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GLI ORGANI DI GOVERNO E GESTIONE DELL’OFFERTA PUBBLICA A LIVELLO TERRITORIALE

Nel documento Pubblico e privato nel sistema di welfare (pagine 47-53)

Marco Dugato

Il presente contributo intende offrire qualche spunto in tema di governo e gestione dell’offerta sanitaria pubblica a livello territoriale.

L’analisi sarà condotta sotto un profilo, essenzialmente, giuridico, anche se la riflessione giuridica non può che innestarsi su dati meta-giuridici. Il riferimento prioritario del mio contributo è l’esperienza toscana, per l’interesse del “modello” e per alcune specifiche soluzioni.

Le esperienze regionali sono diverse: dobbiamo considerare ben venti sistemi regionali anziché un sistema sanitario nazionale. I parametri giuridici però sono gli stessi: si tratta dei parametri costituzionali vincolanti. Rileva l’art. 32, ma non solo; anche l’art. 2, che si riferisce allo svolgimento della personalità nelle formazioni sociali e spiega in gran parte il rilievo regionale dato alle organizzazioni non lucrative, cioè il terzo settore; l’art. 3, perché attraverso l’organizzazione del sistema sanitario, attraverso le sue regole e prestazioni si garantisce la salute e l’uguaglianza sociale sostanziale. Non bisogna poi dimenticare gli artt. 41 e 43 per il rapporto fra la libera iniziativa economica privata e i suoi limiti. Quando si trasferisce il discorso alle realtà più complesse come le aziende ospedaliere universitarie tutto si intreccia con l’art. 32, sulla libertà della ricerca, che fa di questi ospedali universitari strutture differenti. Oggi abbiamo, poi, l’art. 118, che si assesta in modo molto diverso dal passato e che racconta che sebbene questo Paese non abbia scelto la via della sussidiarietà orizzontale come via particolarmente cogente, comunque deve fare i conti con la produzione di utilità collettive da parte dei privati. Poi c’è il pareggio di bilancio, che non ci toccava né nel 1978 né con l’aziendalizzazione del ’92 -’93.

A fronte di questi parametri le esperienze organizzative regionali sono state diverse. Parlerò del fenomeno dell’aggregazione delle ASL in super ASL (c.d. “Aslone”), delle c.d. “zone-distretto” e delle Società della salute.

Il problema, però, è sempre quello della complessità, cioè di strutture che non assorbono funzioni di strutture esistenti, ma vi si aggiungono, si sommano ad altre strutture esistenti creando un’aggiunta di complessità. Il che comporta la necessità di raccordo, che aggiunge complessità organizzativa. Quanto alla complessità organizzativa, nel settore della sanità secondo me essa non si giustifica solo alla luce del 70 (o più) % del PIL regionale: ci sono ambiti di azione amministrativa come quello del governo del territorio, per il quale si spende di meno ma che sono molto più complessi ma ciò non si riflette sul livello di complessità dell’organizzazione amministrativa. A mio parere, se uno esamina il sistema del 1978, il sistema del 1992 - 1993 e quello del 1999, non c’è proporzione

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PUBBLICO E PRIVATO NEL SISTEMA DI WELFARE fra ciò che è cambiato e l’enorme aumento della complessità organizzativa: il progressivo aumento di complessità organizzativa non è giustificato dall’aumento di complessità dell’erogazione delle prestazioni.

Un primo dato ce lo dà l’esperienza più recente: è cambiata la domanda, e necessariamente cambia il rapporto tra la domanda e la risposta. Prima la risposta era a una domanda di salute da parte del malato. Oggi, come si può vedere nella riforma Balduzzi e negli interventi che hanno accompagnato la riforma Maroni in Lombardia, la prospettiva è quella di accompagnare la vita, lo stato di benessere psicofisico del cittadino, non è più sanità-cura. Questo è radicalmente differente. Mentre nel sistema precedente, qualunque sia il rapporto tra assicuratore, produttore e utente, esso nasce da una domanda, la malattia come sinistro, in questo caso invece il ciclo è continuo, e non nasce da una domanda, nasce da un’offerta, e la nuova missione della sanità è quella di offrire l’accompagnamento in una vita che preservi dalla malattia e accompagni nell’accidente della malattia.

La nuova missione, dal punto di vista dell’organizzazione amministrativa, cambia radicalmente le regole, come le cambia nell’ambito di servizi pubblici locali la differenza tra servizio a domanda individuale e servizio in continuità. Il sistema è diverso, l’organizzazione dei servizi è diversa, le regole giuridiche sono necessariamente diverse. Da questo punto di vista, a mio parere, entrano in gioco anche player organizzativi che prima non esistevano. Se io posso decidere che la gestione di un ospedale è comunale, sovracomunale, regionale, ASL più piccola, ASL più grande, ed è semplicemente un problema organizzativo del servizio, di efficienza, quando dalla domanda che nasce dalla malattia passo a un sistema che accompagna nella vita, cioè che forma sul tipo di attività fisica da fare, che controlla, che si dedica alla riabilitazione e alla prevenzione, ci sono delle dimensioni imprescindibili che sono quelle vicine: torna in gioco la dimensione locale, di vicinanza territoriale.

Dall’immediato post 1999, in cui il rapporto era sostanzialmente Regione-ASL- utente, sistema che ha portato all’aggregazione degli ospedali, alla sussunzione verso l’alto e in dimensione, nascono nuove esigenze: le zone distretto, la società della salute, in Lombardia la trasformazione del medico di base in medico di famiglia che opera a domicilio, i presidi riabilitativi vicini, i mega ambulatori, luoghi deputati alla cura, alla prevenzione, all’ascolto e alla riabilitazione insieme (cfr. art. 3 e art. 71-bis l.r. Toscana).

Emerge, quindi, la complessità e l’inadeguatezza degli strumenti organizzativi tradizionali. E qui i legislatori regionali si dividono fra i prudenti e gli innovativi. I primi sommano le strutture organizzative tradizionali alle realtà nuove, creando nuove realtà organizzative e avendo bisogno di nuovi collegamenti, che però hanno il problema di essere più complessi e costosi e di rendere più lenti i tempi di risposta. Il sistema verticistico, che andava bene per far fronte a una precedente domanda, non è più adeguato per rispondere alla nuova domanda. Nascono, come già detto, bisogni ed esigenze organizzative più simili a quelle dei servizi

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pubblici locali tradizionali che al servizio sanitario. Nasce l’esigenza di definire ambiti territoriali ottimali, non necessariamente omogenei e ridescritti. Nasce l’esigenza di una rappresentanza, perché se la domanda è individuale, quella del malato, la risposta può essere individuale, ed è una risposta di rimando; nel momento invece in cui si offre un servizio, il momento di formazione dell’offerta deve essere partecipativo, altrimenti c’è il rischio di offrire qualcosa che non viene richiesto, in modo diverso da quello che la gente si aspetta, e di produrre minore efficienza di quanta non si sarebbe prodotta intercettando meglio la domanda.

Se quindi sono cambiate le prospettive, si crea una stratificazione plurilivello dal punto di vista territoriale. E noi, tradizionalmente, dal 1999 in avanti siamo deboli sul livello locale nella sanità, non perché ci sia stato un centralismo regionale oppressivo, ma perché la centralizzazione rispondeva alla domanda precedente; il grande ospedale correttamente attrezzato è sempre più efficiente, ma se si ritorna a una idea diversa di assistenza il problema del livello locale si ripone.

Qui vengo all’analisi giuridica del modello toscano, che è orientato verso un nuovo modello sanitario: la l.r. Toscana 28 dicembre 2015, n. 84, all’art. 3 prevede, fra i principi ispiratori, la centralità e la partecipazione, la sussidiarietà istituzionale, la sussidiarietà orizzontale, l’intervento mediante percorsi partecipativi, l’integrazione delle politiche sanitarie-sociali con quelle settoriali di livello territoriale locale. Questo significa che il legislatore ha espressamente orientato il proprio ordinamento verso le nuove esigenze della salute, sostanzialmente confermando il modello precedente, della centralità dell’azienda, e recuperando il momento partecipativo locale su due strutture: la zona distretto e la società della salute.

In tutto questo si forma un percorso aggregativo nelle ASL sostanzialmente interregionale – e gli ordinamenti regionali simili a quello toscano muovono verso quel sistema – ormai necessario alla luce del fatto che mentre noi discutiamo dell’organizzazione, gli attori pubblici dell’organizzazione sanitaria, cioè le Aziende Ospedaliere, sono state recentemente definite dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea operatori economici tout court.

Questo, nella sentenza 18 dicembre 2014 (causa C-568/13), riguardante il caso della partecipazione dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Careggi-Firenze ad una gara d’appalto che si teneva in Lombardia, accanto ad operatori privati. Il Consiglio di Stato, aveva rimesso con ordinanza alla Corte di Giustizia dell’Unione europea il dubbio generato dalla coesistenza di due principi: il primo è che l’azienda regionale è caratterizzata da forte autonomia imprenditoriale (addirittura l’art. 34 della legge regionale Toscana lo dice espressamente), il secondo è che essa trova il limite territoriale nell’ambito regionale di appartenenza. Fuori dal territorio il suo referente, cioè la Regione, non ha potere e quindi non può averla neanche l’Azienda. Il Consiglio di Stato aggiunge anche un’altra questione: la legislazione tende ad evitare la concorrenza sleale (unfair competition) e poiché l’Azienda vive in parte di soldi direttamente e indirettamente pubblici, il suo modo di fare concorrenza

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PUBBLICO E PRIVATO NEL SISTEMA DI WELFARE a operatori privati altererebbe la concorrenza. La Corte di Giustizia dell’Unione europea risponde, però, che non rinviene nell’ordinamento comunitario (art. 24) nessuna preclusione alla sua partecipazione a gare in concorrenza con privati: nella direttiva appalti non c’è alcuna distinzione fra operatori pubblici e privati. La disarticolazione della concorrenza attraverso i finanziamenti pubblici di quella azienda è perfettamente eliminabile grazie a una contabilità separata (obbligo discendente dalla direttiva n. 2052): tenendo una contabilità separata delle attività in conto terzi e i finanziamenti derivanti dallo Stato è impossibile che si verifichi un’alterazione competitiva.

Questo dato crea un nuovo problema nel rapporto fra pubblico e privato nell’organizzazione e nel governo della sanità, perché l’operatore economico può essere pubblico o privato, e l’Azienda può essere al tempo stesso regolatore e attore: tutto ciò crea un sistema di competizione fortissimo a livello interregionale, non più basato solo sull’acquisizione di pazienti da altre Regioni per far lucro su questi, ma sull’andare fuori dal proprio ambito territoriale per produrre profitto. Questo sistema non può essere affrontato se non attraverso una dimensione quantitativa sufficiente delle aziende territoriali e delle aziende ospedaliere. Questo settore, se dovesse creare un nuovo sistema di concorrenza e competizione, porterà necessariamente le strutture delle singole Regioni a essere maggiormente dimensionate.

Questa maggiore dimensione aziendale delle strutture complicherà il ruolo delle aziende ospedaliere e di quelle ospedaliere universitarie, lo renderà più pesante e a invarianza di spesa le renderà meno efficienti nel governo del “sotto”. In un sistema a domanda individuale e a risposta dell’azienda, quel che conta è la velocità del tempo della risposta e quindi le regole possono essere prefissate, dall’alto verso il basso si ha la definizione delle regole, la definizione tariffaria e delle risposte. Invece, in un sistema che va a fomentare il bisogno e a incrementarlo e produrlo dal basso, il sistema non è più quello: il sistema è il livello pubblico integrato territorialmente più limitato, con governance a livello più alto e deve quindi mediare e diventa inefficiente.

Non solo, se si guarda sia il sistema delle zone distretto sia quello delle società della salute si capisce che questo livello territoriale ha bisogno di un’integrazione. Zone distretto e società della salute possono convivere nella stessa realtà, ma ad un lettore giurista sembrano due alternative perché la seconda sembra un consorzio tra più soggetti. Inoltre, tra i due i sistemi sembra meglio quello della società della salute perché crea una partecipazione più interna rispetto alla conferenza dei sindaci e la conferenza di partecipazione esterna della zona distretto: le società della salute si occupano di riaggregare realtà in un contesto unitario, realtà che esistevano anche prima ma si parlavano esternamente, cioè attraverso meccanismi non interni e partecipativi di codecisione, ma di relazione (attraverso l’acquisizione del consenso, la richiesta del parere delle rappresentanze, eccetera), mentre nella società della salute questo avviene all’interno dello stesso sistema, che genera il

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bisogno, partecipa al bisogno, filtra e risponde al bisogno.

Non ritengo però che la risposta organizzativa alla soluzione della complessità possa essere data da un efficientamento, un miglioramento della situazione organizzativa preesistente: penso che ciò sia improprio, perché nella disciplina normativa oggi vengono inserite delle funzioni e delle priorità che non sono sussumibili a livello regionale, ma sono fortemente legate a una competenza territoriale degli enti locali.

La risposta deve essere quindi diversa e non creare centri nuovi, ma promuovere l’aggregazione in un sistema radicalmente nuovo di competenze e funzioni differenti. Questo, fra l’altro, aumenterà il problema relativo all’acquisizione di beni o servizi. In un sistema policentrico, com’è quello funzionale, la risposta all’acquisizione dei beni e dei servizi – che normalmente prevede il livello più piccolo, più efficiente ma più costoso, quello più accentrato più inefficiente, ma più produttivo di economia di scala – difficilmente può essere realizzato, perché le domande diventano molto diverse e meno standardizzate di un tempo e richiedono un livello nuovo di imputazione della funzione: le gare andranno immaginate attraverso un sistema di rilevazione dei bisogni diverso rispetto a quello che tradizionalmente si è fatto nelle Regioni, e gestite a livello differente e in modo differente rispetto a quello praticato dalle Regioni negli ultimi anni, cioè quello delle centrali di committenza.

Questa fantasia giuridica che propongo si scontra con un cambio culturale molto forte, che non è tanto quello di cambiare un sistema organizzativo – e in parte la Regione Toscana consentirebbe di farlo molto più facilmente per come è strutturata adesso, rispetto all’Emilia-Romagna o altre Regioni – ma di valorizzare le differenze. Il livello territoriale nel nuovo modello di domanda sanitaria deve riconoscere che le domande nascono e si muovono in contesti diversi e pertanto il sistema deve offrire ed elaborare risposte adeguate che non possono che essere diverse a seconda delle aree.

Nasce, quindi, il problema del monitoraggio della differenza, dell’aggiustamento della differenza e del riconoscimento dei risultati differenti sulla base dei modelli differenti. Lo Stato non è mai stato capace di farlo, ha modelli organizzativi che vivono per un mal invocato principio di legalità che presuppone che il modello organizzativo debba essere uguali per tutti, mentre in realtà sono le regole e principi che devono essere uguali per tutti, e da questo punto di vista mi pare che anche le Regioni non abbiano finora introdotto modelli di duttilità del sistema organizzativo.

PARTE II

I CONFINI DEL DIRITTO ALLA SALUTE

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