Salito al trono ducale nel 1630, dopo il lunghissimo e avventuroso regime paterno, Vittorio Amedeo I promosse la prima ampliazione del-l'area urbana torinese, che venne progettata negli anni successivi da Carlo di Castellamonte. Una rarissima stampa di Giovenale Boetto, incisa nel 1633 \ mostra il fervere dei lavori attorno ai nuovi bastioni meri-dionali, mentre appena si delineano sul terreno i perimetri ortogonali dei futuri isolati; solo nel 1640 verrà avviata la costruzione della nobile piazza che a buon diritto fu poi detta Reale (oggi, S. Carlo). Il nuovo quartiere di Porta Nuova sconvolgeva l'aspetto urbanistico del castrum romano, accantonandone in posizione angusta e periferica l'antico centro, all'incrocio del cardo col decumanus, dove sorgevano la torre e le case del Comune medievale. L'asse della via Nuova (via Roma) puntava invece sul polo eccentrico del palazzo ducale, cui il figlio del Castellamonte, Amedeo, avrebbe imposto nel '58 una sobria facciata: anche Torino co-minciava così ad adeguarsi, con austerità subalpina, alla regularìtas e al decoro delle scenografie regali, facendo convergere strade di particolare ampiezza e dignità architettonica verso punti nodali, nei quali l'esercizio di un assoluto potere si manifestasse col fasto delle cerimonie e delle parate, in forme appariscenti e spettacolari.
Quest'idea di convergenza centripeta ispirò anche la seconda e più ambiziosa ampliazione del perimetro urbano, quella orientale, voluta da Carlo Emanuele II e delineata da Amedeo di Castellamonte nel 1673. L'idea di un asse rettilineo e solenne puntato sui palazzi ducali, partendo da un dato oggettivo non modificabile quale l'unico ponte sul Po, agì sul progetto in maniera tanto imperiosa da giungere a spezzare l'assetto
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ortogonale dell'intero reticolo viario, introducendo l'elemento abnorme, quasi capriccioso, di una grande arteria sghemba: la contrada di Po. Non solo l'aumento della popolazione e motivi di prestigio dovettero suggerire l'ambizioso disegno, ma anche l'opportunità di un rafforza-mento delle fortificazioni. D o p o l'ampliazione di Porta Nuova, il peri-metro urbano presentava due pericolose strozzature, proprio dove i ba-stioni meridionali alla moderna si saldavano alla vecchia cortina romano-medievale, e se la rientranza occidentale era efficacemente protetta dalla potente cittadella cinquecentesca, quella orientale, all'incirca nel sito dove oggi sorge il palazzo dell'Accademia delle Scienze, costituiva una cerniera molto vulnerabile. Il nuovo perimetro invece, tutto bastionato, dava alla città la caratteristica forma a mandorla lodata dai trattatisti di fortificazioni e non troppo dissimile da quella perfetta del cerchio, cioè dell'area massima entro il minor perimetro.
Anche il nuovo quartiere ebbe la sua piazza, punto focale, teatro per le parate, spiazzo per il mercato: ma la contrada di P o correva al mar-gine dell'ampliazione, quasi a ridosso dei bastioni settentrionali, sicché l'ampio slargo non fu aperto sull'asse dell'arteria maggiore, ma in posi-zione autonoma, al centro geometrico del nuovo tracciato.
Il Castellamonte lo delineò con pianta ottagona, facciate uniformi e una fontana nel mezzo, ma le cose andarono poi per altro verso: i palazzi tardarono a sorgere, il modello urbanistico a maglie rettangolari ebbe il sopravvento, il giovane e galante Duca morì nel '76, legando il suo nome a quella piazza che allora e poi venne detta da tutti i Torinesi « Carlina », e nel 1680 si spense anche l'architetto ideatore del nuovo tracciato. Proprio in quell'anno la rarissima pianta di Giovanni Abbiati ne delinea i contorni e assegna alle singole insulae i santi protettori2, mentre Tom-maso Borgonio, pochi anni innanzi, nel delineare le sue amplificatone tavole per il Theatrum Sabaudiae, aveva bensì presentato una pianta di Torino già arricchita del quartiere padano, ma nella grande veduta a volo d'uccello della Città s'era attenuto a più realistici termini, raffigu-rando minuziosamente la vecchia cortina orientale lungo la contrada dei Conciatori (via Lagrange), i terrapieni e i baluardi esterni, le sparse case 2. A. PEYROT cit., n. 60, p. 76. L'area del futuro palazzo d'Azeglio sin d'allora appartiene all'isolato di « S. Salvador ». La forma ottagona del prospetto originario è documentata dalla pianta di Harmanus Van Loon pubblicata in N. DE FER, Introduction à la fortification, Paris, 1690, tav. 21 (A. PEYROT cit., n. 68, p. 120). Sull'ampliazione orientale secentesca cfr. ISTITUTO DI ARCHITETTURA TECNICA DEL POLITECNICO DI TORINO, Forma urbana ed architettura nella Torino barocca, Torino, 1968, voi. I, pp. 1188-1221; sul palazzo d'Azeglio in particolare le pp. 1195-6 e il voi. II, p. 220, mappa 33 G.
PALAZZO D'AZEGLIO 31 rustiche fuori porta di P o e il digradare verso il fiume di un terreno del tutto deserto delle ambiziose opere progettate 3.
L'incerta situazione politica, le sorti della dinastia affidate ad un fanciullo malaticcio di cui nessuno poteva presagire allora l'eccezionale tempra, la reggenza mondana e filo-gallica della seconda Madama Reale, non erari fatte per attirare nelle nuove fabbriche gli investimenti di una nobiltà provinciale parsimoniosa e tutt'altro che opulenta. Si ricorse perciò agli incentivi, donando terreni a funzionari benemeriti o a sem-plici favoriti: sappiamo ad esempio che il 29 aprile 1680 Madama Reale concesse in dono al marchese di Saint Maurice, ch'era stato a lungo am-basciatore ducale a Parigi, un terreno di 75 « tavole », vale a dire di circa 2850 metri quadri, avente per confini a ponente la piazza Carlina, a mezzodì e a levante due strade pubbliche 4 e « a mezzanotte monsù di Marole intermediante altra strada pubblica »5. Poiché il terreno di « monsù di Marole » è quello sul quale sorge oggi il palazzo d'Azeglio, sembra doversi dedurre che tale pubblica via fosse allora a malapena tracciata: comunque è quella che fu detta più tardi la contrada del Moro (oggi, via Des Ambrois). Poco dopo, il 26 febraio 1682, il Saint Maurice cedette quel terreno, per 320 doppie d'Italia, all'orefice di Madama Reale Giulio Chichiastro di Chieri, il quale vi edificò casa e giardino, che i suoi eredi, nel '99, non tardarono a vendere all'incanto al conte Traiano Andrea Roero della V e zza; un figlio di costui, Carlo Giacinto conte di Guarene, che si dilettava di architettura, rimaneggiò e abellì l'edificio, decorandolo di una facciata posticcia, quasi una grande quinta scenogra-fica, disegnata nel 1730 da Filippo Juvarra 6.
Non è improbabile dunque che anche il terreno di « monsù di Ma-role » fosse un grazioso donativo della Reggente, ma non se ne ha docu-mento certo. Il proprietario, Giuseppe de Mesmes, marchese di Marolles
3. Theatrum Statuum Regiae Celsitudinis Sabaudiae, Amstelodami, 1682, voi. I, contro la p. 16; cfr. A. PEYROT cit., nn. 62/1-2, pp. 78-81.
4. A mezzodì la contrada di S. Filippo (oggi via Maria Vittoria) e a levante l'odierna via S. Massimo, così denominata dopo che Carlo Sada vi eresse, a par-tire dal 1846, l'omonima chiesa dedicata al primo vescovo di Torino. In precedenza, la via ebbe il nome di S. Pelagia, dalla chiesetta delle monache Agostiniane rico-struita a partire dal 1770 da Filippo Nicolis di Robilant; ma l'ultimo isolato verso la via Po era detto del Cannon d'oro, dall'insegna dell'omonimo albergo.
5. L . PROVANA DI COLLEGNO, Le tre Marolles, in: Miscellanea di studi storici in onore di A. Manno, Torino, 1912, voi. II, pp. 351-390 (in particolare le pp. 379-380).
6. Nel maggio 1825 Traiano Domenico Roero cedette il palazzo a Luigi Coardi di Carpenetto marchese di Bagnasco, dal quale passò poi a Gustavo Ferrerò mar-chese d'Ormea, ai cui eredi appartiene tuttora, ma in condizioni di penoso abban-dono, tanto da minacciare completa rovina.
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e conte di Chiavazza, allora sui 35 anni, primo scudiere ducale dal '73 e luogotenente colonnello del reggimento Guardia dal marzo del '75, era l'ultimo e mal riuscito rampollo di un ceppo francese trapiantato di recente in Piemonte. Suo padre, Francois conte di Mesmes e marchese di Marolles (nell'Hurepoix, a circa 25 miglia da Parigi), uomo d'armi di solida tempra, aveva militato sotto le insegne di Savoia, fin dai tempi di Carlo Emanuele I, nel reggimento di Jean de Villecardé de Fleury. In riconoscimento dei servigi prestati, il 5 ottobre 1 6 3 1 Vittorio Amedeo I eresse a contea il feudo di Chiavazza nel Biellese e gliene concesse l'in-vestitura, aggiungendovi dieci giorni più tardi una pensione di 304 scudi del sole a compenso dei beni che gli erano stati sequestrati in Francia per la sua dedizione al nuovo sovrano 7. D a allora la sua ascesa fu co-stante: nel '32 tornò in patria a levar truppe per un reggimento proprio; nel '37 ottenne una seconda pensione di 300 scudi per i validi servigi e le molte ferite riportate in combattimento; nel '39 militò nelle file dei Madamisti all'assedio di Torino; in seguito fu comandante del forte e della provincia di Ceva, governatore di Cuneo (1642), maresciallo di campo, luogotenente generale della fanteria (1658) e finalmente ottenne nel 1660 il collare dell'Annunziata. Morì a Marolles il 13 novembre 1662.
Dalla moglie Frangoise-Gabrielle Guillet dei signori di Pougny, im-palmata verso il 1640, il marchese di Marolles ebbe due soli figli ma-schi — Giuseppe, già ricordato, venuto in luce a Cuneo poco avanti il 1646, e Carlo Emanuele, morto appena ventiduenne nel '76 — ma ben cinque femmine, lodate per il grazioso aspetto e più volte ricordate nelle cronache galanti della piccola corte subalpina. Se infatti nessun pettego-lezzo sfiorò la primogenita Cristina, andata sposa nel '59 a Giovan Bat-tista Fozzaro di Piossasco conte di Scalenghe, e se di innocenti civetterie si parlò a proposito della secondogenita Clara Maria, che f u impalmata due anni più tardi, appena quindicenne, da Carlo Antonio Filippa conte della Martiniana, le due minori sorelle 8, Teresa e Gabriella, entrate adolescenti a corte in veste di damigelle d'onore della Duchessa, non rimasero insensibili alle seduzioni di Carlo Emanuele I I e ne divennero entrambe, e non senza scandalo, amanti. La seconda, abbandonata senza protezione, appena quattordicenne, alle frivolezze e alle insidie delle re-sidenze ducali, un anno dopo, al cadere del '66, cedette al focoso corteg-giamento del giovane sovrano, presto rimase incinta e nel dicembre 1667
7. Su Francois de Mesmes cfr. L. PROVANA DI COLLEGNO cit., pp. 351-355; sull'investitura di Chiavazza, F . GUASCO, Dizionario feudale degli antichi Stati Sardi ecc., Pinerolo, 1911, voi. II, p. 44.
8. La terzogenita, Francesca, prese il velo a Chambéry nel 1663 e vi morì pro-babilmente nell'89.
PALAZZO D'AZEGLIO 33 venne data in moglie a Carlo delle Lanze conte di Sales, che si prestò compiacente a quelle nozze riparatrici e nel luglio del '68 accolse come proprio il figlio nato dagli amori sabaudi9. Quanto a Teresa, maggiore della sorella di un paio d'anni al più, non disdegnò anch'essa le atten-zioni ducali, ne venne compensata con cospicui donativi e il 1° agosto 1672 venne data in moglie a Carlo Emanuele Filiberto d'Este marchese di Dronero 10. Questo excursus genealogico-galante tornerà utile tra breve a spiegare perché il popolino non tardò a denominare « contrà 'die Maròle » la via su cui oggi si affaccia il portale di palazzo d'Azeglio.
Abbiamo di questo edificio il preciso atto di nascita nella capitola-zione sottoscritta in Torino il 27 giugno 1 6 7 9 da Giuseppe de Marolles « col capomastro signor Giovan Battista Mariano del luogo di Valsolda, Stato di Milano, ora residente nella presente città », al fine di « far fab-bricare un palazzo nel recinto nuovo di Po, situato nella piazza nova Reale o sii Carlina nella presente città, conforme li disegni fatti et stabi-liti dal signor Michele Angelo Garove ingeniere di Sua Altezza Reale »
Michelangelo Garoe o Garove, spagnuolo d'origine, ma ticinese di nascita (aveva visto la luce a Bissone presso Lugano nel 1650), capitano, ingegnere militare, architetto, trascorse a Torino gran parte della sua operosa esistenza. D o p o la morte di Amedeo di Castellamonte (1680), che gli era stato maestro, e la partenza del Guarini (1681), egli fu per un quarto di secolo, accanto a Gianfrancesco Baroncelli, la più spiccata figura di progettista e di tecnico in una città fervente di ingenti opere edilizie. Quasi simbolicamente, la sua scomparsa, nel marzo 1 7 1 3 , prece-dette di appena un anno l'arrivo nella capitale subalpina dell'artista che ne avrebbe suggellato definitivamente l'impronta barocca e regale: Fi-lippo Juvarra. Continuatore delle opere lasciate interrotte dal Guarini — il Collegio dei Nobili e la chiesa di S. Filippo — , forse anche del-l'Ospedale di S. Giovanni appena avviato dal Castellamonte, il Garove innalzò nel penultimo decennio del Seicento il palazzo Asinari di S. Mar-zano (oggi Turati), con l'atrio a colonne tòrtili e ad archi ribassati in cui
9. Il conte di Sales, nato intorno al 1634, morì il 17 dicembre 1678 con grado di colonnello di cavalleria. Il figlio legittimato da quel compromesso, battezzato coi nomi di Agostino Francesco, fu poi padre del dotto cardinale Carlo Vittorio Amedeo delle Lanze (1712-1784).
10. L . PROVANA DI COLLEGNO cit., p p . 3 5 5 - 3 6 5 ; sulle v i c e n d e ulteriori delle M a r o l l e s cfr. le p p . 3 8 2 - 3 8 3 e 3 8 7 - 3 8 9 .
11. L. PROVANA DI COLLEGNO cit., pp. 377-378. G. CHEVALLEY, Un avvocato architetto: il conte Benedetto Alfieri, Torino, 1916, p. [22], assegna correttamente il progetto al Garove, ma con la data inesatta del 1683, che è quella del probabile inizio dei lavori. Sull'architetto cfr. A . BAUDI DI V E S M E , Schede Vesme, Torino, voi. II, 1966, pp. 515-516.
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riecheggia così viva la lezione guariniana; avviò lo splendido palazzo Morozzo della Rocca (poi d'Agliano), distrutto durante la seconda guerra mondiale; lavorò dal 1699 a restaurare e ampliare la fastosa residenza della Venaria Reale; fornì nel 1 7 1 1 i progetti per la ricostruzione del castello di Rivoli, incendiato dai Francesi vent'anni prima, e nel 1 7 1 3 quelli per l'erezione del palazzo dell'Università in contrada di Po.
Per il suo committente di fresche origini transalpine il Garove pro-gettò una casa signorile di gusto francese, del tipo detto entre cour et jardin, anche in considerazione dell'area disponibile, che ha forma di ret-tangolo fortemente allungato. La fabbrica principale, di pianta pressoché quadrata, con prospetti a intonaco, si affaccia con entrambe le fiancate prive di accessi su due strade parallele. L'intervallo che le separa è di appena 24,5 metri. La fronte principale, volta a levante e fiancheggiata da due modesti avancorpi, è separata dall'odierna via S. Massimo da un raccolto giardino, dal quale una scala di pietra a duplice rampa laterale sale ad un piccolo terrazzo, che per tre portali dà accesso diretto al grande salone terreno. Il fronte di ponente, che oggi si affaccia sul cortile « ci-vile », doveva in origine guardare sui fabbricati rustici dei magazzini e delle scuderie, forse sul pollaio e sull'orto; le costruzioni che oggi deli-mitano i due cortili del palazzo sono da attribuire in gran parte al rima-neggiamento tardo settecentesco. Ma la facciata stessa doveva mostrare un prospetto affatto diverso: nel corso dei restauri operati a partire dal 1953 si è infatti accertata l'esistenza di due colonne di pietra incorporate nei piedritti che separano i finestroni terreni, nonché la traccia di due grandi finestre acciecate ai lati della porta d'accesso al salone principale. Se ne deduce che l'attuale sala d'ingresso venne ricavata al cadere del Sette-cento murando un portico a giorno, che in origine si apriva sulla corte, consentendo di montare in carrozza e di scaricare derrate al riparo dalle intemperie.
Malgrado la capitolazione del 1679, i lavori di costruzione non comin-ciarono subito, forse per sopravvenuti impegni del capomastro Mariano, più verosimilmente per la cronica scarsezza di moneta che affliggeva il committente. Questi aveva bensì venduto nel 1680 il suo feudo di Ma-rolles per lire 55.000, ma con 11.000 di quelle gli toccò pagare debiti accesi in Francia e le 44.000 residue, che dovevano venirgli trasmesse a Torino, sedici anni dopo non s'erano vedute ancora. Anche l'aver lasciato nell'82 la carica di primo scudiere, serbando titolo di gentiluomo di camera, per assumere l'ufficio di governatore di Carmagnola, poco do-vette giovare alle sue dissestate finanze, se chiese ed ottenne l'anno se-guente il benestare per la cessione dell'altro suo feudo, quello di Chia-vazza: ripiego tutt'altro che immediato, perché la ricerca dell'acquirente
PALAZZO D'AZEGLIO 35 e le laboriose trattative si protrassero poi per ben otto anni. Punto sco-raggiato, il Marolles decise di affidare la costruzione del suo idoleggiato palazzo ad una nuova impresa: quella del capomastro Francesco Peghino; la nuova capitolazione, sottoscritta il 17 marzo 1683, stabiliva che i lavori avessero inizio immediato e la consegna dovesse avvenire nel prossimo ottobre, benché il terreno fosse del tutto vergine, tanto che cantine e « infernotti » erano ancora da scavare. Il costruttore ricevette tremila lire in contanti, un secondo acconto di 50 doppie il 1 5 maggio, poi più nulla. Comunque, nell'89 il palazzo era in piedi, forse non ultimato del tutto, sicché non dovette risentire dell'arresto delle attività edilizie prò-vocato nel 1690 dall'impari conflitto con la Francia. Il Marolles, che fin dall'85 era stato promosso maresciallo di campo, allo scoppio delle osti-lità scriveva al suo segretario Jouty di proteggere l'edificio dal fuoco, di ritirarvi il fieno al sicuro e di prelevarvi oggetti e viveri per il proprio fabbisogno. Finalmente, nel maggio 1 6 9 1 , la cessione del feudo di Chia-vazza venne perfezionata e l'acquirente, il contino Carlo Giuseppe Fer-raris di Biella, versò in moneta poco meno di 38.000 lire, ma il venditore non ne toccò un quattrino, perché la capitolazione, certo per volontà du-cale, imponeva che « s'impiegasse la somma in pagamenti dei debiti del predetto signor marchese don Giuseppe di Mesmes de Maroles, massime contratti per la costruzione del suo nuovo palazzo esistente in Città nuova sotto le coerenze della contrada publica da tre parti et il capo-mastro Francesco Peghino ». Quest'ultimo possedeva dunque una parte di terreno dell'isolato di S. Salvatore, dalla parte di ponente, forse cedutagli dal Marolles in parziale soddisfacimento del proprio debito. L o stesso documento ribadisce che si tratta del palazzo « sito nella nuova ampliazione di questa città, coherenti la piazza Carlina, gli eredi del-l'orefice Chichiastro e la contrada pubblica a tre parti »: determinazione che potrebbe confondere le idee, se già non sapessimo che l'equivoco nasceva dal fatto che l'odierna via Des Ambrois, che separava la pro-prietà del Marolles da quella degli eredi Chichiastro, doveva risultare allora appena tracciata e forse non praticabile 12.
Dopo essersi dato tante pene per edificare il palazzo, il proprietario potè goderselo ben poco: nominato governatore di Aosta e di Ivrea il 4 marzo 1 6 9 1 , diede pessima prova, non riuscendo a impedire ai
Fran-1 2- L- PROVANA DI COLLEGNO cit., p p . 3 7 8 - 3 8 1 . S e c o n d o F . GUASCO cit., v o i . I I ,
p. 44, la cessione del feudo di Chiavazza, correttamente assegnata al 1691, sarebbe stata compiuta da Francois de Marolles, morto trent'anni prima, anziché dal figlio tjriuseppe. Del tutto a sproposito A . MANNO (Bibliografia storica degli Stati della Monarchia di Savoia, Torino, voi. IV, 1892, p. 386) attribuisce quel feudo ai Marolles dal 1690 al 1721.
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cesi di calare dalle strettoie impervie del Piccolo S. Bernardo e di taglieg-giare Aosta, tornandosene poi indisturbati per la stessa via. Nella citta-dina montana rimase poi senza infamia e senza lode e vi morì d'improv-viso, celibe e intestato, al cadere d'agosto del '94, ultimo maschio del suo casato. Il palazzo torinese, che allora rendeva 610 lire e 15 soldi di fìtti annui, toccò alle sue tre sorelle superstiti (e alle figliuole della quarta, Cristina contessa di Scalenghe, che gli era premorta)1 3. Nessuna di esse sapeva che farsene, perché erano tutte felicemente accasate 14, e non tar-darono infatti ad alienarlo, cedendolo il 6 marzo 1697 al conte Baldas-sarre Filippo Roero di Sciolze, dello stesso ceppo di quell'altro Roero che due anni dopo avrebbe acquistato le vicine case degli eredi Chi-chiastro 1o.
Quella che stentava a trovare un nome era la contrada che costeg-giava il palazzo lungo il suo lato settentrionale e si spingeva verso il fiume, tra terreni nudi e bassi fabbricati, fino a raggiungere i bastioni in prossimità della nuova porta di Po: l'odierna via Principe Amedeo. Non si affacciavano su di essa, né ve ne sorsero poi, edifici sacri, dai quali spesso la toponomastica mutuava il nome del santo dedicatario; ma un lungo tratto del suo fronte a nord era occupato dalle fiancate del palazzo, dei giardini e delle scuderie che il Guarini aveva progettato per Emanuele Filiberto il M u t o principe di Carignano e vennero completati quasi simul-taneamente al palazzo del Marolles, tra il 1 6 7 9 e l'85. Ciò spiega perché nel Viano della città di Torino inciso nel 1 7 2 4 l'isola di S. Salvatore (distinta col n. 103) appaia costeggiata dalla « contrada di Carignano »,