Bartolomeo Schirone Università della Tuscia – Viterbo Società Italiana di Scienze della Montagna
L’istituzione della maggior parte dei parchi e delle aree protette terrestri è legata alla presenza di una importante copertura forestale che, oltre al valore paesaggistico e naturalistico diretto, dà asilo a quella componente faunistica di grande pregio che, altrimenti, sarebbe da tempo scomparsa. Il caso più emblematico è dato dal Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise che conserva tratti di foresta vetusta tanto importanti da essere diventati patrimonio dell’umanità UNESCO e che, grazie all’ampia estensione delle sue foreste, ospita ancora l’orso marsicano, il lupo appenninico, il camoscio e forse addirittura la lince. Basterebbe quindi questa semplice riflessione per far comprendere quanto sia importante per il paese, anche in termini di banale economia turistica, la conservazione o almeno la provvida gestione del patrimonio boschivo. Tutto ciò oggi sembrerebbe, e sarebbe, più semplice giacché la pressione antropica sul bosco, dettata da effettive e spesso urgenti necessità di sopravvivenza, si è drasticamente ridotta a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso mentre la superficie forestale nazionale è, di conseguenza, aumentata grazie alla ricolonizzazione naturale delle aree agricole abbandonate. Invece, non è così perché, incredibilmente, sta avvenendo il contrario: il bosco è oggetto di nuovi irrazionali assalti. Cosa è successo?
Quando, subito dopo la laurea in scienze biologiche, mi avvicinai al mondo della ricerca forestale non esisteva ancora la parola sostenibilità oggi usata, purtroppo, per mascherare ogni sorta di nefandezza visto che cosa sia davvero la sostenibilità non è ancora dato di sapere. Allora siamo alla fine degli anni Settanta la parola d’ordine era
“miglioramento del bosco”. E devo dire che, sia pure a partire da una concezione fondamentalmente produttivistica del bosco, cosa si dovesse intendere per miglioramento era ben chiaro. Per i forestali di allora, pur con varie sfumature e accenti, il miglioramento del bosco consisteva innanzitutto nella conversione del ceduo all’altofusto ovunque fosse possibile, in particolare nelle aree di proprietà pubblica. D’altra parte, i riferimenti sul terreno erano dati da meravigliosi popolamenti forestali come le faggete della Foresta Umbra, sul Gargano, o delle Foreste Casentinesi che, gestite dall’allora Azienda di Stato per le Foreste Demaniali (ASFD), riuscivano a conciliare gli aspetti produttivi con quelli paesaggistici e naturalistici. Non per nulla queste foreste furono le prime ad essere
“trasformate” in parchi nazionali nel 1993.
Poi, a partire dalla fine degli anni Ottanta, e più in particolare in seguito agli approfonditi studi sull’ecofisiologia dei cedui di cerro condotti nell’ambito del Progetto finalizzato CNR-IPRA, il ceduo tornò all’attenzione del mondo accademico e, indirettamente, di quello professionale. La “riabilitazione” definitiva del ceduo, fino ad allora considerato una forma povera di gestione del bosco e non degna della selvicoltura di un Paese avanzato (famosa la frase dell’allora Direttore generale per l’Economia montana e per le Foreste, Alfonso Alessandrini: l’Italia è un paese ricco di boschi poveri), si ebbe quando alcuni alti esponenti dell’Accademia Italiana di Scienze Forestali dichiararono che il ceduo era un modello colturale come un altro.
Le ragioni di questo importante cambio di prospettiva sono molteplici, ma almeno due sono state determinanti. In primo luogo, la gestione del ceduo, intesa anche come redazione dei piani di assestamento, è di estrema semplicità e non richiede particolari indagini di
campo. In sostanza, anche un boscaiolo esperto può gestire bene un ceduo. Pertanto, a parità di guadagno per il professionista, la redazione di un piano impostato sul governo a ceduo è molto più remunerativa. A ciò aggiungasi che, per come è organizzato, ab origine, l’Ordine dei Dottori Agronomi e Forestali, la maggior parte degli incarichi, a volte anche attraverso i bandi pubblici, viene spesso ottenuta da laureati in scienze agrarie e non in scienze forestali.
E questo non è un aspetto marginale giacché gli agronomi sono preparati per gestire ambienti, quelli agrari, totalmente artificiali e non hanno quasi alcuna dimestichezza con quelli naturali. Per essere più precisi, conoscono molto bene le piante, anche arboree, ma non hanno idea di cosa siano le comunità naturali di piante e animali, ossia le cenosi forestali. In secondo luogo occorre ricordare che a partire dal 1977, anno del passaggio delle competenze in materia forestale dallo Stato alle regioni (in particolare, D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616: soppressione dell’ASFD), quello che dall’inizio dagli anni Venti era stato l’incubatore, la palestra e il banco di prova per i migliori tecnici forestali del paese e, allo stesso tempo, un ambitissimo posto di lavoro per i giovani laureati, venne meno. Basti ricordare che l’ingresso nell’Amministrazione Forestale dello Stato era consentito, oltre che ai laureati in scienze forestali, solo ai laureati in agraria o ingegneria che, però, dovevano conseguire, a spese dell’amministrazione stessa, anche il titolo di dottori forestali. A far precipitare definitivamente la situazione intervennero la legge 10 febbraio 2000, n. 30 (legge-quadro in materia di riordino dei cicli dell'istruzione), detta anche riforma Berlinguer dall'allora Ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer, che istituiva il cosiddetto sistema 3+2 e le successive riforme universitarie peggiorative, se possibile, della prima. La suddivisione del ciclo di istruzione in due spezzoni, di tre e due anni, non ha più consentito di formare adeguatamente, in aula, laboratorio e bosco, laureati in grado di affrontare la gestione di sistemi forestali complessi come le fustaie.
Di qui il ripiego verso modelli di intervento facili fino alla banalità e lontanissimi dalle vere formazioni naturali. Ciò soprattutto a danno dei boschi appenninici dove il governo a ceduo è più diffuso.
Negli ultimissimi anni sono poi maturate le premesse per la tempesta perfetta. Al di là dell’uso taumaturgico del vocabolo sostenibilità, ormai aggiunto tout court ad ogni progetto, piano, provvedimento legislativo o articolo scientifico che riguardi l’ambiente, si è fatta strada la necessità di sostituire alle fonti di energia fossile quelle rinnovabili. Sacrosanto fino a quando nella categoria delle fonti rinnovabili non sono state incluse le biomasse forestali. A quel punto si si è aperto il vaso di Pandora e l’idea della gestione sostenibile del ceduo per la produzione delle biomasse forestali come fonte energetica rinnovabile si è diffusa a macchia d’olio senza ostacoli o incertezze. A poco valgono gli studi scientifici, anche recentissimi, che dimostrano che l’uso delle biomasse forestali, a parte i danni diretti che arreca all’ecosistema bosco per via dei massicci prelievi legnosi da ceduazione, produce emissioni di CO2 tali da contribuire in modo non trascurabile alle alterazioni climatiche anziché fungere da fattore mitigante (A solo titolo di esempio riporto qui alcuni riferimenti facilmente rintracciabili:
http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/ldr.2214/full;
http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0341816216300698;
http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/ldr.2551/full;
www.wildeurope.org/index.php/wild-areas/protection-topics/wood-energy-schemes-a-disaster-for-climate-change).
Oramai nel business delle biomasse è entrato il grande capitale attraverso società specializzate (cfr. Biomasse Italia S.p.A., EBS, Marcegaglia Energy, AIEA, ecc.) che traggono il loro vero guadagno non tanto dall’impiego del combustibile vegetale quanto dai contributi con cui lo Stato sostiene l’uso delle energie rinnovabili. L’impatto di questi nuovi orientamenti in materia di gestione forestale è facilmente osservabile su vaste aree boschive
della Calabria, ma l’opposizione a tali approcci non è facile a causa della campagna mediatica capillare condotta con argomentazioni volutamente ambigue (ad es.:
www.repubblica.it/ambiente/2017/11/14/news/_in_italia_il_bosco_finisce_abbandonato_perche_il_suo_valo re_non_viene_compreso_-181015855/?refresh_ce).
Ora, preceduti da vari convegni nazionali sul ruolo futuro delle foreste italiane (cfr.
Forum nazionale delle Foreste, Rete Rurale Nazionale), il ciclo sta per chiudersi con la predisposizione a livello ministeriale dei nuovi programmi nazionali per le foreste e le aree interne. Ovviamente, sono tutti impostati sul concetto di foresta produttiva, filiera foresta-legno e sul riesumato concetto di bosco che non si rinnova senza l’intervento dell’uomo. Per farla breve, la selvicoltura italiana fa un salto all’indietro di cinquant’anni lasciando sbigottiti per primi i vecchi forestali, colti e tecnicamente preparati. Tutto ciò mentre i nostri boschi bruciano perché non esiste un apparato efficiente per la prevenzione e la lotta agli incendi forestali. Anzi, per colmo di improntitudine, gli stessi che sostengono l’utilizzazione del bosco per la produzione di biomasse da energia propongono addirittura l’introduzione sistematica del fuoco prescritto come efficace strumento per la prevenzione degli incendi.
Perfino all’interno dei parchi nazionali. Sembra impossibile un così rapido crollo della cultura ecologica e forestale e della sensibilità ambientale.
Ecco, dunque, che, indipendentemente dai grandi limiti della nuova legge sui parchi, occorre battersi perché ad essi vada necessariamente assegnato il ruolo primario di territori deputati alla conservazione delle foreste durante i prossimi decenni.
VERSO IL CLIMAX NELLE FORESTE CASENTINESI. PROPOSTA DI UN