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Il canone che ho proposto è una canone critico, il cui scopo è ridurre al minimo, nelle norme morali e giuridiche, le asserzioni ontologiche sulla soggettività, perché in contraddizione colla libertà che è attributo essenziale del soggetto morale. Se non disponiamo di una metafisica del soggetto, che fissi i confini fra ciò che è soggetto e ciò che non lo è, le asserzioni ontologiche, sebbene inevitabili, sono arbitrarie e discriminatorie: la libertà comprende e implica la possibilità di essere diversi da quello che si è e si è stati - ma i confini dell'ambito dei soggetti liberi vengono tracciati in base all'essere come lo abbiamo pensato fino ad ora, e non in base alla libertà. Ma anche un diritto che riconosca il presupposto della libertà dei suoi soggetti deve manifestarsi in forme linguistiche, e dunque circoscritte, e in contesti che passano per condivisi - mentre nulla ci garantisce che lo spazio delle libertà sia identico a quello del linguaggio e che i contesti siano condivisi da tutti allo stesso modo.

Il canone contiene criteri meramente pratico-formali, perché fondati sul presupposto che il soggetto morale non sia ontologicamente determinabile come tale senza cadere in una incoerenza. La prospettiva pratica implica che il soggetto morale sia sempre radicalmente altro e trascendente rispetto a ciò che noi sappiamo e diciamo di lui; che esso sia, metaforicamente, un “invisibile”, irriducibile a teoria. E che, per converso, ciò che vediamo o teorizziamo non abbia un significato morale evidente ed univoco.

Si potrebbe obiettare che la giustizia degli invisibili e le sua indeterminatezza abbiano il loro domicilio solo in una prospettiva di tipo kantiano e siano un sottoprodotto del formalismo etico e della frattura fra ciò che vale per la teoria e ciò che vale per la pratica. I confini sarebbero semplici e ovvi se si assumesse la realtà effettuale com'è e si tentasse di farsene una ragione. In tal caso si darebbe una gerarchia dei soggetti secondo una mappa che potrebbe essere simile a questa:

Nella figura il cerchio nero rappresenta l'ambito di ciò che è a pieno titolo soggetto giuridico e morale, del quale si può predicare libertà, responsabilità e dignità assiologica. La zona grigia rappresenta lo spazio di ciò che non è pienamente soggetto morale e giuridico, ma ha in qualche modo una rilevanza etica, o perché è oggetto di cura e interesse morale, o perché condivide alcuni caratteri dei soggetti morali e giuridici pleno iure, ma solo in maniera parziale. La zona bianca è il mondo della natura o del moralmente irrilevante, sia come soggetto, sia come oggetto, il mondo, cioè, delle mere cose, il cui senso, in una prospettiva pratica, può essere soltanto strumentale. I confini fra l'una e l'altra zona sono netti e determinati, perché esiste un criterio chiaro di delimitazione - una gerarchia ontologica, ad esempio, oppure l'assunzione delle preferenze e delle opinioni in merito ai soggetti condivise in una data società o in un dato momento storico. L'ambito di ciò che è a pieno titolo soggetto giuridico e morale può tollerare gerarchie e confini al suo interno, per esempio in base alla differenza di genere, alla cultura, alla razza, al gruppo sociale o alla casta, perché può legittimarli sul piano ontologico.

Il canone pratico della soggettività morale, di contro, ci dà una rappresentazione dell'ambito dei soggetti molto più problematica, che potrebbe essere questa:

Non siamo in grado di fornire un'immagine descrittiva evidente della libertà. Pertanto, se vogliamo

considerare l'universo da una prospettiva pratica, secondo il postulato della libertà, che ne è condizione, tutto l'ambito del vivente - intelligenze di qualunque tipo, esseri umani, animali, natura, - deve essere visto come una zona grigia, ove è possibile, in senso assoluto, che vi sia soggettività morale, anche qualora il nostro pensiero, la nostra esperienza e il nostro linguaggio non riescano a concepirla. Questa possibilità è un'ipotesi che la prospettiva pratica deve tener presente, perché una giustificazione di tipo universalistico non può permettersi di compiere discriminazioni e di proporre gerarchie senza trasformarsi, per ciò stesso, in violenza ed arbitrio. La zona nera è quella ove, per un linguaggio particolare, è possibile rendere manifesta la soggettività morale in soggettività giuridica, perché si è in grado sia di instaurare relazioni coercitive, sia di applicare il principio per il quale nessuno può essere costretto da una legge alla quale non sia stato in condizione di dare il proprio consenso.

La mappa precedente tollerava la compresenza di soggettività morali plurali e delimitabili su base ontologica. Questa mappa presuppone una sola soggettività morale, perché la soggettività morale è pensabile e costruibile esclusivamente in base al postulato della libertà, che è unitario e non descrittivo. Agli occhi di questo postulato, che è condizione del punto di vista morale, tutto l'universo appare come una zona grigia, eticamente problematica. La zona nera della soggettività giuridica non è, entro la zona grigia, meno problematica; lo è forse di più, perché si basa sulla pretesa di rendere pubblica e intersoggettiva, rispetto a un linguaggio e ad una cultura particolare, qualcosa che si basa su un postulato teoreticamente non rappresentabile. I confini fra le zone non sono netti, come nel quadro precedente, ma storicamente e teoreticamente indeterminati e incerti: la prospettiva morale, ricordandoci la possibilità della libertà altrui, ci induce a mettere in discussione le classificazioni compiute in base al nostro diritto, alla nostra cultura e al nostro linguaggio. Ci induce, inoltre, a riconoscere che la responsabilità più pesante e meno giustificabile è quella di chi parla a nome di altri - cioè di coloro che non rientrano nello spazio di pubblicità e di intersoggettività realizzato, in via provvisoria, formalistica, relativa e parziale, da un diritto democraticamente inteso. Eppure questa responsabilità ci permette di attribuire un colore etico alla zona grigia delle creature che non si adeguano alla nostra lingua, perché una prospettiva universalistica implica che chi agisce sia responsabile nei confronti di tutti i soggetti possibili e non soltanto dei pochissimi con i quali riesce a parlare.

La prima mappa offre un mondo etico domestico, chiaro e ben delimitato, nel quale è possibile classificare ordinatamente l'esistente. La seconda rappresenta un mondo etico enigmatico e indefinito: l'adesione a questa prospettiva porta con sé la consapevolezza che la prassi non può mai essere innocente. Sia sul piano etico, sia, in modo diverso, sul piano giuridico, siamo condannati a parlare in nome di creature il cui potenziale di libertà trascende le nostre parole e le nostre discussioni.

Stando così le cose, ci si potrebbe chiedere che senso abbia battere la via scomoda e incerta che riparte da Kant, quando è possibile seguire la strada facile e sicura della radicazione dell'etica e del diritto nell'ontologia, nella sociologia e nella storia. Il particolarismo morale, oggi riproposto dal comunitarismo americano e dalle correnti ermeneutiche europee, nonché dal multiculturalismo 132 e dalle teorie della differenza di genere 133,

sembra riconoscere le differenze fra i soggetti e fra le morali in modo semplice e non drammatico, senza tormentarsi coll'enigma dell'invisibilità del soggetto morale. A questa obiezione si potrebbe replicare che la consapevolezza della propria mancanza di innocenza è un punto di forza per una morale che voglia essere critica e non fanatica o compiacentemente particolaristica. Ma si può dare anche una risposta più articolata e meno edificante, controllando se le teorie morali che si ispirano a solide mappe ontologiche siano davvero, per tutti, così comode e così sicure - o non siano dimore confortevoli solo per chi ha la fortuna di rientrare nelle classificazioni ontologiche da esse previste e di trovarsi a suo agio colla morale che, di volta in volta, si addice, a detta di qualcuno, alla categoria nella quale viene posto o gli capita di ritrovarsi.

A tale compito è dedicata la seconda parte di questo libro, che prenderà in considerazione alcuni termini di confronto antichi e contemporanei, allo scopo di capire se il problema del soggetto morale possa fungere da chiave critica per prospettive differenti da quelle universalistiche e formali.

132. Su questo tema rinvio a M.C. Pievatolo, Soggetti di diritto o animali culturali? Charles Taylor e il problema del multiculturalismo, "Il

Politico", LIX/1, 1994, pp. 137-159.

133. Con la parola “genere” - traduzione dell’inglese gender - non si intende il sesso biologico, bensì il modo in cui questo viene

elaborato e riconosciuto socialmente, storicamente e culturalmente. Gli studi sul genere rappresentano, soprattutto nel mondo anglosassone, una seconda stagione del femminismo. Chi aderisce a questa impostazione sostiene che rivendicare l’uguaglianza è insufficiente e fuorviante: occorre, piuttosto, reclamare una specificazione dei diritti (sessuazione) in base al genere. La sessuazione dei diritti viene motivata in base alla tesi storico-filosofica secondo la quale la razionalità occidentale si è costruita su un soggetto monologico neutro e universale; ma dietro questo soggetto si cela l’identità maschile, che ha condannato la femminilità al mondo del privato, della natura e della reificazione. In una simile prospettiva, chiedere l’uguaglianza significherebbe, per le donne, negare la propria specificità e venir assimilate agli uomini. Occorre, perciò, rompere la razionalità del soggetto monologico e autonomo, e mostrare che esiste anche una soggettività femminile, la quale deve prendere coscienza di sé. Questa soggettività si costruisce, per esempio, attorno alla potenza femminile di generare, intesa come potenzialità naturale, che ora è possibile interpretare come potere, cioè come capacità consapevolmente scelta. Una simile capacità rappresenta la cifra di una soggettività dialogica che si crea e si sviluppa non nella reificazione dell’altro, ma nella relazione con esso (vedi a questo proposito AA.VV., Il femminile fra potenza e potere, Arlem, Roma 1995, pp. 5-6).

Chi sostiene una concezione prescrittiva della libertà e dell’uguaglianza le vede come funzioni del discorso morale e giuridico - funzioni che in se stesse non sono affatto in grado di catturare una realtà storica e variegata -. Il pensiero della differenza, di contro, sembra in grado di offrire una base descrittiva per costruire i soggetti morali. Su questo orizzonte si spiega il grande successo che hanno ottenuto le ricerche psicologiche di Carol Gilligan, la quale ha sfidato il paradigma unitario di Kohlberg per mostrare che le donne, quando parlano di morale, lo fanno “in a different voice” (C. Gilligan, In a Different Voice, Harvard UP. Cambridge (Mass.) 1982. Vedi anche Id., In a Different Voice: Women’s Conceptions of Self and Morality, “Harvard Educational Review”, 47/4, 1977, pp. 481-517). L’etica della cura, con i suoi caratteri di contestualità, relazionalità, concretezza e narratività ha la sua giustificazione ultima sul piano descrittivo, come l’etica propria delle donne - in contrapposizione all’universalismo, al formalismo e all’astrattezza dell’etica della giustizia, di appannaggio maschile. E il fatto stesso che si diano due soggetti morali diversi, con differenti modalità etiche, sta a fondamento di una impostazione pluralistica della morale e dei diritti. Vale la pena ricordare la critica alla Gilligan compiuta da Susan Moller Okin (Id.

Thinking like a Woman, in D.L. Rhode (ed.), Theoretical Perspectives on Sexual Difference, Yale UP, New Haven 1990, pp. 145-159): in primo

luogo, connettere una differente modalità morale ad una determinazione di genere è una operazione ambigua, anche perché questa differenziazione è stata usata da una veneranda tradizione di pensiero - che arriva fino a Hegel - per escludere le donne dal mondo politico. In secondo luogo, la Gilligan non indaga affatto sulle eventuali ragione storiche e sociali di questa differenza. In terzo luogo, la Gilligan non solo esamina pochi casi, quasi tutti connessi al dilemma morale dell’aborto, ma sembra intendere i diritti, associati all’etica della giustizia - la presunta modalità etica maschile contrapposta all’etica della cura - solo come diritti

Più analiticamente: a disposizione di chi si interroga sullo statuto della differenza sessuale ci sono almeno tre risposte possibili, ciascuno delle quali comporta delle conseguenze teoriche e pratiche di cui occorre tener conto:

a) la differenza sessuale è un dato biologicamente o metafisicamente originario e immodificabile;

b) la differenza sessuale è frutto di una elaborazione culturale e sociale; è dunque storica e soggetta alla critica e al cambiamento; c) la differenza sessuale è la modalità originaria dell’identità umana, e va distinta dalla differenza di genere, come sua manifestazione storica, variabile e criticabile.

Chi vuole trattare la differenza sessuale come una dato originario ha due oneri. Sul piano teorico, deve dimostrare come è possibile distinguere, in uomini e donne che vivono e si interpretano in termini storici e culturali, ciò che è storicamente contingente da ciò che è invece originario. Sul piano pratico, deve confrontarsi con un gran numero di teorie e di pratiche sessiste che si giustificano se stesse appellandosi, appunto, ad una differenza sessuale concepita come originaria e immodificabile.

Chi vede la differenza sessuale come una elaborazione storica e culturale, piuttosto che come un fondamento biologico o metafisico, può adottare il genere come un utile tipo ideale per la ricerca storica, ma non può eticizzare e giuridicizzare la differenza di genere, perché rischierebbe di assumere come necessari caratteri storicamente contingenti.

Infine, chi tratta la differenza sessuale come una modalità originaria dell’identità umana, ma la distingue dalla differenza di genere, che è storica e contingente, si trova di fronte a un dilemma teorico - il quale espone questa tesi ad una estrema indeterminatezza pratica. Delle due l’una: o la differenza sessuale ha dei caratteri propri, distinti dalla sua storicizzazione, e allora si ricade nella biologia e nella metafisica; oppure si ammette che essa esiste solo in quanto si storicizza, e allora non si dà una vera e propria differenza sessuale prima della sua elaborazione culturale.