Capitolo 2: Essere genitori di un bambino con una malattia cronica fisica
2.3 Le sfide principali imposte dall’esperienza di avere un figlio con una malattia fisica
2.3.2 Parlare della malattia in famiglia
Il tema dei processi discorsivi relativi alla malattia in famiglia è particolarmente importante non solo della relazione tra genitori e figli: include anche la figura del medico e dei setting previsti nella relazione sanitaria per parlare della malattia (Deledda et al., 2013; Zimmermann et al, 2011).
In pediatria, infatti, la relazione sanitaria andrebbe concepita come una relazione triadica in cui il bambino è il cliente e il genitore è il punto di snodo, di mediazione, la diga di significazione tra il medico- la malattia e suo figlio (Dicè, Dolce & Freda, 2017). In questa sede ci si limiterà ad occuparsi dell’asse genitore-bambino, e solo indirettamente si farà riferimento agli altri assi di interazione.
In generale, l’importanza di studiare e valorizzare i processi di costruzione di significato della malattia dei bambini negli scambi discorsivi con i genitori ha a che fare con una questione pregnante dell’esperienza di malattia di un bambino. Già Anna Freud, negli anni 50, lo aveva sottolineato considerando che il bambino affetto da una malattia
fisica può soffrire anche a causa della mancanza di spazio per accogliere le sue razioni psicologiche da parte dei genitori che, comprensibilmente, sono concentrati sulla propria preoccupazione per le questioni fisiche che spesso lasciano poco spazio all’osservazione delle reazioni del figlio. Il figlio, d’altra parte, specie in tenera età, è
bisognoso del contenimento e della digestione dell’esperienza di malattia di una mente adulta, poiché è incapace di distinguere tra sentimenti di sofferenza causati dalla malattia dentro il corpo e la sofferenza impostagli dall’esterno (Freud, 1952 p. 69).
La decisione di intervistare i genitori, nell’ambito di questa ricerca (cfr. Capitolo 4), risponde a un preciso posizionamento teorico: l’assunto è che le produzioni semiotiche dei genitori costituiscano la matrice entro cui i figli costruiscono i propri pensieri, sentimenti e comportamenti connessi all’esperienza di malattia (Tronick, 2011; Quinones Bergeret, Cimbolli& De Pascale,2014). In altri termini, ci si rifà all’ ipotesi che i nuclei familiari, composti da genitori, figli malati, ed eventualmente fratelli sani, costituiscano campi di produzione di significati (De luca Picione &Freda 2014, 2015, 2017) che derivano dalle esperienze condivise, in una rete di relazioni in cui ciascun attore e ciascun evento influenzano gli altri entro un sistema dinamico in co-evoluzione. Le strategie di gestione della malattia, cosi come le interpretazioni della variabilità della stessa, pur con sfumature individuali, prenderebbero forma in questo specifico contesto relazionale (Acquati & Saita, 2017). Appare calzante la concezione di Tronick sul meaning-making, un processo di matrice sia individuale che relazionale, influenzato dal momento presente e da mediatori esperienziali, con potenzialità di mutamento continue. Tronick mette
l'accento, nello sviluppo dell'individuo, piuttosto che sui processi derivanti dall'interazione tra madre e bambino fondati sull'attaccamento, sulla ricerca di sicurezza, sui processi di “regolazione emotiva”, che prendono forma nelle relazioni diadiche con gli altri significativi producendo conseguenze esperienziali e funzionali (Tronick, 2011). Ciò significa, a parere di chi scrive, che le matrici di significato co-
costruite da bambini e genitori che si relazionano con la malattia influenzeranno le esperienze e i funzionamenti comportamentali, relazionali ed emotivi, di ciascun componente del sistema famiglia. La malattia, quindi, può essere interpretata come un inciampare del bambino che, nell’alzare lo sguardo dopo il capitombolo e rivolgerlo ai genitori, apprende a dare significato all’esperienza e a regolare le emozioni
attraverso la reazione dell’altro: un genitore che darà a quella caduta il significato di
un evento molto preoccupante restituirà questo senso al bambino, un genitore che correrà per aiutarlo a rialzarsi ne restituirà un altro, un genitore impassibile o sorridente e rincuorante ancora un altro (vedi Quinones Bergeret, Cimbolli & De Paquale, 2014 p.30).
Spesso i genitori, al servizio dello scopo, almeno di superficie, di proteggere i figli dalla preoccupazione e dall’ansia -ma aggiungeremmo noi, allo scopo di proteggere anche sé stessi dall’impatto che la reazione dei propri figli può avere- evitano di
fornire informazioni complete e corrette circa la malattia. Quest’atteggiamento, entro
un certo grado, ed una certa forma, può essere funzionale a rispettare le capacità di comprensione del bambino ed i suoi bisogni di conoscenza. Tuttavia, un eccesso di omissioni, disancorato dai bisogni del bambino, rischia di concorrere ad incrementare, piuttosto che tenere a bada, il senso di malessere del bambino, e di lasciare spazio a fantasie catastrofiche, problemi psicologici, somatizzazioni… (Lecciso & Petrocchi, 2012 p.71).. Studi recenti sul tema evidenziano che i bambini che hanno a disposizione informazioni maggiori e più oneste circa la propria diagnosi e le conseguenze si adattano meglio (Ranmal et al, 2012).
Le ricerche mostrano che genitori che sono maggiormente in grado di aiutare i propri figli a costruire narrazioni di eventi stressanti più coerenti, esplicative e espressive dal punto di vista emozionale, contribuiscono a un miglior livello di benessere nei figli (Fivush, 2006, p.126).
In generale, l’utilizzo di spiegazioni è ritenuto cruciale specie nel caso della discussione di eventi stressanti. Gli eventi stressanti infatti presentano almeno due ordini di problemi: da una parte, sono accompagnati spesso da emozioni altamente disgreganti, dall’altra, possono avere a che fare con circostanze difficili da accertare e da spiegare attraverso logiche di causalità precise (Fivush, 2006, p.127). Queste problematiche, che rispecchiano quelle incontrate nell’esperienza presa in esame nel nostro lavoro del confrontarsi con la diagnosi di una malattia cornica di un figlio, sono valide per gli adulti (Bohanek, Fivush&Walker, 2005) e in misura ancora maggiore per i bambini, che dispongono di minori risorse cognitive ed emotive (Ginot, 2014).
A cavallo tra ricerche sul coping e la costruzione di conoscenza condivisa, Fivush (2006) ipotizza che i genitori che possiedono coping skills maggiori siano più in grado di accompagnare i figli nella costruzione di narrazioni più ricche dal punto di vista emozionale ed esplicativo.
In effetti, l’Autrice pone all’origine delle capacità di coping genitoriali proprio lo status di attaccamento (Fivush, 2006 p.129). Inoltre, entro questa prospettiva, l’attaccamento appare correlato al costrutto di scaffolding (Meins,1997; Vygotsky,1978 in Fivush, 2006 p.130): le madri in grado di essere più esplicative e valutative nella ricostruzione del passato con i propri figli forniscono un’impalcatura (scaffold) che guida i figli nella costruzione di narrazioni personali più coerenti.
Uno studio di Clarke (Clarke et al., 2005), basato su un’analisi tematica dei contenuti e degli stili di comunicazione in madri di giovani affetti da leucemia, parla inoltre
dell’influenza delle credenze circa la malattia dei genitori nelle comunicazioni su di essa, classificandole in base ai criteri di ambiguità, ricchezza e completezza delle informazioni (Clarke et al., 2005). In un’ ulteriore review sui bisogni genitoriali riferiti alla presa di decisione nel campo della salute dei propri figli (Jackson et al., 2008), in cui si utilizza la
thematic analysis, tre sono gli aspetti identificati come rilevanti per la capacità dei
genitori di prendere decisioni: le informazioni (in termini di contenuti, accessibilità, fonti e tempistica); il parlare con altri, che include anche le eventuali preoccupazioni per le pressioni esercitate da altri; la percezione di un senso di controllo su tutto il processo ( su cui incidono aspetti quali il carico emozionale, le caratteristiche del processo di consultazione e le eventuali barriere strutturali poste dai servizi di riferimento (Jackson et al., 2008 p.239).