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Una panoramica sui temi della sicurezza sui luoghi di

Nel documento COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA (pagine 7-12)

Commis-sione d’inchiesta

Nel primo periodo di attività della commissione di inchiesta sono emerse con chiarezza una serie di evidenze circa le condizioni di lavoro nel nostro Paese e in particolare circa le condizioni di dignità, sicurezza e libertà che secondo l’articolo 41 comma 2 della Costituzione costituiscono i limiti entro i quali deve muoversi la libertà di iniziativa economica.

È opportuno rilevare che gli ambiti e le tematiche oggetto di questa prima relazione non pretendono di esaurire tutti i profili che riguardano le varie manifestazioni di illegalità del lavoro nel nostro Paese ma di esporre alcuni importanti indicatori delle più gravi ferite alla democrazia.

Il minimo comune denominatore di tali elementi di seguito esposti, è costituito indubbiamente da una serie di costanti e di variabili.

La prima costante che si deve sottolineare riguarda il rapporto tra la ricerca del profitto con modalità, termini e proporzioni prevalenti sulla tutela della dignità, della salute e della sicurezza. Non si tratta di reiterare in questa sede un adagio scontato teso a ritenere che il profitto spinge l’operatore economico a travalicare il confine tra legalità e illegalità del lavoro, ma di porre un’analisi ben fondata e concreta sulle ragioni per cui, nel campo della tutela dei diritti del lavoro e specificamente della sicurezza e salute del lavoro, ciò avviene con particolare frequenza e con notevoli danni per la vita, salute, libertà, dignità e con aggravio della spesa pubblica.

Altra costante emersa dalla raccolta di dati e dalle inchieste espletate da questa Commissione è costituita dalla diffusività geografica su tutto il territorio del Paese. Le evidenze delineano una economia nazionale in cui, da nord a sud, da est a ovest, si registra il dato tragico delle morti e degli incidenti gravi o gravissimi per cause di lavoro. Anche in tal caso non si tratta di delineare una mera geografia degli incidenti sul lavoro ma di porre le basi per un’analisi storica, economica, giuridica, sociale che non trascuri nessuna parte del territorio e non ponga una pregiudiziale geografica; si

vedano al riguardo i dati che emergono circa il caporalato e lo sfruttamento del lavoro dove nessuna regione risulta esente da questa piaga non degna di un paese civile.

Infatti emerge una allocazione del delitto di intermediazione illecita di manodopera molto diffuso nell’ambito dell’agricoltura e trasversale a molti settori dell’economia.

Una terza costante riguarda in modo specifico il settore degli incidenti sul lavoro che ricade quasi esclusivamente su operai e manovalanza di vario tipo, a dimostrazione che – in forza dello studio della causalità dei singoli incidenti – sono vittime sempre gli anelli deboli della catena lavorativa. Di conseguenza, se si vuole misurare l’efficienza del nostro sistema di prevenzione, non si deve trascurare un’analisi volta a valutare in che misura incida sulla morte o lesione di un operaio o di un agricoltore la gerarchia funzionale delle posizioni di garanzia all’interno di un’impresa. Se a subire quasi sempre gli eventi lesivi sono gli operatori della fascia più bassa dell’attività lavorativa, evidentemente vi è un sistema organizzativo del-l’impresa che non presta la dovuta attenzione a tutti gli obblighi della sicurezza e che scarica sui lavoratori, rectius sulla loro pelle, i deficit strutturali e organizzativi dell’ambiente di lavoro. In breve, non si muore soltanto di cadute dall’alto o per schiacciamento o altre dinamiche ma anche per la cattiva organizzazione.

Inoltre, altra costante che merita di essere evidenziata in questa analisi riguarda la trascuratezza che gli operatori, i media, gli studi e le stesse forze sociali rivolgono al peso macroeconomico specifico dell’illegalità del lavoro e al rapporto con la politica economica.

In particolare, vi è un nesso fortemente rigido tra le misure adottate a livello microeconomico – e quindi i costi e gli investimenti che sostiene la singola impresa per adeguarsi alle normative in materia di sicurezza e di tutela del lavoro, i danni che la stessa subisce da eventuali controlli, sanzioni, incidenti – e il danno che subisce lo Stato sul piano della spesa pubblica a causa della violazione delle normative in materia di sicurezza.

La tematica di più vasto interesse degli incidenti sul lavoro ha visto anche nel periodo della pandemia una crescente gravità.

Le cause degli incidenti mortali e di quelli gravemente lesivi si devono rintracciare materialmente nella violazione delle normative in materia di sicurezza del lavoro e specificamente nella trascuratezza della formazione quale prima forma di prevenzione culturale, della sorveglianza sanitaria e dell’obbligo di vigilanza all’interno dell’ambito lavorativo.

Uno sguardo panoramico sulle cause più frequenti, come si desume dalla lettura dei dati INAIL e delle attività svolte dall’Ispettorato nazionale del lavoro, dimostra indubbiamente che si è ritornati ad un andamento non solo di crescita del numero degli incidenti ma, soprattutto, ad un ritorno del tipo delle cause del fenomeno materiale che porta ad eventi lesivi.

Infatti, le cause ricorrenti rintracciate nello schiacciamento, nella caduta dall’alto, nell’impatto con macchine e attrezzature, nel coinvolgi-mento del corpo del lavoratore in impianti micidiali, dimostra che l’evo-luzione del parco tecnologico non è stato accompagnato da una crescita dell’attenzione in particolare della formazione e dell’addestramento che

sono i primi strumenti preventivi per insegnare al lavoratore se, come, quando potersi approcciare all’oggetto del proprio lavoro.

Nessuna evoluzione tecnologica, al cui adeguamento è tenuto il datore di lavoro, può mai sopperire all’incuria, alla trascuratezza alla superficialità con cui si gestisce una macchina, un impianto, un’attrezzatura.

I lavori della Commissione unitamente ai dati che sono stati raccolti e analizzati, alle audizioni di vari esperti, alla lettura di statistiche dram-matiche, depongono univocamente per rilanciare l’attività di inchiesta e la sensibilità delle istituzioni per realizzare una regressione dell’indice infor-tunistico.

Il tema dello sfruttamento del lavoro si concentra nel settore agricolo, dove maggiormente si registra lavoro irregolare con ricorso a manodopera sottopagata, priva di condizioni di lavoro e umane dignitose, di provenienza extracomunitaria. Si nota, altresì, una specificità di genere che grava sulle lavoratrici per lavori faticosi per condizioni, orari, retribuzioni.

Invero le evidenze dimostrano che il delitto di intermediazione illecita di manodopera si registra in ogni campo lavorativo: edilizia, sanità, assistenza, case di cura, logistica, call-center, ristorazione, servizi a domi-cilio, pesca, cantieristica navale.

Altro elemento da porre in evidenza riguarda la diffusione su tutto il territorio, nelle campagne, soprattutto nelle province ad alta vocazione agricola, nelle periferie metropolitane, per l’edilizia o per trasporti, per il facchinaggio, per i lavori di manutenzione.

Ciò legittima questa Commissione ad adottare la definizione di

« caporalato urbano » per realtà di sfruttamento di manodopera che assume la caratteristica del reclutamento di lavoratori presso individuabili punti della città per servizi o prestazioni di breve durata. Per la domanda di manodopera in settori diffusi, soprattutto nei servizi, si sta consolidando l’offerta di un incontrollato bracciantato metropolitano per lo più straniero.

Tale realtà, a parere della Commissione richiede un ulteriore appro-fondimento sia nell’analisi socio-lavoristica, sia nella denuncia del riferi-mento topografico strettamente legato al controllo del territorio.

Un ulteriore profilo, secondo quanto segnala l’Ispettorato Nazionale del lavoro, riguarda il ruolo delle vittime.

Su un piano criminologico, si rivela molto utile osservare che sono rarissime o pressoché inesistenti le denunce presentate dai lavoratori e dalle lavoratrici oggetto di sfruttamento. La quasi totalità delle indagini svolte in materia di caporalato e più ampiamente di sfruttamento del lavoro, sono avviate su iniziativa degli uffici e in particolare dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro.

La certezza che giungono raramente denunce da parte delle vittime è un indice chiaro, netto, univoco che lo sfruttamento del lavoro condiziona, ancor prima che le disumane e indegne vite di lavoratori, la stessa libertà delle vittime di reagire all’ingiustizia e alla vessazione e di chiedere protezione sociale.

Si tratta di un elemento ben più forte della classica omertà, che si caratterizza per il mero silenzio e per la paura, poiché nel caso del lavoratore o della lavoratrice sfruttati si aggiunge il grave bisogno di

accettare qualsiasi condizione di lavoro, con retribuzione indegna, senza condizioni di sicurezza o in taluni casi anche presso alloggi degradanti in quanto privi di qualsiasi requisito di abitabilità.

In definitiva, l’assenza di denunce è da ricondurre a una particolare e profonda precondizione di disagio economico, umano e sociale al quale la vittima non riesce a reagire.

La conseguenza di tale considerazione si coglie sotto il profilo del controllo del territorio e delle persone. Storicamente, infatti, ripercorrendo l’evoluzione delle varie espressioni del crimine organizzato, si nota che laddove avviene un controllo del territorio e delle persone che versano in uno stato di bisogno si produce la rassegnazione, il timore, il silenzio, la mancanza di coraggio a rivolgersi alle autorità. In un circolo vizioso, si può tracciare un collegamento diretto tra lo stato di bisogno, lo sfruttamento, le condizioni di lavoro indegne, la rassegnazione, l’omertà e infine la man-canza di fiducia nelle istituzioni.

In tal modo, è bene sottolinearlo, si pongono le basi per segnare, in un dato contesto territoriale, una marcata distanza tra vittime, autorità ispettiva, giudiziaria o di polizia, e lavoro regolare e dignitoso.

Tutto ciò pone una relazione inversamente proporzionale tra lo svi-luppo economico e sociale e la crescita della criminalità organizzata. In uno stato di bisogno umano ed economico, minore è la tutela delle vittime, maggiore è la rassegnazione, l’omertà e l’espansione dello sfruttamento lavorativo organizzato. Per tali motivi occorre recidere tutti gli anelli della catena che lega vittime-caporalato-omertà.

Ne consegue un secondo profilo sulla tutela delle vittime riguardante la mancanza di strumenti strutturali, non episodici, idonei a garantire assistenza alle vittime, una volta acclarata la condizione di sfruttamento lavorativo.

È molto frequente, soprattutto subito dopo gli arresti in flagranza di reato del datore di lavoro o del caporale, la mancanza di una rete di solidarietà che garantisca assistenza sociale, economica, sanitaria, legale, linguistica e abitativa. A tal riguardo vi sono iniziative apprezzabili sul territorio, di regola promosse da un utile ed encomiabile partenariato tra pubblico e privato e specificamente tra associazioni, volontariato, prefetture ed enti locali. Si pensi ad esempio alla collaborazione tra l’Organizzazione Internazionale della Migrazione e l’Ispettorato Nazionale del Lavoro in materia di interventi per il contrasto al caporalato e presa in carico delle vittime di sfruttamento e delle loro famiglie.

Anche sotto questo profilo la Commissione ritiene di evidenziare gli sviluppi positivi che potrebbero condurre a delineare un nuovo specifico modello di intervento a favore delle vittime, fondato sulla cooperazione tra strutture prefettizie, Procura della Repubblica, strutture sanitarie e enti del terzo settore. Siffatto modello appare l’archetipo di un necessario intervento solidaristico che laddove già sperimentato spontaneamente ha dato buoni frutti.

Inoltre, sul piano della più ampia capacità deterrente e sanzionatoria, si deve sottolineare che la legge n. 199 del 2016 per il contrasto al caporalato e allo sfruttamento del lavoro ha collegato l’applicazione del

reato di cui all’articolo 603-bis del codice penale, alla responsabilità amministrativa degli enti prevista dal decreto legislativo n. 231 del 2001.

Quindi anche per il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro è prevista la responsabilità diretta dell’impresa che utilizza, assume o riceve manodopera indotta dallo stato di bisogno a lavorare in condizioni di sfruttamento.

A tal riguardo si deve sottolineare che la legge n. 199 del 2016 si rivolge a tutte le attività lavorative, con un efficace intervento ad ampio raggio che spazia dal diritto penale al diritto processuale, dal sistema retributivo fino alla responsabilità degli enti.

Nell’intento di assicurare un efficace contrasto sistemico, idoneo a colpire un’espressione criminosa ampiamente diffusa, l’intervento repres-sivo maggiormente efficace al fine di scoraggiare lo sfruttamento lavorativo e di indurre le imprese a non approfittare di lavoratori in stato di bisogno – forse più della pena prevista dall’articolo 603-bis codice penale – è costituito proprio dalla responsabilità amministrativa delle imprese.

Si tratta di una forma di responsabilità amministrativa da reato che però non ha avuto grande applicazione nei pur numerosi procedimenti giudiziari intrapresi.

Le cause di tale scarsa applicazione sono da ricercare probabilmente nelle difficoltà investigative o nella resistenza da parte degli organi di indagine a intervenire con sanzioni pecuniarie o interdittive molto incisive.

Si pensi infine che tra i più efficaci strumenti predisposti dalla legge n. 199 del 2016 e ancora poco utilizzati v’è anche il cosiddetto « controllo giudiziario dell’azienda ». Si tratta di una misura alternativa al sequestro dell’azienda, che per la prima volta anticipa a livello cautelare una valutazione ponderata della continuità dell’azienda, della tutela dell’occu-pazione e del valore dell’azienda.

Infatti, il giudice nomina un amministratore che si giustappone (e non si sostituisce) al datore di lavoro, lo affianca nella conduzione dell’impresa e lo autorizza al compimento delle attività, in modo non dissimile al modus operandi di un curatore ad acta.

Si badi che l’istituto del controllo giudiziario consente da un lato la tutela effettiva dell’occupazione e, dall’altro, la tutela di beni giuridici protetti dalla norma – quali sicurezza, dignità, regolarità del lavoro – nonché la tutela del patrimonio aziendale.

Pertanto, il « controllore giudiziario » è chiamato a un intervento legalitario, a controllare ma anche a cogestire l’azienda, per risanare e regolarizzare, con un ruolo da protagonista. Egli non ha responsabilità di scelte di politica aziendale ma ha la funzione di anteporre ad ogni valutazione microeconomica, l’obiettivo di ripristinare la legalità dei rap-porti di lavoro.

Purtroppo, anche tale istituto non ha ancora avuto l’ampia applicazione che la stessa norma consente.

Pertanto, con la presente relazione si analizzano i temi cruciali dello sfruttamento lavorativo, degli incidenti sul lavoro, della piaga delle condi-zioni di lavoro non degne degli esseri umani.

Filo conduttore di queste pagine è la tutela del lavoro sicuro e dignitoso, dei lavoratori, dello stato dei diritti umani e sociali e delle garanzie di ordine costituzionale che si devono ritenere inderogabili.

2. L’impatto sociale ed economico degli infortuni sul lavoro e delle

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