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Il paesaggio tra ibridità e frontiere

2. Raccontare i luoghi: la geografia in Rumiz

2.4. Il paesaggio tra ibridità e frontiere

I reportage di Rumiz trattano in genere di contesti che difficilmente hanno a che fare con luoghi “centrali” – intesi dal punto di vista delle attuali scelte economiche e politiche del mondo occidentale – . Non è un caso che il sempre maggiore interesse del giornalista per i territori marginali sia andato di pari passo con l’affermazione sempre più forte di centri sempre più grandi, sempre più lontani e tuttavia con regole sempre più pervasive e rigide. Il consolidamento di un’istituzione come l’Unione Europea (un’unione, è ormai evidente, puramente economica) e l’affermarsi della globalizzazione quasi come modello unico di vita (sempre riferendosi al contesto di coloro che, per certi aspetti fortunati, vivono “al di qua” delle barriere imposte dal mercato globale) mostrano ormai, dopo i primi quindici anni di nuovo millennio una non ristretta rosa di difetti. Il mondo globale che, all’alba dei primi anni del ventunesimo secolo, appariva come un mondo fatto di libertà personali e frontiere aperte, paradossalmente è divenuto il «mondo della discontinuità e del divieto».83 Un paradosso osservato anche dallo stesso Rumiz che, nel momento in cui il trattato di Schengen (2007) abolisce le frontiere all’interno dell’Unione, sente la necessità, un bisogno quasi fisiologico della presenza di un confine:

[…] e fu lì, nei fiumi del vino e della slivovica, mentre la sbarra diventava souvenir al suono di una fisarmonica, che l’ebreo Salomone Ovadia lanciò alla Luna il suo stridulo vaticino. “E adesso, vecchio barbagianni, questa fottuta frontiera ti mancherà” ghignò l’amico Moni […] Diavolo, pensai, non c’era nessuna ragione per rimpiangere la frontiera. […] Perché quella fottuta sbarra avrebbe dovuto mancarmi? Ora potevo passare dove volevo: microcosmi separati si saldavano e io ero libero, libero come il vento, di muovermi a piedi, in auto o in bicicletta, per ricomporre la topografia spezzata del mio mondo. Eppure… Sentivo che qualcosa cominciava davvero a mancarmi. […] In breve tempo capii. Mi mancava il sogno, la linea d’ombra da valicare, il senso del proibito. La mia prima spinta al viaggio non era nata proprio dall’esistenza della Frontiera?84

Il desiderio di oltrepassare un limite nasce da un divieto, ed è tanto più forte quanto più si crea la speranza che oltre quel confine ci sia qualcosa di diverso da ciò che ci circonda.                                                                                                                

83  M. AUGÉ, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità (1992), trad. di Dominique

Rolland, Milano, Elèuthera, 20093, p. 13.

Nasce soprattutto in chi subisce un «confine claustrofobico».85 In maniera molto simile, non a caso, si esprime un altro ben noto reporter, Ryszard Kapuściński, il quale, di fronte alla di gran lunga più ampia e invalicabile Cortina di ferro, riflette sulla sua forte aspirazione di visitare luoghi sconosciuti:

Talvolta, ma di rado, le piste mi conducevano in villaggi di frontiera. Via via che ci si avvicinava al confine, la terra si faceva deserta e la gente sempre più rara. Un vuoto che aumentava il mistero di quei paraggi e grazie al quale mi resi conto che nelle zone di frontiera regnava il silenzio. Un mistero e un silenzio dai quali ero attratto e intrigato. […] Mi chiedevo che cosa si provasse nel varcare una frontiera. Che cosa si sentiva? Che cosa si pensava? Doveva essere un momento straordinariamente emozionante. Che cosa c’era dall’altra parte? […] Forse non somigliava a niente di ciò che conoscevo e per ciò stesso era inconcepibile, inimmaginabile? In fin dei conti il mio massimo desiderio, quello che più mi tentava e mi attraeva era di per sé estremamente modesto: la pura e semplice azione di

varcare la frontiera. 86

La sua è una curiosità non tanto per quello che sta oltre il confine, ma per l’atto in sé di oltrepassare un confine, «il mistico e trascendentale atto in sé di varcare la frontiera».87 Da un lato dunque la grande Cortina di ferro, dall’altra il piccolo confine che separa l’Italia dalla Slovenia, ma che può rappresentare svariati altri confini: Europa – mondo slavo (almeno secondo la percezione contemporanea), Occidente – Oriente. Entrambe tuttavia suscitano negli scrittori-viaggiatori la stessa reazione: la curiosità per l’Altrove. Uno spazio, questo, che, con il maggiore conformismo attuato dal sistema economico e politico contemporaneo, viene sempre più a mancare agli occhi dell’autore triestino. Ed è quasi un senso di nostalgia quello che prova nel momento in cui la pratica della frontiera cade in disuso:

[…] quando cominciarono a cadere le frontiere e la retorica dello spazio globale si mise a smantellare il senso dell’Altrove, lentamente, per spirito di contraddizione, mi era cresciuta senza che lo sapessi la nostalgia di un confine vero, di quelli di una volta, con reticolati, occhiate arcigne, bagagli passati al setaccio e un silenzio teso davanti all’uomo in divisa col tuo passaporto.88

Lo spazio della frontiera è solo uno dei vari spazi marginali che è possibile riscontrare nella scrittura di Rumiz. È tuttavia interessante osservare come “la frontiera” appaia concettualmente come un paradosso: qualcosa che nasce con l’obiettivo di separare, al                                                                                                                

85Ibidem.

86 R. KAPUŚCIŃSKI, In viaggio con Erodoto (2004), trad. di V.Verdiani, Milano, Feltrinelli, 20054, pp.

14-15, (corsivo nel testo).

87Ivi, p. 15.

contrario non fa altro che avvicinare, instillando la curiosità in chi vive lungo quel margine, da una parte e dall’altra. Mai come oggi:

Il concetto di frontiera rimane ricco e complesso. Non significa necessariamente divisione e separazione. Forse l’ideale di un mondo egualitario non passa dall’abolizione di tutte le frontiere ma dal loro riconoscimento.89

Obiettivo di molti reportage di Rumiz è proprio quello di recuperare una forma di riconoscimento di questo genere di territori. Le nuove generazioni nate dopo Schengen non hanno consapevolezza del confine, e in genere evitano come la peste i luoghi periferici o dove non c’è nulla, apparentemente, che possa attrarre la loro attenzione. È una nuova forma di amnesia del territorio: amnesia nella misura in cui sono luoghi non più condivisi dall’immaginario collettivo (riferendomi sempre a quello di cultura occidentale). E se, come sostiene Augé, la storia del popolamento umano è lastricata principalmente «del superamento di quelle che chiamiamo “frontiere naturali” (fiumi, oceani, montagne»90, il processo di “perdita della memoria” potrebbe ormai definirsi compiuto, considerato che, grazie al progresso tecnologico e ingegneristico, l’uomo è in grado di travalicare qualsiasi ostacolo fisico (salvo rare eccezioni).

In qualche modo è l’eccesso di accessibilità che (anche qui, un altro paradosso) crea nuove marginalità. Un eccesso di spazio che è «correlato al restringimento del pianeta»,91 non solo grazie a mezzi di trasporto sempre più veloci, ma anche per l’infinita varietà di immagini che arrivano fin dentro le nostre case e «ci danno una visione istantanea di avvenimenti in atto all’altro capo del pianeta».92 È opportuno osservare, inoltre, che i mezzi di trasporto più rapidi, che apparentemente rendono lo spazio più dilatato, in realtà lo restringono: un treno ad alta velocità permette di raggiungere il punto B dal lontanissimo punto A, escludendo però tutto quel territorio attraverso cui quel mezzo non si ferma. Così si crea nuovo spazio marginale, anche lì dove è attraversato dal mezzo di trasporto “dilatatore di spazio”. Un aspetto, questo, che si osserverà più avanti, nel trattare il reportage L’Italia in seconda classe.

In questo spazio sovrabbondante entra in gioco un nuovo tipo di pianificazione urbana: un paesaggio postmoderno fatto di conurbazione continua, in cui città e campagna non sono più distinte ma diviene «un’unica sterminata periferia», di cui il caso padano è un                                                                                                                

89  M. AUGÉ, Nonluoghi, p. 9.   90Ivi, p. 13.

91Ivi, p. 45. 92Ivi, pp. 45-46.  

esempio nostrano lampante.93 È quella che Turri definisce «megalopoli», ma, diversamente da altre megalopoli, quella della pianura Padana manca del «senso dello spazio vivo e partecipato, della sua unità, della sua organicità, impoverita dalla perdita dei riferimenti identitari».94 È anche in questo genere di contesti che si muove Rumiz. Questa perdita di riferimenti lo spinge alla ricerca delle piccole Heimat perdute. Come sostiene Toni Veneri:

L’indagine sulle Heimat, che conduce a una riscoperta del paese minore, alla compilazione di una cartografia alternativa a quelle dei media e del potere istituzionale, trova il proprio corrispettivo letterario in una poetica corsara delle retrovie, retrovie in cui le cose non scorrono lente ma velocissime e dove si sente più che nei centri la forza del cambiamento.95

Proprio dai piccoli centri marginali il giornalista capta i sentimenti più profondi, “la pancia” del Paese. Come in un viaggio dantesco Rumiz attraversa ettari ed ettari di «città indifferente»96, piena ormai di tutti quei nonluoghi che

sono tanto le installazioni necessarie per la circolazione accelerata delle persone e dei beni – strade a scorrimento veloce, svincoli, aeroporti – quanto i mezzi di trasporto stessi o i grandi centri commerciali […].97

Sono definiti «non luoghi» anche in virtù del fatto che ad essi non è legata alcuna valenza culturale. Luoghi di passaggio, che è impossibile utilizzare altrimenti (ed esperire a misura d’uomo, poiché la maggior parte di queste strutture costringono all’uso dell’automobile). La mancanza di una coordinata culturale specifica all’interno di questa sterminata conurbazione genera, secondo Turri, una nuova «condizione di infelicità»:98

La nuova infelicità è quella di non scoprirsi figli né della città né della campagna, ma di un mondo che ancora non si sa bene come organizzare, di una megalopoli dove è spesso penoso vivere e che può ripagare il cittadino soltando facendolo sentire figlio del proprio tempo.99

                                                                                                               

93Cfr. E. TURRI, La megalopoli padana, Venezia, Marsilio, (2000) 20042, p. 24.

94Ibidem.

95T. VENERI, I viaggi in Italia di Paolo Rumiz, p. 53. 96E. TURRI, La megalopoli padana, p. 23.

97M. AUGÉ, Nonluoghi, pp. 45-46. 98E. TURRI, La megalopoli padana, p. 31. 99Ivi, pp. 31-32.

Per essere figli del proprio tempo si è disposti ad accettare questa condizione ibrida, la cui conseguenza, tuttavia, è quella di avere «l’impressione di un mondo che ha perduto l’anima».100

Tale mescolanza di elementi di paesaggio urbano e campagna sono riscontrabili in due descrizioni molto simili che, se messe a confronto, propongono sì un paesaggio non chiaro (se si considerano le categorie ben definite di città e campagna), ma molto più chiaro se contemplato come effettiva megalopoli; un paesaggio che non è né l’una né l’altra cosa ma che è qualcosa di nuovo ed è ancora in fase di mutamento:101

Fin dalle prime ore dell'alba un mormorio continuo, lontano brusio che si diffonde tra le siepi rade, avvolge gli atti elementari all'inizio della giornata lavorativa. Qualche solitario canto di gallo proviene dai pochi pollai rimasti attivi dove l'urbanità campestre sembra diradarsi, liberando l'orizzonte dalle sagome geometriche degli edifici produttivi o dei magazzini, mentre i ciuffi di verde perenne che avvolgono i posticci rilievi delle villette, delimitate dal bizzarro sviluppo delle recinzioni, sembrano sagome sfumate di un caotico arcipelago nella piatta e deprimente omologazione delle monocolture. [...] È il respiro della città diffusa, mosso da file di camion già in coda ai semafori, o che scalano le marce prima di affrontare l'ennesima rotonda e che poi riprendono velocità, [...] dai macchinari nelle officine, dalle auto che accelerano e che superano gli automobilisti più prudenti nonostante la linea continua, da ruspe già in cammino verso i cantieri, da betoniere che stanno impastando il magma di sabbie e malte nelle enormi pance rotanti.102

La descrizione è di Francesco Vallerani, il paesaggio descritto è quello dell’entroterra veneto (un territorio, nello specifico, compreso fra la provincia di Padova e Vicenza): passato, in poco più di vent’anni, da un paesaggio di campagna ad uno di conurbazione indefinita, una megalopoli che non fa capo a nessun centro nello specifico. Dello stesso territorio offre una descrizione molto simile anche Rumiz, qualche anno prima:

Lampeggianti accesi, barrito di freni idraulici, tanfo di bestiame autotrasportato, muraglie di camion, un’ambulanza che fa slalom tra le bestemmie. L’overture delle Dolomiti si chiama “Tangenziale di Mestre”. Comincia sempre alla stessa ora e sempre nello stesso luogo. Alle cinque del pomeriggio, venti chilometri a oriente del “tappo”, la confluenza con la Treviso-Belluno. […] E ogni volta mi ripeto: “Se esco, il delirio finisce”. Ci provo, e finisco in un manicomio. Tre gomiti e un semaforo, tre gomiti e un semaforo, rotonda intasata e lavori in corso. […] Percorso in automobile, l’orticello Veneto diventa grande come l’Ucraina e non sai mai dove sei. Zelarino, Trivignano e Noale non sono tre paesi ma un unico villaggio lineare a zigzag intasato di tutto, tranne che di spazi vuoti. Serre, motocicli, biancheria, allevamenti di polli, materassi, ceramiche, agenzie immobiliari, reggiseni, golf blu, hi-fi,

                                                                                                               

100P. RUMIZ, La secessione leggera, p. 39.

101Cfr. S. SETTIS, Paesaggio, Costituzione cemento, Torino, Einaudi, 2013. 102F. VALLERANI, Italia desnuda, p. 23.

pizzerie, acquariologia. Negozi e fabbriche, fabbriche e negozi. Solo i campanili ti dicono che qui c’era un paese e lì ce n’era un altro.103

Il paesaggio ibrido occupa ormai la maggior parte dello spazio disponibile, ed è tanto più invasivo quanto più allontana l’abitante di quel territorio dalle sue pratiche originarie; si è di fronte ad un universo che non è più quello «semplice di Ruzante e Pasolini»104, ma una «Flamingo Road» fatta di «lavoro nero e discoteca, un mix infernale di benessere, fatica e paura».105Di conseguenza anche il paesaggio naturale diviene marginale, perché schiacciato dall’incalzante avanzare della megalopoli padana. Tale fenomeno verrà analizzato in maniera approfondita nel prossimo capitolo, in cui si osserverà l’attuale stato del fiume Po, non solo seguendo il percorso di Paolo Rumiz, ma anche mostrando le varie ragioni per cui, attualmente, il grande fiume è escluso dalla cultura italiana. .

                                                                                                               

103P. RUMIZ, La leggenda dei monti naviganti, p. 60. 104P. RUMIZ, La secessione leggera, p. 44.