è stata oggetto di molte contestazioni perché con tale estensione di applicabilità si andava contro i principi basici del decreto: la terza, del

Cfr. Trib. Milano, 12 marzo 2008 e Trib. Milano, 28 aprile 2008, tutte e due 9

su www.rivista231.it

Cass., sez. VI, 22 aprile 2004, Ribera, in Cass. pen., 2004, p. 4046 ss., con 10

nota di P. DI GERONIMO, La Cassazione esclude l’applicabilità alle imprese individuali delle responsabilità da reato prevista per gli enti collettivi: spunti di diritto comparato.

Cass., sez. III, 20 aprile 2011, n. 15657, in Cass.pen., 2011, p.2556 ss. 11

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2012 , ridimensionava la situazione, facendo passare la precedente 12

sentenza come un “incidente giurisprudenziale”, e riaffermava la pacifica esclusione delle imprese individuali dal novero dei destinatari

ex d.lgs 231/2001.

3.2. Gli “esclusi”.

Il comma 3 dell’art 2 individua i soggetti esclusi dalla disciplina e nel farlo li ripartisce in tre categorie:

-

Stato e enti pubblici territoriali: tale categoria è espressione di una scelta politico-criminale ben precisa del legislatore che è diretta ad 13

auspicare una corresponsabilizzazione anche di tali enti per la commissione di reati da parte di amministratori e dipendenti pubblici.


Per di più nella legge delega si faceva riferimento solo allo Stato, ma il legislatore delegato ha voluto estendere l’esclusione anche agli altri enti territoriali perché parimenti dotati di “titolarità di poteri tipicamente pubblicistici”, anche per motivi di “equiparazione sistematica” e per rispettare “una esigenza di ragionevolezza delle scelte legislative”.


Quindi oltre che allo Stato, alle Regioni, Province, Comuni, ci si deve riferire anche alle Città metropolitane e le Comunità montane.


Cfr. Cass., sez. VI, 16 maggio 2012, n.30085, in C.E.D. Cass., n. 25299 12

secondo cui “deve rilevarsi, incidentalmente, che la normativa sulla responsabilità delle persone giuridiche non si applica alle imprese individuali, in quanto si riferisce ai soli soggetti collettivi”; non sembra credibile che si sia trattato di un inciso non meditato alla luce dell’ampia risonanza critica che la sentenza del 2011 ha avuto nel dibattito dottrinale.

La legge delega in vero si riferiva espressamente solo allo Stato, ma il 13

legislatore delegato ha voluto aggiungere gli altri enti territoriali perché parimenti dotati di “titolarità di poteri tipicamente pubblicistici”: cosi Relazione, cit., § 2.

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Altri enti pubblici non economici: questa formulazione è espressione diretta della scelta estensiva operata dal legislatore delegato, il quale, al fine di evitare possibili incertezze applicative, ha preferito sostituire con tale formula quella contenuta nella legge delega, che si riferiva “agli enti pubblici che esercitano pubblici poteri” riuscendo cosi a sottrarre dal raggio di azione della nuova normativa anche gli “enti pubblici esercenti un pubblico servizio”.


Ciò nonostante, le incertezze sui confini di applicabilità del d.lgs 231/2001 non sono state affatto risolte, in ragione della mancanza di una definizione pubblicistica/amministrativistica univoca degli “enti pubblici economici” a cui poter far riferimento.


Nel novero dei soggetti pubblici esclusi rientrano tutti gli enti della Pubblica Amministrazione che esercitano il potere pubblico (quindi i Ministeri, le Prefetture, i Tribunali e le agenzie statali, ministeriali e regionali), gli “enti pubblici associativi” come gli ordini professionali e enti come il CONI, l’ACI, la CRI, gli “enti pubblici strumentali” come gli enti di ricerca, quelli culturali e quelli previdenziali.


Aspetti di criticità invece si presentano con riferimento agli enti pubblici che, nonostante esercitino un pubblico servizio e non siano strutturati in forma societaria, tuttavia presentano una determinata autonomia imprenditoriale e sono legati a vincoli di bilancio e obiettivi di economicità e efficienza. Criticità che sono superate dalla dottrina prevalente indirizzata ad escludere tutti gli enti pubblici non strutturati in forma societaria esercenti un pubblico servizio, alla sola condizione che non si tratti di enti inequivocabilmente economici in ragione dello svolgimento privatistico della propria attività.


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puniri potest solo se inserito nel mercato concorrenziale dei beni e

dei servizi e se persegue sostanzialmente finalità lucrative.


-

Enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale: essi sono individuati nei partiti politici e nei sindacati, enti privati previsti dalla costituzione. Prevedere l’impossibilità di applicare la disciplina punitiva ex d.lgs 231/2001 nei loro confronti significa voler tutelare l’esercizio di diritti garanti costituzionalmente che potrebbero esser pregiudicati dall’applicazione di sanzioni interdittive. Tutela che poi è diretta a garantire che tali sanzioni, interdittive e pecuniarie, non vengano utilizzate per reprimere il dissenso politico o sindacale . 14

4. Gli autori materiali del reato e il loro rapporto funzionale con l’ente.

Continuando l’analisi del d.lgs 231/2001, è opportuno osservare che, al fine di procedere all’applicazione della normativa del decreto e quindi di determinare la sussistenza di una “responsabilità amministrativa” dell’ente, è necessario che sussista un rapporto funzionale che lega la persona fisica autrice del reato e l’ente collettivo.


Nello specifico l’art.5 d.lgs 231/2001 individua una duplice categoria di ipotetici autori materiali del reato, utilizzando criteri descrittivi di tipo oggettivo-funzionale, distinzione che risulta essere strumentale a differenziare i criteri soggettivi di ascrizione di responsabilità.

Prima di procedere ad esaminare il contenuto dell’articolo 5, è bene precisare fin da subito che, quando si parla di reato ci si riferisce a quell’elenco tassativo di reati-presupposto che il legislatore delegato e

Decreto legislativo 231/2001: i soggetti esclusi dall’ applicazione della 14

(19)

i legislatori successivi si sono preoccupati di redigere e nel corso del tempo ampliare e aggiornare.

La distinzione contenuta nell’articolo è cosi articolata:


A. Persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso.


Tale è la categoria dei c.d soggetti apicali, la quale è identificata attraverso il riferimento a tre funzioni societarie.


- Funzione di rappresentanza. Essa è esercitata in via organica da soggetti che rivestono specifici ruoli di amministrazione verticistica nell’organizzazione societaria.


Gli amministratori di fatto rappresentano l’ente nei rapporti esterni e gli atti negoziali che essi pongono in essere, impegnano la società verso i terzi.


Diversamente, i soggetti che sono muniti di poteri di rappresentanza conferiti loro per mezzo di atti negoziali di procura generale o speciale, sono inquadrati tra i soggetti subordinati in quanto l’attribuzione di poteri di rappresentanza comporta obblighi di rendicontazione sintomatici della sottoposizione alla direzione e al controllo altrui.


- Funzione di amministrazione. Il riferimento è ai membri del consiglio di amministrazione, a quei soggetti cioè a cui è attribuita la gestione complessiva dell’impresa, comprensiva quindi dei poteri che sono strumentali ad essa.


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categoria, ma vi rientrano anche tutti quei soggetti che sono diversamente denominati nelle persone giuridiche destinatarie del d.lgs 231/2001, ma che nella sostanza ricoprono ruoli di gestione e di governo dell’ente.


Pertanto sia gli amministratori indipendenti che quelli dipendenti, cioè legati anche da un contratto di lavoro con l’ente, devono essere annoverati nella categoria dei soggetti apicali, visto che come vedremo di seguito, la posizione apicale non è incompatibile con quella di dipendenza.


- Funzione di direzione. Il riferimento è alla figura del direttore generale, il quale svolge compiti di gestione operativa anche se di solito in qualità di dipendente delle società e sottoposto al potere direttivo dell’organo amministrativo.


In tale categoria, come recita espressamente l’art. 5 sub a), rientrano anche quei soggetti che svolgono le suddette funzioni all’interno di una “unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale”, come ad esempio i direttori/dirigenti di stabilimenti produttivi, di filiali, di sedi secondarie dotati in concreto di poteri gestionali autonomi.


Essi, pur essendo assoggettati alla direzione della sede centrale, rivestono comunque ruoli e responsabilità che molto hanno in comune con quelli dei direttori generali e sono quindi loro facilmente assimilabili. Il loro legame con l’ente, che possiamo definire funzionale, li rende apicali nella gestione organizzativa rilevante alla luce dell’art. 6 d.lgs 231/2001.


Questa estensione però non deve essere generalizzata, ma deve essere di volta in volta ponderata sulla base di indici fattuali relativi alla dimensione e alla complessità organizzativa dell’intera

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struttura aziendale che ne dimostrino oggettivamente l’autonomia funzionale e finanziaria.


Va poi detto che alle qualifiche funzionali “formali” sono equiparate quelle di “fatto”. Tale equiparazione permette di far rientrare all’interno della categoria dei soggetti apicali, tutte quelle figure soggettive i cui caratteri sono tipizzati nell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, che si distinguono per l’esercizio occulto o indiretto delle funzioni direttive o amministrative.


Restano fuori da tale categoria i sindaci e tutte quelle figure ad essi equiparabili per lo svolgimento di funzioni di semplice controllo e per uno scarso potere di gestione. L’art. 5 con l’espressione “gestione e controllo” degli enti fa riferimento ad un ruolo di governo e “penetrante dominio” sulla società.
15

B. Persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a).


Questa è la categoria dei soggetti c.d “subordinati”, ovvero coloro che sono sottoposti ai soggetti apicali. Ciò significa che, nei possibili casi dubbi, al fine di individuare il soggetto attivo del reato, che come vedremo in seguito è rilevante ai fini della determinazione del modello imputativo della responsabilità, la sua qualifica dovrà esser valutata in negativo, ovvero si agirà per esclusione, nel senso che si andrà a vedere che il soggetto non svolga ,nell’organizzazione aziendale, le funzioni tipizzate dalla lett a).


Rientrano pertanto in tale categoria tutti i dipendenti che a vario titolo sono inseriti nell’organigramma aziendale.


Una cosa deve essere detta però, riguardo all’inserimento formale

Così Relazione § 3. 15

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nell’organigramma, e cioè che essa è condizione normale ma non indispensabile al fine di esser ricompresi all’interno della categoria in esame: “non sono impensabili situazioni peculiari, nelle quali un incarico particolare sia affidato a soggetti esterni tenuti ad eseguirlo sotto la direzione e il controllo di soggetti apicali dell’ente ”. Pertanto qualsiasi soggetto esterno che intrattiene 16

rapporti lavorativi e professionali con l’ente, in linea teorica, può esser annoverato tra i subordinati e conseguentemente impegnare con la propria condotta illecita, la responsabilità dell’ente ex 231/2001, sempre che svolga le proprie mansioni sotto la direzione e vigilanza di un apicale.


A riguardo si pensi a figure come i promotori, i faccendieri, gli agenti, gli intermediari commerciali.


Al rapporto di subordinazione poi può essere ascritta anche l’attività dei professionisti di ogni tipo, anche legali, i quali agiscono in forza di un mandato professionale ricevuto.


Ad ogni modo, al fine di svolgere un corretto inquadramento funzionale della persona fisica ex art. 5, risulta esser decisiva la valutazione che in concreto viene fatta circa le dinamiche lavorative e professionali che potrà portare ad individuare ed accertare posizioni soggettive che sono diverse da quelle formalizzate in contratto.

5. La commissione del reato nell’interesse o a vantaggio dell’ ente.

Con tale previsione, contenuta all’art 5 comma 1 del d.lgs 231/2001, il legislatore delegato ha voluto assicurare il rispetto del principio di personalità, il quale vieta forme di responsabilità per fatto altrui e

così D. PULITANÒ, La responsabilità “da reato” degli enti: i criteri 16

(23)

richiede che l’illecito sia espressione di una politica aziendale o comunque derivi da una “colpa di organizzazione”.


Il legame oggettivo tra reato e società sintetizzato con tale locuzione rappresenta l’espressione normativa nel rapporto di “immedesimazione organica ” che prova e giustifica un coinvolgimento dell’ente nella 17

commissione dell’illecito e si presta a essere il fondamento per l’imputazione della responsabilità.

L’effettiva attribuzione di significato ai concetti di interesse e vantaggio ai fini di ascrittività della responsabilità in capo all’ente rappresenta uno dei profili sostanziali più discussi, soprattuto in dottrina, di tutto il sistema ex d.lgs 231/2001.

La Relazione ministeriale ha fornito un importante spunto interpretativo, spiegando che “il richiamo all’interesse dell’ente

caratterizza in senso marcatamente soggettivo la condotta delittuosa della persona fisica e che si accontenta di una verifica ex ante; viceversa, il vantaggio, che può essere tratto dall’ente anche quando la persona fisica non abbia agito nel suo interesse, richiede sempre una verifica ex post” . 18

Riguardo all’interpretazione di questi due concetti, dottrina prevalente e giurisprudenza si pongono in contrasto.

La prima sostiene che i due concetti debbano considerarsi un’endiadi , 19

mentre la seconda ha accolto la distinzione contenuta nella relazione ministeriale, ribadendo che l’interesse debba essere inteso nel senso di

così Relazione § 3.2. 17

così Relazione, cit., § 3.2. 18

A. BIANCHI, Le responsabilità dell’organo amministrativo e di controllo, 19

Società di capitali e società di persone, Le Società, IPSOA, p. 210; G.R. Croce - C. CORATELLA, Guida alla responsabilità da reato degli enti, , Milano, 2008, p. 14; D. POLITANO’, La responsabilità da reato degli enti, in Riv. it. dir. proc.pen., 2004, p. 1300; F. VIGNOLI, Societas puniri potest: profili critici di un’autonoma responsabilità dell’ente collettivo, in Dir. Pen. e proc., 2004, p. 903.

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finalità soggettiva della condotta, da valutare ex ante, mentre il vantaggio deve essere interpretato come dato oggettivo, da valutare ex

post . 20

Questo significa che i due sostantivi non devono essere letti come rafforzativi di un solo concetto, ma devono essere individuati come alternativi fra di loro. Tale impostazione per di più viene confermata dall’art. 12 del decreto, all’interno del quale si tratteggia la possibilità di ridurre la sanzione pecuniaria se il fatto commesso dall’autore è “nel prevalente interesse proprio o di terzi e l’ente non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo”. Vediamo come si possa integrare la responsabilità dell’ente anche per la sussistenza del solo interesse in mancanza di un vantaggio. Da ciò conseguenza logica che la responsabilità dell’ente sussista non soltanto quando dalla condotta illecita derivi per se stessa un vantaggio, ma anche quando, pur senza l’ottenimento del vantaggio, la condotta sia realizzata nel suo interesse.

6. L’ interesse e vantaggio nei reati colposi.

È tuttora oggetto di discussione in dottrina la questione circa la compatibilità logico-strutturale dei reati colposi d’evento con il nesso di imputazione oggettivo ex art. 5 d.lgs 231/2001.

L’origine del problema è relativa alla formulazione dell’art 25-septies, il quale introduce nel catalogo dei reati-presupposto dell’ente le fattispecie di omicidio colposo (art. 589 c.p) e lesioni personali gravi o gravissime (art.590 c.p) commesse in violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro.

Cass. pen., sez. II, 20 dicembre 2005, n° 3615. 20

(25)

Risulta davvero poco probabile che l’ente possa in qualche modo perseguire un proprio interesse per mezzo di eventi lesivi della vita o dell’integrità fisica delle persone o che in alternativa possa trarre vantaggio da ciò. Di conseguenza il criterio di ascrittività della responsabilità all’ente previsto ex art.5 risulta inutilizzabile.

Al fine di ovviare alle mancanze legislative, in tal senso, si è registrato un costante intervento della giurisprudenza.

Una prima pronuncia del di Tribunale di Trani del 2010 difendeva la 21

c.d concezione oggettiva dell’interesse, in base alla quale è necessario “di volta in volta accertare solo se la condotta che ha determinato l’evento morte o le lesioni personali sia stata o meno determinata da scelte rientranti oggettivamente nella sfera di interesse dell’ente oppure se la condotta medesima abbia comportato almeno un beneficio a quest’ultimo senza apparenti interessi esclusivi di altri”. Conclusione che è stata ampiamente criticata dalla dottrina la quale sottolineava 22

come, spostando l’attenzione dall’evento alla condotta, si snaturava la

ratio dell’art. 25-septies, il quale enucleerebbe, al contrario, una vera e

propria fattispecie di evento. Cosi facendo, sarebbe sufficiente che un soggetto apicale avesse omesso di adottare cautele idonee a prevenire infortuni sul lavoro per poter riferire il delitto colposo all’ente. Dalla mancata adozione delle suddetta cautele deriverebbe un beneficio economico in capo all’ente, consistente ad esempio nel risparmio di spesa che una eventuale misura antinfortunistica porterebbe con sé.

Trib. Trani, Sez. Molfetta, 11 gennaio 2010. Il giudice di merito ha 21

aggiunto che “una diversa interpretazione priverebbe di ogni intrinseca logicità la novità normativa, essendo ovviamente impensabile che l’omicidio o le lesioni, cagionate per violazioni colpose in materia di sicurezza sul lavoro, possano intrinsecamente costituire un interesse oppure generare un vantaggio per l’ente.

In tal senso S. DOVERE, Infortuni sul lavoro. Quando a rispondere sono le 22

(26)

Una seconda pronuncia, molto significativa sul tema dell’interesse o vantaggio come criterio di imputazione dei reati colposi in capo agli enti, è stata emessa invece dalla Corte d’assise di Torino, Sezione II, il 15 aprile 2011 . 23

Molteplici sono stati gli effetti di tale pronuncia:

-

Ha confermato che l’inserimento dei reati colposi nel catalogo dei reati-presupposto ha come funzione quella di completare il quadro legislativo originario.

-

Ha dato risalto ai criteri dell’interesse e del vantaggio. Al riguardo i giudici di merito hanno affermato che “le gravissime violazioni

della normativa antinfortunistica e antincendio, le colpevoli omissioni sono caratterizzate da un contenuto economico rispetto al quale l’azienda non solo aveva interesse, ma se ne è anche sicuramente avvantaggiata, sotto il profilo del considerevole risparmio economico che ha tratto omettendo qualsiasi intervento n e l l o s t a b i l i m e n t o d i To r i n o ; o l t re c h e d e l l ’ u t i l e contemporaneamente ritratto dalla continuità della produzione” . 24 Vi è una terza pronuncia della Suprema Corte molto più recente , che 25

si conferma l’orientamento secondo cui i due concetti di vantaggio e interesse possono essere visti come alternativi tra di loro e di conseguenza l’interesse debba essere oggetto di una valutazione ex

ante rispetto alla commissione del reato-presupposto mentre il

vantaggio debba essere valutato riguardo al suo effettivo conseguimento (ex post) a fronte della consumazione del reato. È possibile che sussista un vantaggio per l’ente, subordinato alle scelte

La celebre sentenza con cui è stata condannata la società ThyssenKrupp 23

Acciai Speciali Terni SpA, perché ritenuta responsabile dei delitti previsti e puniti dall’art 25-septies, D.lgs 231/2001.

si veda la nota numero 20. 24

Cass., Sez. IV, 21 gennaio 2016, n.2544. 25

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della persona fisica che lo faccia ritenere imputabile anche quando, questa pur non volendo cagionare le lesioni o la morte del lavoratore, ha agito per conseguire intenzionalmente un utilità a favore della persona giuridica, consistente anche in un semplice risparmio sui costi.

7. Il principio di autonomia della responsabilità degli enti.

Tale principio è contenuto all’interno dell’art. 8.

Esso chiarisce in modo inequivocabile che la responsabilità a carico dell’ente, sebbene dipendente dalla commissione di un reato, costituisce un titolo autonomo. Nello specifico la disposizione stabilisce come la responsabilità dell’ente sussista e permanga anche nel caso in cui l’autore materiale del reato non sia identificato o imputabile oppure il reato si estingua per causa diversa dell’amnistia. La ratio legis risiede nella volontà di evitare che, a causa delle grandi e complesse strutture organizzative con cui la società può costituirsi le quali rendano impossibile individuare l’autore materiale del reato, sia consentito all’ente di essere esentato da responsabilità per quei reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio.

Ciò nonostante, tale articolo fino ad oggi ha avuto una scarsa applicazione.

Analizzando nello specifico, si può affermare che la mancata individuazione del soggetto autore del reato comporta problemi di carattere applicativo in quanto non permette di accertare compiutamente la reale sussistenza dell’illecito completo di tutti i suoi elementi costitutivi (fatto tipico, antigiuridico e colpevole). Sul punto però si è espressa la Relazione ministeriale stabilendo che “la sua omessa disciplina si sarebbe tradotta in una grave lacuna legislativa” per il semplice fatto che la mancata identificazione del soggetto autore

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del reato, è un fenomeno tipico nell’ambito della responsabilità d’impresa.

Riguardo invece alla “non imputabilità dell’autore del reato”, tale situazione ha una valenza meramente teorica ed è la stessa Relazione ministeriale a confermarlo, affermando che tale fattispecie è stata prevista per “ragioni di completezza” visto che, attenendo l’istituto di imputabilità alla capacità di intendere e di volere dell’agente, ovvero alla sua maturità e sanità mentale, difficilmente troverà applicazione pratica nell’ambito delle fattispecie interessate dal decreto medesimo. La sussistenza della responsabilità in capo all’ente è prevista poi, come detto, anche nel caso di estinzione del reato per cause diverse dall’amnistia. Tale scelta è giustificata dalla natura autonoma e ontologicamente differente della responsabilità dell’ente rispetto a quella penale del reo. I due procedimenti sono disciplinati in modo autonomo anche sotto il profilo processuale e questo fa si che il verificarsi di una causa estintiva, che nel processo penale è sufficiente per la declaratoria di non doversi procedere per estinzione del reato, non produce effetti nel procedimento a carico dell’ente. A riguardo interessante è una sentenza della Suprema Corte del 2013 , con la 26

quale i giudici di legittimità, nell’affrontare la questione riguardante la prescrizione dell’illecito amministrativo di cui al d.lgs 231/2001, hanno affermato che “l’art.60 è piuttosto chiaro nel suo contenuto

normativo e comporta che l’estinzione per prescrizione del reato impedisce unicamente all’accusa di procedere alla contestazione dell’illecito amministrativo e non impedisce, invece , di portare avanti il procedimento già incardinato”. Sulla base di tali presupposti gli

stessi giudici hanno compiuto un’esegesi della disposizione di cui all’art.8, affermando che “il senso letterale della norma è chiarissimo

Cass., sez. V, 9 maggio 2013, n.20060. 26

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nell’evidenziare non tanto l’autonomia delle due fattispecie (che anzi l’illecito amministrativo presuppone, e quindi dipende da, quello penale), quanto piuttosto l’autonomia delle due condanne sotto il profilo processuale. Per la responsabilità amministrativa , cioè, è necessario che venga compiuto un reato da parte del soggetto riconducibile all’ente, ma non è anche necessario che tale reato venga accertato con individuazione e condanna del responsabile. La responsabilità penale presupposta può essere ritenuta incidenter

tantum ( ad esempio perché non si è potuto individuare il soggetto

responsabile o perché questi non è imputabile) e ciò nonostante può essere sanzionata in via amministrativa la società”.

Quindi è proprio la disciplina della prescrizione a divenire emblema dell’autonomia dei due illeciti.

Autorevole dottrina ha evidenziato come la disciplina della prescrizione attesti “l’autonomia degli illeciti, pur nell’evidente

connessione rappresentata dal fatto che quello amministrativo presuppone la commissione del reato. È emblematico di tale rapporto proprio il disposto dell’art.60 in forza del quale, l’avvenuta estinzione per prescrizione del reato [prima della formale contestazione ex art. 59, d.lgs 231/2001] impedisce all’accusa di procedere alla contestazione dell’illecito amministrativo a carico dell’ente; mentre la già avvenuta contestazione dell’illecito amministrativo non impedisce di portare avanti il procedimento già incardinato.” 27

Unica causa di estinzione del reato che esclude anche la responsabilità dell’ente è l’amnistia.

La ratio legis risiede nella natura stessa del provvedimento. La Relazione governativa si esprime a questo riguardo, sostenendo che l’inserimento di una determinata eccezione deve essere motivato con la

G. Amato, Un regime diversificato per reprimere gli illeciti, in Guida al 27

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considerazione che “le valutazioni politiche sottese al relativo

provvedimento siano suscettibili in linea di massima , di valere anche nei confronti degli enti” e rimanendo in caso contrario, “onere del legislatore dell’amnistia escludere tali soggetti dall’area entro cui il provvedimento di clemenza può sortire effetti anche mediati” . 28

Infine i successivi commi 2 e 3 dell’articolo disciplinano gli effetti dell’eventuale rinuncia all’amnistia. Si tratta di una facoltà che è riconosciuta da una famosa sentenza della Corte Costituzionale la quale ha ammesso il caso in cui la persona fisica voglia comunque esercitare il proprio diritto ad avere una pronuncia nel merito . 29

Il comma 2 prevede che, nel caso in cui l’imputato eserciti tale facoltà di rinuncia, salvo che il provvedimento di clemenza preveda diversamente, l’effetto estintivo si produce lo stesso nei confronti dell’ente. La Relazione ministeriale al riguardo spiega che “si tratta di

una specificazione, oltre che utile, necessaria, in quanto la rinuncia all’amnistia da parte della persona fisica interdice l’effetto estintivo del reato e, sotto il piano dei principi, lascerebbe dunque sussistere la responsabilità dell’ente ”. 30

La stessa facoltà di rinuncia è stata riconosciuta all’ente dal legislatore delegato all’interno del comma 3.

7.1. L’ esenzione da responsabilità.

Il combinato disposto degli artt. 6 e 7 del decreto n.231/2001 rappresenta una parte essenziale dell’intero sistema della responsabilità amministrativa delle società e degli enti in quanto essi operano su un

Cosi Relazione, § 8. 28

Corte cost., 5 luglio 1971, n.175 29

Così Relazione, § 8. 30

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piano soggettivo, dove l’illecito commesso dal soggetto è espressione di una politica aziendale, cioè il risultato della c.d colpa di organizzazione.

Mentre con l’art. 5 si prevede che il reato-presupposto debba essere realizzato da una persona fisica in una determinata posizione all’interno dell’organigramma aziendale e che sia realizzato nell’interesse o a vantaggio del soggetto collettivo, con gli artt. 6 e 7 si richiede che l’illecito sia frutto di una colpa di organizzazione. La funzione svolta dal criterio soggettivo è quindi quella di evitare l’imputazione di una responsabilità oggettiva in capo all’ente, ma anche quella di basare la propria organizzazione agli standard richiesti dalla legge.

L’ articolo 6 è funzionalmente concepito in chiave processuale e prevede al suo primo comma un’inversione dell’onere probatorio nel caso di responsabilità dell’ente derivante da illecito commesso da un soggetto apicale. Nello specifico esso prevede che l’ente non risponde se prova che: a) l’organo dirigente ha adottato e efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a scongiurare la consumazione del reato; b) il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento siano stati affidati a un organismo dell’ente con poteri autonomi di iniziativa e di controllo; c)l’operato dell’organismo non sia stato omissivo o insufficiente; d) non vi sia stata un’ elusione fraudolenta del modello da parte dei soggetti attivi del reato.

Il secondo comma poi si occupa di delineare quali debbano essere i contenuti essenziali di tali modelli, quali l’esatta individuazione delle aree a rischio di commissione dei reati, la previsione di protocolli volti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire, l’individuazione delle modalità di

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gestione delle risorse finanziarie idonee a impedire la commissione dei reati-presupposto, l’istituzione di specifici flussi influssi normativi nei confronti dell’ Organo di Vigilanza, l’introduzione di un sistema disciplinare che preveda sanzioni nel caso di violazioni del modello. Anche nel caso in cui l’ente riesca a fornire la prova dell’assenza di colpa di organizzazione, è comunque disposta la confisca del profitto che l’ente ha tratto dal reato.

Le finalità che il legislatore delegato persegue non sono meramente punitive, ma anzi lo scopo che si vuole perseguire è un reinserimento dell’ente nel circuito virtuoso della produzione e del mercato.

Ciò che deve essere sottolineato è il fatto che l’adozione di tali modelli non è prevista nel decreto mediante imposizione coattiva, ma di fatto assume la funzione di un vero e proprio obbligo, in quanto la loro mancata adozione comporta l’emissione di provvedimenti sfavorevoli per l’ente. Al riguardo la giurisprudenza si è sempre mossa a favore di una funzione esentiva dell’adozione corretta di tali modelli ex art. 6. A riguardo i giudici di legittimità si sono espressi sull’adozione del modello organizzativo affermando che “è condizione necessaria, ma

non sufficiente, per non incorrere nella responsabilità amministrativa

ex d.lgs 231/2001. Ove il modello non sia stato adottato nei termini

prescritti, infatti, l’ente risponde dell’illecito collegato al reato-presupposto, a meno che non dimostri che il suo esponente apicale abbia agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi” . 31

La stessa Relazione ministeriale evidenzia la necessità di adozione da parte degli enti di modelli comportamentali sviluppati sulla base dello specifico business perseguito dalle società e “specificatamente

calibrati sul rischio reato, e cioè volti ad impedire, attraverso la

Cfr. Cass. pen. Sez.VI, 9 luglio 2009, n. 36083; Cass. pen., sez. VI, 23 31

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fissazione di regole di condotta, la commissione di determinati reati, cioè solo i reati-presupposto” . 32

I modelli di organizzazione e gestione assumono la qualifica di strumenti tipici per la gestione del rischio in relazione alla disciplina del decreto legislativo 231/2001.

Provando poi ad analizzare la disciplina ex d.lgs 231/2001 nell’ottica di una politica di impresa orientata a prevenire i rischi derivanti dagli illeciti, “l’adozione del compliance program si ancora ad una

prospettiva di tipo utilitaristico, ovvero quella che orienta l’attività economica dell’ente secondo i rapporti rendimento/rischio: il modello organizzativo proprio per la pervasività che lo contraddistingue, rappresenta, al tempo stesso, un’occasione per riadeguare l’architettura organizzativa e l’intero sistema di controlli interni, assumendo quindi una connotazione decisamente strategica quale contributo alla sana e prudente gestione dell’impresa” . 33

È quanto affermato dalla Corte Suprema secondo cui, nel concetto di 34

rimproverabilità per la mancata adozione di un modello organizzativo è “implicita una forma nuova, normativa di colpevolezza per

omissione organizzativa e gestionale, avendo il legislatore tratto la legittima e fondata convinzione che della necessità che qualsiasi complesso organizzativo, costituente un ente, adotti modelli organizzativi e gestionali idonei a prevenire la commissione di determinati reati, che l’esperienza ha dimostrato funzionali ad interessi strutturati consistenti”.

L’art. 7 prevede che, qualora l’autore del reato-presupposto sia un soggetto sottoposto all’altrui direzione, “l’ente è responsabile se la

così Relazione, cit. 32

A. BERNASCONI, in A. Presutti-A. Bernasconi-C. Fiorio, La 33

responsabilità degli enti, CEDAM, 2008. Cass., Sez. VI, 17 novembre 2009, n. 36083. 34

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commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza”.

L’inversione dell’onus probandi che nell’art. 6 risulta essere evidente, nell’art .7 invece assume una portata minore.

Spetta al pubblico ministero dimostrare non solo l’omessa direzione o vigilanza e il collegamento tra questa e il reato commesso, ma anche la mancata adozione del modello, o la sua inidoneità o inefficienza. Sempre l’accusa dovrà provare che il reato è stato consumato dal sottoposto nell’interessa o a vantaggio della società. Nel caso in cui l’accusa esponga una prova che risulti essere mancante, insufficiente o contraddittoria, sarà pronunciata una sentenza di esclusione di responsabilità dell’ente perché non sussiste la dimostrazione dell’illecito amministrativo ex art.66.

Il comma 2 poi attribuisce a carico della difesa l’onere della prova escludendo “l’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza se l’ente, prima della commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi” al fine di premiare lo sforzo organizzativo della società che ha introdotto al suo interno un modello idoneo ed ha provveduto alla sua efficace attuazione.

Pertanto è evidente che l’adozione e efficace attuazione del modello è condizione necessaria e sufficiente per evitare la responsabilità dell’ente visto che, fornita tale prova, viene automaticamente esclusa l’inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza.

Appare infine condivisibile l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale l’onere probatorio in capo agli enti è analogo sia che il reato sia realizzato da un “apicale” che da un “subordinato”. La valutazione del giudice del modello è identica in entrambi i casi, richiedendo sempre una disamina dei contenuti e della attuazione. Sarà quindi

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interesse dell’ente provare l’idoneità e efficacia del modello medesimo.

(36)

Capitolo 2. Il processo a carico dell’ente.

Aspetti generali di compatibilità e incompatibilità con il processo alla persona fisica.

1. Una soluzione ibrida.


“La scelta del governo è stata, dunque, quella di privilegiare il

procedimento penale come luogo di accertamento e di applicazione delle sanzioni, collocando l’ente nella stessa condizione dell’imputato. La ragione di questo intervento è duplice e deriva dalla necessità di coniugare le esigenze di effettività e di garanzia dell’intero sistema. Per un verso, infatti, si è preso atto dell’insufficienza dei poteri istruttori riconosciuti alla Pubblica Amministrazione nel modello procedimentale delineato nella legge n. 689 del 1981 rispetto alle esigenze di accertamento che si pongono all’interno del sistema di responsabilità degli enti. Poiché l’illecito penale è uno dei presupposti della responsabilità, occorre disporre di tutti i necessari strumenti di accertamento di cui è provvisto il procedimento penale, nettamente più incisivi e penetranti rispetto all’arsenale di poteri istruttori contemplato nella legge 689/1981.

Per altro verso, la natura penale-amministrativa degli illeciti dell’ente, documentata dall’applicabilità di penetranti sanzioni interdittive derivate dall’armamentario penalistico e dalla stessa vicinanza con il fatto reato, rende necessario prefigurare un sistema di garanzie molto più efficace rispetto a quello, per vero scarno, della legge 689. Di conseguenza si è deciso di equiparare sostanzialmente l’ente imputato, cosi da metterlo nella condizione di poter fruire di tutte le garanzie che spettano a quest’ultimo ”. 35

Così Relazione, § 15. 35

(37)

Il procedimento de quo è regolato dal Capo terzo del decreto legislativo, il quale si apre con un importante previsione, contenuta nell’art.34, secondo cui “per il procedimento […] si osservano le norme di questo capo nonché, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale e del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, in quanto compatibili”. Tale articolo attribuisce alle norme del codice di procedura penale una funzione integratrice, in termini di sussidiarietà, rispetto alle norme previste dal Capo III del decreto. Quello che il legislatore delegato ha voluto fare è costruire un “micro codice” autonomo di regole per poter verificare la responsabilità dell’ente andando così a ribaltare quanto previsto dall’art. 11 lett. q) della legge delega 300/2000 e facendo sì che esse trovino 36

applicazione in via primaria. Tale inversione di strutture normative ha sollevato dubbi di costituzionalità per violazione di delega, in base agli artt. 76 e 77 Cost., visto che è stato dato luogo a due sistemi normativi in un rapporto di gerarchia, nonostante i criteri della delega facessero esclusivamente riferimento alle norme codicistiche.

La disciplina è poi integrata da quelle norme munite di una tale latitudine per cui esse risultano essere applicabili a tutte le fasi procedimentali e processuali di accertamento della responsabilità dell’ente 37 (ad esempio le regole sul giudice competente, sul

simultaneus processus, sulla rappresentanza dell’ente, sulla difesa

d’ufficio, sulle vicende modificative dell’ente, sulle notificazioni all’ente, di prove, sulle misure cautelari, sulle indagini preliminari, sull’udienza preliminare).

l’art. 11 recita:“per il procedimento di accertamento della responsabilità si 36

applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale”.

si veda Giuseppe Lasco, Velia Loria, Mariavittoria Morgante, Enti e 37

responsabilità da reato. Commento al D.lgs. 8 giugno 2001, n.231, gennaio 2017,G. Giappichelli Editore.

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