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Il problema del soggetto in due versioni del liberalismo contemporaneo

Introduzione: liberals e communitarians

Nel mio prologo in terra greca, ho delineato due strategie alternative per affrontare il problema del soggetto come questione di filosofia pratica. La prima consiste nel trattare il soggetto o i soggetti morali come qualcosa di dato e costruire il bene come variabile in base a questa constante. La seconda, per converso, consiste nell’assumere il bene come una costante e nel trattare il soggetto come una variabile aperta alla storia. Ciascuna strategia ha il suo prezzo: la prima può produrre una filosofia pratica di contenuto determinato solo fissando metafisicamente il soggetto morale e le sue preferenze; la seconda rischia d'essere o vuota - perché propone una misura del valore che non si addice a nessuno -, o ingannevole - in quanto traveste da bene in sé quello che in realtà è bene per alcuni di “noi”.

Ho scelto di illustrare queste due strategie valendomi, con una lieve forzatura interpretativa, di due miti platonici: il racconto fenicio e il mito di Er, ossia il mito, dichiaratamente falso, della nascita, e il mito, non verificabile, della morte. Per il primo, si nasce predeterminati e fissati nella propria natura, e ciò che si deve diventare e fare è stabilito senza giustificazioni da coloro che sono assunti come decisori morali: ma questo mito è mendace perché il fatto stesso che occorra narrarlo per legittimare un assetto politico prova che è possibile scegliere di essere diversi da come ci hanno formato ed educato. Per il secondo - lo straordinario racconto di Er -, la facoltà di scegliere è indipendente dalle determinazioni antropologiche e perfino queste ultime possono essere viste come il frutto di una scelta.

Non è irrilevante sottolineare che queste due storie in reciproca contraddizione, una falsa e una non verificabile, sono raccontate dallo stesso autore nello stesso libro, come se l’una non potesse fare a meno dell’altra, come se la - presunta - libertà non potesse fare a meno della menzogna, per diventare un ideale politicamente praticabile.

Platone sembra molto lontano da noi. Per quanto sia di moda, tanto negli ambienti post-heideggeriani quanto in quelli neo-liberali, trattarlo come un precursore del totalitarismo, è ben raro che un pensatore totalitario affermi di raccontare bugie vergognose, in luogo di ostentare il proprio sapere assoluto e definitivo. E il liberalismo che domina, ormai incontrastato, la scena sembra aver superato il dilemma platonico, in virtù di una sedimentazione storica che ha sanguinosamente o mercantilmente condotto a riconoscere sia il pluralismo degli orientamenti morali, sia una sintassi del diritto basata sul presupposto del riconoscimento di una pari libertà come condizione dell’etica, oltre che del diritto stesso. Quello che per Platone - per il totalitario Platone - era palese solo nel mondo dei morti, ove viene annullato il velo dell’apparenza, ora sembra essere semplice e quotidiano, almeno nella percezione di sé diffusa nelle società occidentali.

Eppure, il recente dibattito anglosassone fra liberals e communitarians ha riproposto, sia pure in termini molto semplificati, l’antica tensione platonica fra il racconto fenicio e il mito di Er. Non è un caso che uno dei suoi temi sia stato proprio lo “spessore” del soggetto morale. Diritto ed etica vanno costruiti su un soggetto riempito di contenuto storico, culturale e contestuale, oppure su un soggetto il più possibile

scheletrico e astratto, il più possibile neutrale rispetto alla storia? Il pomo della discordia è proprio la capacità dell’etica non solo di catturare, ma di dirimere le differenze fra le persone. Dobbiamo rifarci alla storicità nella sua concretezza, rischiando di rimanere prigionieri delle sue contingenze e contraddizioni? O dobbiamo mettere la storia fra parentesi, rischiando di rimanere campati in aria, o, peggio, di spacciare argomentazioni “oppiacee”, le quali dipingono nel paradiso artificiale della teoria una libertà di cui non c’è traccia sulla terra?

Non è casuale che nel problema del soggetto si imbattano proprio studiosi che si occupano di filosofia politica. Soltanto a titolo di esemplificazione, accennerò al modo con cui ha avuto a che fare con la questione M.J. Sandel, che ha prodotto una critica paradigmatica al neocontrattualismo di Rawls 1.

Dal punto di vista di Sandel, il deontologismo di Rawls si fonda - come ogni deontologismo - sulla priorità del giusto sul buono. Questa priorità si giustifica, a sua volta, in quanto manca una unità di misura, comune a tutti, del bene o, per esprimerci in termini più propri, della felicità. D'altra parte, sostiene Rawls, anche se disponessimo di questa unità di misura comune, la separatezza delle persone impedirebbe di giustificare, utilitaristicamente, azioni che danneggiano alcuni individui in nome della felicità della maggioranza 2. Ma questo presuppone, nel soggetto morale, una capacità di distinguere fra la giustizia, cioè le

regole della cooperazione sociale, e ciò che è bene per lui. Rawls, cioè, presuppone che il soggetto sappia distanziarsi criticamente dai propri valori e dai propri fini, in nome di una giustizia che deve essere valida per tutti, e che tuteli ugualmente la libertà di ciascuno di perseguire il proprio bene.

Questa presa di distanze può essere resa possibile da due condizioni, una alternativa all'altra: la prima, che il soggetto si identifichi metafisicamente e a priori con una personalità autonoma, data prima delle sue scelte contenutistiche, e la seconda, che esistano delle circostanze di giustizia tali da rendere praticabile la cooperazione soltanto se tutti mettono fra parentesi i propri valori e i propri fini personali. Rawls non vuole sottoscrivere la tesi metafisica di un nucleo autonomo della personalità, e preferisce percorrere la via humeana delle circostanze di giustizia, che per lui sono rappresentate dalla scarsità relativa delle risorse e dal fatto che i soggetti che cooperano hanno interessi e fini diversi. L'espediente della posizione originaria, in cui gli individui contraenti ignorano la proprie condizioni e convinzioni sociali, serve solo ad illustrare quanto è richiesto dalla situazione: visto che di fatto non siamo d'accordo sui valori, allora è giocoforza prendere decisioni collettive sulla giustizia mettendoli fra parentesi. Così, secondo Sandel, la teoria di Rawls è, in un certo qual modo, una teoria deontologista contingente 3. Questo aspetto fa sì che la posizione originaria

descriva i soggetti morali come di fatto sono: essi sono visti come capaci, di fatto, di astrarre dai propri valori e i propri fini.

Una simile mossa è decisiva nell'argomentazione di Sandel, perché gli consente di ridurre i problemi pratici a problemi teoretici: se una teoria morale si fonda, in ultima analisi, su una descrizione del soggetto morale, allora è possibile confutarla semplicemente mostrando che questa descrizione è teoreticamente errata, senza affaticarsi ad analizzare, dal punto di vista filosofico-pratico, il sistema di imperativi e di valori che essa propone. In base a questo schema, Sandel afferma letteralmente: «Justice cannot be primary in the

1. Vedi: M.J. Sandel, Liberalism and the Limits of Justice, Cambridge U.P., Cambridge 1982 (trad. di S. D'Amico, Il liberalismo e i limiti

della giustizia, Feltrinelli, Milano 1994). Vanno ricordati anche, in Italia, A.E. Galeotti, La tolleranza, Liguori, Napoli 1994; S.

Maffettone, Le ragioni degli altri, cit., nonché L. Lombardi Vallauri (a cura di), Il meritevole di tutela, Milano, Giuffrè, 1990. Il testo della Galeotti è interessante perché illustra il rischio che la garanzia di pari libertà, propria della giustizia liberale, sia praticamente discriminatoria proprio perché assume acriticamente come modello di soggetto ciò che è normale e maggioritario. E' doveroso ricordare, inoltre, il nesso fra i nostri impegni normativi e gli aspetti pertinenti delle nostre descrizioni dei soggetti delle norme stesse messo in luce da Salvatore Veca in Questioni di giustizia, Einaudi, Torino 1991, pp. 121-122

2. M.J. Sandel, op. cit.., pp. 15-65 (trad. it. pp. 27-78)

3. La critica di Sandel è stata in un certo qual modo confermata dall'interpretazione autentica di Rawls in Political Liberalism

(Columbia University Press, New York 1993, pp. 3-46), ove la posizione originaria è ridotta all'espressione di alcuni valori politici di fondo condivisi e sostenibili dal punto di vista di molteplici teorie complessive del bene sostenute nelle società occidentali. Ci si può allora legittimamente chiedere, come fa J. Raz in The Morality of Freedom (cit., pp. 110-133) che senso abbia ricorrere all'espediente barocco della posizione originaria e del velo di ignoranza se, in sostanza, si presuppone che di fatto esistano determinati valori fuori discussione - il pluralismo, ad esempio - perfino in sede di legittimazione della giustizia. Perché non far negoziare gli individui reali, allora? Perché non dire, semplicemente: "io propongo un modello di giustizi politica fondato unicamente sul fatto che determinati valori, nelle società occidentali, sono accettati come ovvi"?

Questo tipo di critica, peraltro. è reso possibile dal fatto che Rawls tende a confondere la validità teoretica della sua teoria con la sua efficacia empirica, cioè non chiarisce la distinzione fra le questioni di giustificazione e quelle di accettazione. Così la neutralità della sua concezione della giustizia viene ottenuta a prezzo di rinunciare alla sua pretesa di validità cognitiva (vedi ad esempio J. Habermas, Reconciliation through the public use of reason: remarks on Rawls' political liberalism, "The Journal of Philosophy", 92/3, 1995, pp. 109-31).

deontological sense, because we cannot coherently regard ourselves as the kind of beings the deontological ethic - whether Kantian or Rawlsian - requires us to be» 4.

Applicando questa strategia, Sandel sostiene che la giustizia di Rawls, per funzionare, deve assumere un soggetto morale che non è costituito dai suoi fini, ma è in grado di distanziarsene, sospendendoli e scegliendoli a piacimento. L'interrogativo pratico per eccellenza, per questo soggetto, è: “Quali fini devo scegliere?”.5 Ciò presuppone che valori e fini siano offerti in opzione ad un centro astratto e indifferente di

scelta: ma allora, come si può sostenere che la giustizia è un valore incondizionato e prioritario rispetto a tutti gli altri fini e valori contingenti offerti alla scelta indifferente di questo soggetto? 6 Inoltre, obietta Sandel, noi

ci vediamo così soltanto quando non riusciamo a cogliere il rapporto costitutivo che esiste fra la persona e i suoi fini, per una mancanza di conoscenza o di riflessione. Per un soggetto riflettente, di contro, il problema pratico si riduce a un problema teoretico: “Chi sono io?”:7 La riflessione, inoltre, mi permette di tenere conto

del mio contesto, della mia comunità e della mia storia: conoscere me stesso è acquisire la massima concretezza e storicità. Tanto meno le persone sono opache, tanto meno è necessaria la giustizia.

In questa prospettiva, il problema pratico dell'agire morale è ridotto a un problema teoretico: so che cosa devo fare, se, per mezzo della riflessione, ho correttamente chiarito chi sono io. Lo spazio della libertà - e della garanzia della libertà, di cui si interessano, in modo diverso, le filosofia pratiche di Kant e di Rawls - è identico a quello dell'ignoranza e dell'errore. Sandel, naturalmente, non disconosce la giustizia liberale, ma ritiene che il suo campo specifico sia, appunto, quello ove l'opacità delle persone genera pretese conflittuali. Una famiglia in cui i rapporti sono armoniosi non ha bisogno della giustizia, che entra in scena come una virtù surrogatoria e minore solo se in essa l'affetto viene meno 8.

Ma la comunità è davvero in grado di dirci chi siamo noi, e con ciò anche cosa dobbiamo fare? Soltanto a due condizioni, come implicitamente riconosce Sandel: che io mi possa identificare univocamente all'interno di essa e che i ruoli siano determinati una volta per tutte. Ma questa determinazione rigida è un ideale che nessuna comunità esistente nella storia è in grado di realizzare, perché anche la tradizione più dogmatica e condivisa è soggetta, se non alla critica, almeno all'interpretazione: così il canone morale fornito dall'autoidentificazione del soggetto morale e dei suoi doveri per mezzo della riflessione è almeno in parte indeterminato. Di più: esso è destinato a restare tale, in quanto ogni responsabilità morale che si rispetti presuppone che il soggetto morale abbia avuto la possibilità di scegliere, e non sia vincolato ad una essenza indipendente dalle sue decisioni, che egli deve solo scoprire. Un ipotetico soggetto morale che decidesse che cosa deve fare costatando, semplicemente, che cosa egli è, non sarebbe un soggetto libero, né tanto meno responsabile: ad esempio, chi pensasse che la propria pavidità sia intrinseca alla sua personalità, potrebbe sottrarsi ad ogni biasimo morale, proprio perché «Il coraggio uno non se lo può dare» 9.

4. M.J. Sandel, Liberalism. cit., p. 14 (trad. it. p. 25). 5. Ivi, pp. 15-65 (trad. it. pp. 27-78).

6. Ivi, pp. 133-174 (trad. it. pp. 148-190). 7. Ivi, pp. 15-65 (trad. it. pp. 27-78).

8. Ivi, pp. 30-32 (trad. it. pp. 44-45). Va notato che chi ritiene il paradigma della famiglia superiore a quello della giustizia - e non

possiamo fare a meno di ricordare il Patriarcha dell'assolutista Robert Filmer, contro cui si misurò Locke - presuppone anche che la distribuzione dei ruoli all'interno della famiglia sia qualcosa di tanto "naturale" e "spontaneo" da non richiedere strumenti formali per dirimere eventuali conflitti. Susan Moller Okin nota, molto appropriatamente, che le azioni supererogatorie che hanno luogo nella famiglia possono e devono presupporre la giustizia di questa struttura (S.M. Okin, Justice, Gender and the Family, Basic Books, New York 1989, p. 29) - anche perché, se fossero imposte da una struttura di regole “al di là” della giustizia semplicemente perché ingiusta, non potrebbero certo essere meritorie.

L'argomento di Sandel mira a ridurre i conflitti pratici ad opacità teoriche, assimilando la questione "chi sono io?" alla ben differente questione "che cosa devo fare?": nella sua prospettiva, Carlo V e Francesco I non litigano sul piano pratico - rendendo evidente la necessità di una giustizia internazionale - perché, come sembrerebbe a una mente grossolana, entrambi hanno molto chiaro, sul piano teoretico, che vogliono la stessa cosa (Milano), e perché ciascuno si fa giudice in causa propria in base a princìpi dello ius gentium generalmente noti e condivisi, bensì perché sono sconosciuti l'uno all'altro, non si amano e non riflettono a sufficienza su se stessi.

9. Bisogna sottolineare che le due obiezionia che abbiamo opposto a Sandel sono di carattere eterogeneo: la prima segue una

strategia teoretica, in quanto osserva che - se consideriamo il modo in cui funzionano le società umane effettuali - la comunità compatta e trasparente vagheggiata da Sandel non esiste, a causa dell'apertura di qualsiasi tradizione, se non alla critica, almeno all'ermeneutica. Di contro, la seconda si vale di una strategia pratica di qualificazione del soggetto morale: essa infatti afferma che, comunque questo sia inteso, la responsabilità morale può essergli attribuita soltanto alla condizione che egli sia presupposto come libero. A causa di questo requisito pratico, nessuna autoriflessione ispirata ad una metafisica, o ad una antropologia o ad una sociologia del sé può essere coerentemente pensata come in grado di determinare una volta per tutte le struttura ontologica e il bene di un soggetto inteso come morale, e quindi destinatario di esortazioni e imputazioni

Come abbiamo visto, Sandel ha confutato un sistema di filosofia pratica adottando una strategia teoretica: la giustizia di Rawls è insostenibile non tanto perché è assiologicamente invalida o incoerente, quanto perché presuppone una teoria del soggetto che è frutto di una deplorevole deficienza di conoscenza. La proposta di Rawls è sconveniente solo perché noi non siamo “quel genere di soggetto”. Questa replica, tuttavia, non ci dice nulla né sulla coerenza e sulla validità interna della sua giustizia, né sulla sua proponibilità a soggetti d'altro genere.

Si tratta, ora, di capire se il problema dell'identificazione del soggetto morale può essere affrontato soltanto con questa tradizionale strategia teoretica, o se invece possa essere pensato anche e in primo luogo come un problema pratico - se, cioè, sia possibile affrontare il problema del soggetto nella morale partendo non della sua descrizione, bensì dall’universo della prescrizione. Questa impresa è stata affrontata da Kant.

Consideriamo il celebre incipit della prima parte della Grundlegung zur Metaphysik der Sitten di Kant: :

In ogni parte del mondo e, in generale, anche fuori da esso non è concepibile nulla di incondizionatamente buono all'infuori di una volontà buona. Intelligenza, perspicacia, capacità di giudizio, o comunque si vogliano chiamare i talenti dello spirito; oppure coraggio, risolutezza, saldezza di propositi. che sono caratteri del temperamento, sono certamente, per molti aspetti, cose buone e desiderabili; ma possono anche mutarsi in cose estremamente dannose e cattive se non è buona la volontà che deve farne uso e la cui peculiare disposizione si chiama perciò carattere. Lo stesso vale per i doni della fortuna 10.

Dal punto di vista di Kant, il contesto dell'etica è il mondo, ma non il mondo soltanto; e l'oggetto primario della valutazione morale è la volontà. Ma perché allargare il contesto dell'etica oltre il mondo e assumere la volontà a suo oggetto primario? Il discorso di Kant sarebbe stato più o meno il medesimo se Kant avesse detto che nel mondo, ovvero nella nostra esperienza, soltanto un uomo buono, un uomo virtuoso, può essere incondizionatamente buono, e quindi fosse passato a definire che cosa si intenda per uomo buono, invece che per volontà buona. La scelta terminologica di Kant potrebbe passare per una complicazione, perché ci obbliga a chiedere: “a chi è possibile attribuire una volontà, buona o cattiva?” Se il contesto dell'etica non è semplicemente e soltanto il mondo della nostra esperienza, allora il soggetto cui la volontà è attribuibile non è semplicemente chi, nella nostra esperienza, siamo abituati a considerare soggetto morale, ma una creatura ben più indeterminata. Kant prosegue cercando di definire che cosa rende buona una volontà, e sembra non curarsi di chiedere a chi possa essere attribuita una volontà, cioè chi sia il soggetto morale.

Sarà mio intento dimostrare che un modo di procedere come quello di Kant può essere giustificato come una scelta strategica: la scelta, cioè, di definire il giusto o il bene lasciando indeterminata l'identificazione del soggetto. Sarebbe possibile, peraltro, scegliere la procedura opposta, e cioè definire, preliminarmente, il soggetto morale e il suo contesto e poi occuparsi del problema del bene in relazione ad esso.

Una interpretazione di alcune posizione liberali contemporanee alla luce del problema del soggetto

Ho cercato di mostrare il senso strategico di due differenti relazioni della filosofia pratica alla questione del soggetto, che può essere assunto come una costante offerta dalla teoria, oppure come una variabile. Ma il soggetto ha anche un rapporto col cuore della filosofia pratica, e cioè col problema del bene, nel caso dell'etica, o col problema della giustizia, nel caso della politica e del diritto. E anche qui è ben diverso formulare una teoria del bene sulla base di un soggetto offerto, bello e strutturato, dalla metafisica, oppure trattare il soggetto come una variabile rispetto a una teoria etica della volontà buona e della società giusta che venga formulata indipendentemente dai suoi protagonisti.

Per capire che la questione del soggetto, sia come problema del nesso fra la filosofia teoretica e la filosofia pratica, sia come problema del rapporto fra la teoria del soggetto e la teoria della giustizia, ha un senso politico non indifferente, prenderò in esame - rispetto a tale questione - due varianti del liberalismo

10. I Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, A 393 (trad. it. di P. Chiodi, Fondazione della metafisica dei costumi, Laterza, Bari

contemporaneo: il liberalismo neutralista, di cui assumo come rappresentante Bruce Ackerman 11, e il

liberalismo comunitario, di cui assumo come rappresentante Michael Walzer 12.

Il liberalismo neutralista propone uno standard neutrale di giustizia differente dalle concezioni del bene dei singoli individui storicamente esistenti: esso, perciò, dovrebbe fornire, in linea di principio, una giustizia procedurale valida per qualsiasi individuo, a prescindere dalle sue idee e dai suoi princìpi. Esso, in linea di massima, dovrebbe presupporre un soggetto che non è un dato storico, ma una astrazione: un portatore di scelte e di valori i cui contenuti storici - e, coerentemente, la cui immagine storica - vanno posti fra parentesi. La strategia del liberalismo neutralista può essere oggetto almeno di tre questioni:

a) come è possibile costituire un neutrum - un soggetto morale ideale - che funga da condizione di legittimazione, senza che esso sia una idealizzazione storicamente relativizzabile?

b) come si legittima l'applicazione di tale condizione di legittimazione all'esperienza?