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La giustizia degli invisibili. L’identificazione del soggetto morale, a ripartire da Kant.

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Maria Chiara Pievatolo

La giustizia degli invisibili.

L’identificazione del soggetto morale, a ripartire da Kant.

Indice

Introduzione p. 2

Parte prima Kant, il soggetto e la libertà

I. Il tribunale della ragione: un’introduzione teoretica p. 7

II. I confini della ragion pratica p. 18

Parte seconda Termini di confronto

Sezione prima La pluralità dei soggetti morali nel mondo greco

III. Il problema del soggetto in un universo morale esclusivo p. 40

IV. Platone e il problema del soggetto morale p. 49

V. Aristotelismo: comunità ed esclusione p. 61

Sezione seconda Liberalismi fra menzogna e utopia

VI. Menzogna o utopia? Il problema del soggetto in due liberalismi contemporanei p. 74

VII. Le promesse non mantenute di John Rawls p. 84

VIII. La libertà in Rawls e in Kant p. 98

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Introduzione

Il problema del soggetto morale

Che cosa s'intende per soggetto morale? Chi è il destinatario delle prescrizioni etiche?

Queste domande non sono inconsuete per le teorie morali; sono, anzi, questioni rese familiari dai problemi, forse in apparenza nuovi, di cui si occupa la bioetica e dalle rivendicazioni di inclusione fatte in nome di soggetti che non siamo abituati a considerare tali - feti, animali, intelligenze artificiali, ipotetici esseri razionali non umani e così immaginando. Di solito, un interrogativo di questo genere ha un ruolo importante ma secondario: si costruisce una teoria etica, e poi, se è il caso, ci si chiede se essa possa venir estesa a soggetti differenti da quelli assunti implicitamente come riferimento. Si ragiona come se fosse chiaro chi siano i soggetti morali pleno iure, e solo in un secondo momento ci si interroga sulla applicazione dell’etica ad eventuali “altri”: «uno dei problemi tipici dell'etica applicata è appunto decidere quali soggetti appartengano alla comunità morale».1.

Il mio intento, di contro, è differente: voglio vedere quali conseguenze teoriche avrebbe un'interpretazione dell’etica, e segnatamente della giustizia, a partire dal problema dell’identificazione del soggetto morale. In altre parole, voglio provare a avvicinarmi all’etica chiedendomi, in luogo del più consueto: “a chi altro possiamo applicare questi princìpi, oltre a ‘noi’?”, il meno consueto “di chi stiamo parlando, ora?”, e “perché questa teoria etica ci autorizza a parlare di questo soggetto, e non di un altro?”

Cercherò di mostrare che queste domande possono rappresentare una chiave ermeneutica efficace per numerose teorie etiche e politiche. Ma preliminarmente occorre spiegare quali sono, per me, le radici teoriche e storiche di questi interrogativi.

La radice teorica delle mie domande sta in una critica di Fichte a Kant. Kant, osserva Fichte, ritiene impossibile aver percezione della ragione fuori di me. L’idea che possano esistere altri esseri razionali fuori di me si presenta solo come principio pratico - perché l’etica, per forza di cose, è intersoggettiva 2. Ma il non dare una descrizione

metafisica del soggetto morale conduce Kant ad un problema che sarebbe riduttivo definire di etica applicata: come determinare il limite della sfera di applicazione della legge morale, senza sapere a quali soggetti essa si addice? 3 Io posso anche avere la nozione della legge morale, ma posso disapplicarla a mio arbitrio, col semplice

espediente di delimitare l’ambito dei soggetti che dico ragionevoli. In una lettera a Reinhold dell’agosto 1795, Fichte stesso osservava che quest'espediente ci autorizza a salire a cavallo senza preoccuparsi di chiedergli il permesso - ma autorizza anche il signore russo a maltrattare i suoi servi della gleba senza scrupoli di sorta 4.

Fichte risolve il problema da lui individuato in Kant introducendo l’antropologia morale 5 nel suo sistema - cosa,

questa, agevole in una prospettiva idealistica, ove nulla è veramente irriducibile alla ragione e alla sua autoposizione: qui, infatti, è esclusa in linea di principio la possibilità sia di una ragione aliena, sia, correlativamente, di una ragione insufficiente a catturare e definire il reale. Ma se leggiamo la domanda di Fichte con gli occhiali di Kant, e cioè senza la sicurezza che realtà e prassi razionale si identifichino, la questione se e come un’etica debba incorporare un’antropologia morale acquisisce tutt’altro spessore. Con che certezza e con che diritto una ragione insufficiente a catturare il reale può tracciare i confini del novero dei soggetti morali?

La radice storica di questa domanda è il timore che la delimitazione teoretica dell'ambito delle creature cui si addice la soggettività morale permetta di abusare senza colpa alcuna di coloro che sono esclusi, totalmente o parzialmente, da questa cerchia 6. Logicamente, non si può commettere ingiustizia contro chi non è compreso,

secondo la nostra tassonomia teoretica, nella rubrica dei soggetti morali:

1. Così S. Maffettone, Le ragioni degli altri, Il Saggiatore, Milano 1992, p. 40.

2. J.G. Fichte, Wissenschaftlehre Nova Methodo, Hamburg, 1992, pp. 150-151; Gesamtausgabe, IV, 2, p. 142.

3. A. Rigobello (I limiti del trascendentale in Kant, Silva, Milano 1963, pp. 205-213) osserva che, in Kant, l’antinomia fra struttura e

contenuto, fra regola e ontologia, può essere trattata come il male radicale della conoscenza umana.

4. J.G. Fichte, Gesamtausgabe, III, 2, p. 386. Vedi anche I. Ridrizzani, Kant répond-il à la question “Que dois-je faire?”, in “Revue

Internationale de Philosophie”, 3, 1988, 166, pp. 271-288.

5. Vedi ad esempio L. Fonnesu, Antropologia e idealismo. La destinazione dell'uomo nell'etica di Fichte, Laterza, Roma-Bari 1993.

6. O. Höffe (Universalistische Ethik und Urteilskraft: ein aristotelisches Blick auf Kant, “Zeitschrift für philosophische Forschung”, 44, 4,

1990, pp. 537-563) tentando di costruire una prospettiva aristotelica su Kant, si imbatte in una questione analoga quando osserva che nell’etica si danno due problemi simmetrici: quello “kantiano” di legittimare i diritti fondamentali in modo da renderli indipendenti da una immagine culturale dell’uomo, e quello “aristotelico” di applicare questi diritti e di rendili riconoscibili entro una situazione culturale particolare.

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Per rientrare alla Bude, bisogna attraversare uno spiazzo ingombro di travi e tralicci metallici accatastati. Il cavo d'acciaio di un argano taglia la strada, Alex lo afferra per scavalcarlo, Donnerwetter, ecco si guarda la mano nera di grasso viscido: frattanto io l'ho raggiunto: senza odio senza scherno, Alex strofina la mano sulla mia spalla, il palmo e il dorso, per nettarla, e sarebbe assai stupito, l'innocente bruto Alex, se qualcuno gli dicesse che alla stregua di questo atto io oggi lo giudico, lui e Pannwitz e gli innumerevoli che furono come lui, grandi e piccoli, in Auschwitz e ovunque 7.

Quest'episodio, narrato da Primo Levi in Se questo è un uomo, può essere un'illustrazione del mio problema: se i confini dell'etica e del diritto sono già stabiliti da catalogazioni teoretiche, che cosa garantisce che essi non legittimino esclusioni e reificazioni arbitrarie e “innocenti”, perché moralmente insindacabili? Come si può argomentare - dal punto di vista dell'escluso - la propria soggettività morale nei confronti di una tassonomia che la nega?

Il mio sospetto è che sia ottimistico e fuorviante interpretare queste e altre restrizioni delle frontiere morali come aberrazioni episodiche. Perciò, propongo di trattare il problema dell’identificazione del soggetto morale come un problema preliminare dell’etica, allo scopo di elaborare strumenti che ci rendano consapevoli e avvertiti dell’arbitrarietà dei confini da noi posti, e in modo da ridurre la possibilità teorica di commettere “innocentemente” quelle colpe banali che, del nostro secolo, verranno ricordate 8.

La mia indagine si è sviluppata con un prologo in terra nel mondo greco, quindi ha analizzato alcune teorie normative sulla giustizia prodotte nel mondo anglosassone; su questa scorta, è pervenuta ad interrogare ancora Kant, allo scopo di capire se la debolezza individuata da Fichte nel suo pensiero non sia invece un punto di forza - che ci permetta di elaborare un canone per l’apertura dei confini della comunità morale.

Quest'itinerario argomentativo deve, naturalmente, essere legittimato punto per punto. Ma prima occorre giustificare una scelta fondamentale, e cioè quella di occuparsi del problema del soggetto entro teorie della giustizia politica - teorie, dunque, che si occupano di etica solo in modo preliminare e tangenziale. Perché presentare un problema morale sotto le spoglie di un problema di filosofia politica e di filosofia del diritto - quando, a rigore, soggetto morale, cittadino, e soggetto giuridico possono indicare insiemi differenti l’uno dall’altro?

Ad esempio, parliamo della cittadinanza e dei vari tipi di diritti ad essa connessi, intendendo per cittadinanza, secondo la definizione di T.H. Marshall, uno status conferito a coloro che sono membri a pieno titolo di una determinata comunità e costituito da una collezione di diritti via via più estesa, sia nel numero dei soggetti ad essa ammessi, sia nella qualità dei diritti ad essa connessi 9. E' chiaro che il problema dell'identificazione del

soggetto morale e il problema dell'identificazione del cittadino, o soggetto dei diritti di cittadinanza, sono, su questo sfondo, due questioni diverse. Esse, tuttavia, hanno un nesso storico, ben spiegato da Luigi Ferrajoli: l'aspetto progressivo della modernità - l'universalismo dei diritti fondamentali - non è l'estensione di un complesso di privilegi ad un numero maggiore di membri di comunità limitate, bensì lo sviluppo dei cosiddetti diritti della personalità, i quali sono connessi semplicemente all'essere persona, e non all'essere cittadino 10. Sul

piano teorico, la forza dirompente dei diritti dell'uomo giusnaturalistici è stata proprio la possibilità riconosciuta a ciascuno - in virtù della sua semplice soggettività - di rivendicarli anche contro gli ordinamenti storicamente esistenti, ovvero contro le comunità positive di cittadinanza. L’eredità storica della rivoluzione francese fa,

7. P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1970, p. 137.

8. “Non esiste [...] dopo Auschwitz una natura umana il cui possesso assicuri il tranquillo godimento del diritto: il diritto di essere

trattati come umani può venir revocato da un momento all’altro”: così L. Battaglia, Etica e diritti degli animali, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 31. E si può anche dubitare che una ovvia ed evidente natura umana sia davvero esistita prima di Auschwitz.

9. Secondo Marshall, la cittadinanza contemporanea è formata da una sedimentazione progressiva di diritti civili - concomitanti alla

nascita del mercato capitalistico -, diritti politici - concomitanti allo sviluppo della democrazia formali -, e diritti sociali - concomitanti al sorgere della democrazia sociale. Cfr. T.H. Marshall, Citizenship and Social Class, ora in Class, Citizenship and Social Development, The University of Chicago Press, Chicago 1964, p. 92.

10. Giuridicamente i diritti civili di Marshall sono una categoria spuria, che comprende: i diritti di libertà, i diritti dell'autonomia

privata (a concludere contratti e ad agire in giudizio) e il diritto di proprietà. La sola cosa che essi hanno in comune è, appunto, che nessuno di essi è un diritto di cittadinanza, essendo tutti diritti della persona, spettanti anche ai non cittadini. L'ampliamento della sfera dei diritti della personalità non è frutto del mercato, per il quale sono sufficienti il diritto a divenire proprietari e la pari capacità di agire, bensì della rivoluzione francese, che distinse fra diritti dell'uomo e diritti del cittadino. Solo i diritti politici sono diritti di cittadinanza, essendo riservati a membri della comunità statuale; rimangono di cittadinanza, cioè riservati, anche due diritti di libertà: il diritto di residenza e di circolazione nel territorio, e alcuni dei diritti cosiddetti sociali. Il nesso fra diritti e appartenenza è solo contingente, legato alle modalità storiche della loro attuazione: infatti, se tale nesso fosse necessario, i diritti sarebbero, propriamente, privilegi e immunità di membri di comunità particolari. Secondo Ferrajoli, è addirittura possibile proporsi un costituzionalismo mondiale, che disancori del tutto i diritti dell'uomo da quelli del cittadino e trasformi in diritti della persona i due soli diritti di libertà riservati ai cittadini (diritto di residenza e di libera circolazione). Così L. Ferrajoli in Dai diritti del cittadino ai diritti della persona, contenuto in D. Zolo (a cura di), La

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almeno provvisoriamente, del problema del soggetto morale un problema nello stesso tempo giuridico e politico - perché il riconoscimento della personalità morale è condizione sufficiente per avere diritti, in modo tale che la soggettività morale può essere vista come una manifestazione o fenomenizzazione della soggettività giuridica. Ove, ad esempio, uno stoico come Epitteto poteva distinguere l’aspetto etico e l’aspetto giuridico della questione della soggettività, perorando a favore di un trattamento “umano” per gli schiavi 11. senza invocare l’abolizione

giuridica della schiavitù, questo per noi non è più possibile: l’esclusione giuridica e politica è indissolubilmente legata all’esclusione morale - almeno nella misura in cui i diritti del cittadino sono giustificati in quanto diritti dell’uomo 12.

Quanto alla giustificazione del mio itinerario argomentativo, esso si svolge fra due pietre di paragone: il mondo greco, da una parte, e Kant, dall’altra, ossia: un mondo in cui la pluralità dei soggetti morali e delle etiche che si addicevano loro era sentita come ovvia, e un universo teoretico nel quale è pensata con la massima coerenza - almeno in linea di principio - l’idea dell’unità e unicità del soggetto morale. Queste pietre di paragone serviranno per saggiare tanto teorie politiche normative che hanno sullo sfondo dei soggetti morali omogenei o resi come tali (Rawls, Ackerman, Walzer), quanto teorie politiche che sottolineano variamente - ora per ridurla ad uno, ora per esaltarla - la diversità e la diversificazione dei soggetti morali stessi (Singer e alcune teorie femministe). Lo scopo di questo percorso è l’elaborazione non tanto di una nuova teoria, quanto di un canone interpretativo, primo che normativo, che ci permetta di essere consapevoli del problema del soggetto morale, e di tenerlo presente politicamente e culturalmente.

Prima di intraprendere il mio compito, vorrei rispondere ad una obiezione preliminare, che potrebbe essere fatta propria da un qualunque avversario delle teorie politiche normative - una obiezione che, grossolanamente, potrebbe essere espressa nel modo che segue: il problema del soggetto morale è soltanto una perversione delle posizioni che pretendono di imporre alla realtà una norma da essa differente; e quest'illusoria duplicazione dei piani conduce a chiedersi a quali elementi del piano inferiore debbano essere applicate le norme del piano superiore. Ma se noi consideriamo la realtà com’è, senza preoccuparci di come deve essere, l’interrogativo sul soggetto morale non si pone - perché soggetto morale e giuridico è chi di fatto ha la forza di esserlo e viene riconosciuto come tale.

A questa osservazione, in una prima approssimazione, vorrei rispondere che la forza stessa si vale di argomenti - argomenti che possono passare per una giustificazione. Sottoporre questi argomenti alla critica, chiedendosi di chi veramente si parla quando, ad esempio, si dice “noi” oppure “l’individuo” può essere, realisticamente, utile per smascherare gli inganni della forza e delle sue autolegittimazioni eufemistiche.

Dal mio punto di vista, non è vano, in questo momento, chiedere ai teorici morali e amorali chi includono nell’immagine dell’ordine attuale e possibile, perché includono alcuni e non altri, e soprattutto che relazione c’è fra la loro etica e i soggetti cui essa si riferisce. Sarebbe altrimenti facile rinchiudersi in clubs esclusivi, teorici e pratici, dai quali è espunto tutto ciò che ci trascende. Ma proprio quest'atteggiamento è ciò che rende davvero oziosa la teoria politica e morale: ha ben poco costrutto celebrare l’ordine della democrazia, o del mercato, o della comunità morale del momento, senza chiedersi chi decide e chi no, chi vende e chi compra - e che cosa vende e compra -, chi è incluso nel calore della fratellanza comune e chi no, e senza chiedersi, soprattutto, perché si è inclusi o esclusi. Il fatto che alcuni di noi vivano in costosi ghetti più o meno sazi e compiaciuti di sé non autorizza affatto la teoria ad essere, oziosamente, altrettanto vana e soddisfatta di sé.

L’insoddisfazione, del resto, è stata ravvisata proprio nella metafisica nel suo senso più nobile, di scienza che si interroga sul significato ultimo del reale, senza sentirsi appagata da constatazioni - o meglio da acritiche assolutizzazioni della propria prospettiva - sul suo presunto funzionamento. Come osserva Alberto Caracciolo:

Il “conosci te stesso” di Socrate, la reminiscenza di Platone, l’”anima dell’uomo è in qualche modo tutte le cose” di Aristotele, l’”in te ipsum redi” di Agostino, il “cogito” di Cartesio, la monade di Leibniz, l’Ich denke di Kant, l’Io puro di Fichte, l’atto di Gentile, l’Ereignis di Heidegger, sono momenti fondamentali, non già del soggettivismo, ma della ricerca di un punto nevralgico del reale, dal quale sia possibile una apertura sul cosmo nella sua sostanzialità, cioè nella sua realtà vera, quella che pone il problema del significato 13.

11. Epitteto, Diatribe, I 13.

12. In questa sede, è di poco interesse lo sfondo storico delle Dichiarazioni dei diritti e dunque anche la prospettiva di chi le

considera come particolaristiche espressioni degli interessi di un ceto. I diritti sono stati giustificati in quanto diritti della personalità, sebbene, storicamente siano nati per alcuni e siano stati e siano goduti soltanto da alcuni. La loro giustificazione - e non la loro storia - permette di porre il problema dell'esclusione. Voler ridurre tutto a storia, o meglio, a particolarità e particolarismi storiografici, senza prendere sul serio gli argomenti filosofici che nella storia sono stati dati significherebbe paralizzare il pensiero critico - a meno che non si creda in una qualche, provvidenziale, filosofia della storia.

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Su questo sfondo si spiega perché il problema dell’identificazione del soggetto morale non è soltanto una questione di etica applicata. Per poter parlare di etica e di diritto dobbiamo, da una parte, presupporre la libertà del suo soggetto e, dall'altra, indicare le creature che di questa libertà sono portatrici. Un soggetto libero è un soggetto che può essere e agire diversamente da come è ed agisce, che può uscire dal regno della necessità per entrare nel regno della scelta e della responsabilità. Ma quando indichiamo chi, nel mondo, è soggetto morale, tracciamo dei confini che si fondano sulle nostre constatazioni teoretiche e sulle nostre posizioni ontologiche o, più semplicemente, sulle nostre abitudini e sui nostri pregiudizi: la libertà è una possibilità i cui confini vengono delimitati entro il regno della necessità. Chi ci garantisce che la nostra ontologia morale non sia arbitraria, soprattutto se pensiamo la libertà come poter scegliere di diventare diversi da quello che si è? Chi ci garantisce che la nostra teoria riesca effettivamente a “vedere” tutti i soggetti morali? Più radicalmente: chi ci garantisce che soggetti assunti come liberi abbiano una visibilità teoretica, e siano definibili come morali in base a questa loro visibilità?

Se potessimo pensare il mondo come uno spazio ontologico noto e dato una volta per tutte, il problema del soggetto morale sarebbe riducibile a una questione di etica applicata. Ma se abbiamo motivo per dubitare dell'assolutezza della nostra ontologia, questo problema ha un senso speculativo ulteriore, che ha a che vedere in primo luogo con la capacità dei nostri discorsi morali e politici di esaurire in se stessi i soggetti di cui, più o meno implicitamente parlano, e, in secondo luogo, con la possibilità - fondata, in un orizzonte pratico, dal presupposto che i soggetti morali siano liberi - di questi discorsi medesimi di essere aperti a creature che, eventualmente, non riescano ad esaurire. Perciò il problema del soggetto morale è un problema a un tempo ontologico e pratico, nel senso seguente: ogni teoria che non voglia essere assolutistica e dogmatica deve essere consapevole del suo carattere prospettico e parziale rispetto a una realtà - o a un pluriverso di prospettive possibili - che la trascende. Ma questo vale a maggior ragione per una teoria morale, che deve tener conto della libertà dei suoi soggetti - libertà senza la quale non si darebbe logicamente né etica né diritto. Com'è possibile formulare una giustizia per creature che trascendono la teoria della giustizia stessa? E' possibile, in altri termini, prendere tanto sul serio la libertà del soggetto morale da pervenire ad una giustizia degli invisibili?

Come leggere questo libro

Se questo testo fosse un ipertesto, avrei elencato i singoli capitoli in un indice circolare, attorno ad un centro ideale - la discussione del problema del soggetto morale come canone critico-ermeneutico per le teorie giuridiche ed etiche -, e avrei lasciato al lettore la libertà di percorrere questo cerchio nell'ordine da lui preferito. Solitamente, un'opera filosofico-politica segue una traccia lineare: comincia sviscerando delle premesse teoriche e ne deriva, a mo' di conclusione, una proposta politica. Un ordine di questo genere si adatta perfettamente al testo cartaceo, la cui forma lineare obbliga ad una sequenza da una introduzione fino a una conclusione, tramite un corpus connesso di temi. Il lettore è legato a una catena, nella quale ogni blocco di argomenti deriva dal precedente e s'inanella con il successivo.

Questo testo, di contro, è qualcosa di diverso: esso propone un canone critico, ovvero una chiave per interrogare e per vagliare una pluralità d'impostazioni teoriche. Un canone, come tale, concresce e si dispiega in ciascuna delle sue applicazioni. Esso è paragonabile, più che all'anello finale di una catena, al centro di una circonferenza. Per questo, vive come una costrizione l'ordine lineare del libro di carta.

Tuttavia, anche nella limitazione del medium cartaceo, il lettore può conquistare la sua libertà. A questo scopo, mi permetto di suggerire tre possibili percorsi di lettura: un itinerario di stile ipertestuale, uno di stile romanzesco, e uno di stile didascalico.

Il lettore che vuole avventurarsi nell'itinerario ipertestuale può leggere il libro nell'ordine che preferisce, con una sola raccomandazione: il centro della circonferenza nella quale possono essere idealmente disposti i miei capitoli è il blocco composto dal V paragrafo del II capitolo e dall'introduzione al III capitolo, ove sono enunciate le coordinate fondamentali per una teoria etica e giuridica che voglia tener presente il problema del soggetto morale senza compiere assunzioni ontologiche e delimitazioni arbitrarie. E come il centro di una circonferenza è un luogo geometrico particolare perché è equidistante da ogni punto della circonferenza stessa, così il mio canone si arricchisce e s'illumina in rapporto a ciascun argomento sul quale viene vagliato, e perciò esso può venir compreso solo in rapporto a tutte e a ciascuna delle sue applicazioni, come, del resto, normalmente avviene entro un circolo ermeneutico.

L'itinerario che ho chiamato romanzesco consiste nel leggere i vari capitoli secondo l'ordine col quale ho condotto la ricerca: in questo caso, dall'introduzione si dovrebbe passare alla seconda parte e trattare la prima come una conclusione. Quest'itinerario è un po' complicato, perché solo all'ultimo si capisce dove l'autore vuole andare a parare. Tuttavia, per chi ha l'interesse e la pazienza di seguirlo, è sicuramente quello che più stimola il dialogo critico coll'autore. In questo modo il libro può essere letto come la storia di una ricerca il cui esito verrà

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reso noto soltanto alla fine: il lettore, in ogni momento, può anticipare questo esito, sia per vagliare le conclusioni da lui immaginate sulla pietra di paragone di quelle effettive, sia per escogitare conclusioni alternative e migliori di quelle raggiunte dall'autore.

Infine, l'itinerario didascalico consiste semplicemente nel seguire l'ordine proposto dall'indice, eventualmente saltando il primo capitolo, a meno che non si abbiano interessi a un tempo kantiani e teoretici. Questo è il modo più facile di affrontare il mio lavoro, ma è anche il più noioso, perché la prima parte del volume è una conclusione anticipata per fungere da guida alla lettura. Se il mio libro fosse un romanzo giallo, questa disposizione dei capitoli sarebbe un suicidio narrativo, perché già a un quarto dell'opera risulterebbe chiaro che il colpevole è il maggiordomo. Ma non a tutti piace affrontare le storie della filosofia col medesimo spirito col quale si leggono i racconti polizieschi o fantascientifici: perciò, per amor di chiarezza, ho scelto di disporre i miei argomenti nell'ordine più elementare, indicando altri possibili percorsi di lettura a chi nutre eccentriche passioni per i libri e per i labirinti.

L'ordine dell'itinerario didascalico si articola in tre compiti:

a) analizzare la filosofia teoretica (I capitolo) e pratica (II capitolo) di Kant per capire in che modo essa può sostenere il problema del soggetto morale, alla luce dell'accusa di indeterminatezza fatta da Fichte, e della tesi che la libertà come postulato è a rigore incompatibile con ogni determinazione ontologica (parte prima);

b) elaborare un canone che tenga aperta, per ogni particolare realizzazione fenomenica di etica e giustizia, la possibilità di una giustizia degli invisibili (V paragrafo del II capitolo, introduzione al III capitolo);

c) vagliare alla luce di questo canone differenti esperienze etiche e giuridiche, allo scopo di mostrare che esso può fungere da chiave critica significativa anche per prospettive molto differenti da quelle universalistiche e formali (parte seconda).

Vale la pena ripetere, in conclusione, un'avvertenza: il punto (c) non è riducibile ad una applicazione meccanica del canone di cui al punto (b), perché è il bagaglio di termini di confronto e di paradigmi critici sulla scorta del quale sono giunta ad interrogare Kant, e si riannoda, circolarmente, al punto (a). A rigore questo libro non comincia con Kant, ma riparte da Kant, perché investe il filosofo di questioni sorte fuori da Koenigsberg, e perciò non segue le rotte lineari della storia, bensì naviga in cerchio.

Ringraziamenti

Ringrazio tutti i componenti del SIFP toscano (Seminario interuniversitario di filosofia politica) che hanno avuto la pazienza di leggere e discutere la stesura preliminare di questo libro, e in particolare i discussants Anna Loretoni e Giuseppe Varnier.

Dei ringraziamenti speciali, al di là di tutte le parole che potrei usare, vanno, inoltre, al professor Giuliano Marini e al professor Danilo Zolo; a Gianluigi Palombella che, pur appartenendo ad altro ramo, ha trovato il tempo di dare un’occhiata al mio testo e di farci sopra delle osservazioni intelligenti e a Gabriella Alù, che non lavora all’università, ma che legge - come non sempre a noi succede - per il piacere di farlo. Ringrazio, infine, tutte le iscritte alla mailing list ledonne@citinv.it, con le quali è sempre bello discutere.

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Parte prima

Kant, il soggetto e la libertà

I

Il tribunale della ragione: un’introduzione teoretica

Prima di porre il problema del soggetto morale in Kant, occorre spiegare il modo in cui si intende interpretare Kant. Se Kant venisse letto come un umanista razionalista, o come un neokantiano occupato a ricercare la legalità intrinseca della cultura umana e a conciliarsi con essa, la questione del soggetto morale potrebbe sorgere, al massimo, come una difficoltà entro un sistema comunque incentrato sulla natura, o sulla cultura, dell’uomo. Per differenziarsi da queste, pur legittime, interpretazioni, bisogna dimostrare che la ragione kantiana è qualcosa che non si identifica coll’umanità così come questo termine viene storicamente inteso, né, tanto meno, con la cultura: la ragione - come la virtù nel mito platonico di Er 14 - non ha padrone,

perché è un’istanza critica e giudicante, e non contemplativa e conciliante. Un’istanza che mette in questione la certezza e il senso delle nostre ed altrui elaborazioni teoretiche e pratiche. Il tribunale della ragione 15, che

ha per sola legge la propria autonomia, opera secondo procedure di natura giuridico-riflessiva, ma non ha nessun contenuto evidente e incondizionatamente necessario - perché giudica, in un certo senso, soltanto su pretese altrui.

Ragione contemplante o ragione giudicante?

Kant era convinto che il compito critico della ragione fosse quello di individuare e legittimare le strutture a priori della nostra conoscenza teoretica e pratica, che costituiscono la sintassi della nostra conoscenza. Ebbene: queste strutture godono di una necessità incondizionata?

Se rispondiamo di sì, allora la ragione kantiana, che le scopre e le legittima, ha un ruolo fondante. In questo caso, essa non sarebbe molto diversa dalla ragione idealistica, fondativa e identica alla realtà. Infatti, essa presupporrebbe una presenza attuale e necessaria di queste strutture essenziali e indispensabili. Ma questa risposta implica che il lavoro critico di Kant sia oggi obsoleto, perché tratta i modelli di una particolare fondazione etica e scientifica come necessari e inevitabili. Perciò, se mettiamo in discussione la fisica di Newton, cui si rifaceva Kant, o alcuni contenuti della sua etica, non possiamo fare ameno di rinfacciare a Kant quello stesso dogmatismo metafisico cui egli voleva sottrarsi 16.

14. Cfr. il paragrafo 2 del IV capitolo di questo volume. 15. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B XIII.

16. Si pensi, per esempio, al dibattito sull'apriori che oppose Reichenbach, e con lui tutti i neopositivisti ed empiristi logici, al

neokantiano Cassirer, avente ad oggetto la sostenibilità della gnoseologia kantiana, in quanto costruita sull'aritmetica tradizionale, sulla geometria euclidea e sulla fisica classica galilieano-newtoniana, in seguito ai nuovi sviluppi della matematica pura (insiemistica, logica matematica), delle geometrie non-euclidee e della relatività einsteiniana. Reichenbach riconosceva, kantianamente, l'esigenza di princípi ed elementi a priori nella conoscenza, ma negava che questi a priori fossero dati e determinati una volta per tutte: ebbene, gli interpreti "postmoderni" di Kant sono sicuramente più vicini a Reichenbach piuttosto che a Cassirer. I testi di riferimento per questa polemica sono: H. Reichenbach, Relativitätstheorie und Erkenntnis Apriori, Springer, Berlin 1920; E. Cassirer,

Zur Einstein'schen Relativitätstheorie, B. Cassirer, Berlin 1921 (trad. it di G.A. De Toni, in E. Cassirer, Sostanza e funzione. - Sulla teoria della relatività di Einstein, La Nuova Italia, Firenze 1973).

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Tuttavia, Kant può essere letto in un modo diverso. La ragione che fa i conti col compito di legittimare la validità delle strutture a priori della conoscenza teoretica e pratica non mostra che esse sono incondizionatamente necessarie, ma solo che sono condizionatamente necessarie. In altri termini, la loro legittimazione non conduce a mostrare che esse hanno una fondazione necessaria, ma solo che sono possibili a certe condizioni. La prima risposta suppone che la fondazione delle strutture a priori sia una quaestio facti. La seconda che sia una quaestio iuris. La ragione non fonda gli apriori, ma legittima le sue pretese dal suo proprio punto di vista, che è quello di una facoltà riflessiva e autonoma. Perché solo una facoltà di questo genere può interrogarsi sui nostri strumenti cognitivi. Di contro, se essi fossero incondizionatamente necessari, non ci sarebbe bisogno di sceglierli, discuterli e giustificarli.

Nel suo lavoro di legittimazione degli apriori, la ragione attribuisce loro una necessità condizionata, simile a quella giuridica. Non si tratta di una necessità assoluta, bensì di una necessità relativa a una prospettiva e a una procedura particolare. In questi ultimi anni, del resto, autori come Lyotard, Kaulbach e Onora O'Neill 17

hanno sviluppato una interpretazione del pensiero kantiano incentrata sul carattere giuridico-riflessivo della ragion pura - interpretazione che Pietro Chiodi aveva già proposto molti anni prima di loro 18. E Kant stesso

usa la metafora del tribunale della ragione 19.

Due parti in conflitto si appellano a un tribunale quando avanzano pretese contrastanti. Ma entrambe sono d’accordo a risolvere la loro lite in maniera giuridica, cioè a seguire procedure e sintassi particolari per raggiungere una composizione. Il fatto stesso che ci sia una lite comporta che nessuna delle due pretese gode di una necessità incondizionata. E che quella che segue dalla decisione della corte sia solo una necessità condizionata, cioè una obbligazione valida solo entro un ordinamento giuridico. Perché Kant, nella sua teoria della conoscenza, preferisce questa necessità debole?

Prima di rispondere a questa domanda, vale la pena di sottolineare che la metafora del tribunale della ragione è rivoluzionaria. Con essa, la ragione non appare più come una theoria contemplativa, ma come una facoltà giudicante. La ragione contemplante caratterizza la tradizione metafisica occidentale ed è basata sulla priorità dell’attuale. Di contro, la ragione giudicante di Kant si fonda sulla priorità del possibile.

Per attualità di una cosa intendiamo il suo essere presente, in atto, pienamente sviluppata. Per possibilità, al contrario, si intende l'essere, meramente probabile, in un tempo diverso dal presente, e dall'esperienza in atto.

Fino a Kant, la tradizione metafisica dell'occidente si basò sul primato dell'attualità in due ambiti fondamentali: in primo luogo, in quello dei princípi primi della conoscenza, e, in secondo luogo, in quello della struttura ontologica della cosa. Possiamo considerare come paradigmatiche, a questo proposito, le posizioni di matrice aristotelico-scolastica: i princípi primi della conoscenza - e della realtà - sono attuali, nel senso che sono sempre e necessariamente presenti alla base di ogni forma di conoscenza, e da essi è impossibile prescindere. Inoltre, per quanto riguarda la struttura della cosa, l'attuale è logicamente superiore al possibile: l'atto è lo stato di piena realizzazione di una cosa, ed è possibile parlare di essere virtuale, ancora in fieri, solo col presupposto di un essere attuale pienamente realizzato 20.

Questo è il punto di vista di una ragione contemplativa. I nostri princìpi teoretici e pratici possono essere visti come ben fondati quando si è dimostrato che sono attuali e sempre necessariamente presenti nella nostra conoscenza. Tuttavia, per una ragione giudicante, questa dimostrazione non è sufficiente. Nella sua prospettiva, dobbiamo mostrare che sono possibili, cioè che possiamo dedurli e legittimarli entro una data prospettiva di riferimento.

17. I principali esponenti di questa tendenza sono J.F. Lyotard in Francia, F. Kaulbach in Germania e O. O'Neill in Inghilterra.

V. in particolare J.-F. Lyotard, L'enthousiasme. La critique kantienne de l'histoire, Galilée, Paris, 1986 (trad. it. di F. Mariani Zini,

L'entusiasmo. La critica kantiana della storia, Guerini e associati, Milano 1989 ); F. Kaulbach, Die Kopernikanische Wendung von der Objektwahrheit zur Sinnwahrheit bei Kant, in Wahrheit und Begrundung, hrsg. v. V. Gerhardt und N. Herold, Könighausen & Neumann,

Würzburg 1985, nonché Studien zur späten Rechtsphilosophie Kants und ihrer transzendentalen Methode, Würzburg, Könighausen & Neumann, 1982; O. O'Neill, Construction of Reason. Exploration of Kant's Practical Philosophy, Cambridge U.P, Cambridge 1989, nonché

Vindicating reason, in P. Guyer (ed.), A Cambridge Companion to Kant, cit., pp. 280-305, e Reason and Politics in the Kantian Enterprise, in H.

Williams (ed.), Essays on Kant's Political Philosophy, University of Wales Press, Cardiff 1992, pp. 50-79.

18. P. Chiodi, La deduzione nell'opera di Kant, Taylor, Torino 1961. Chiodi è noto soprattutto come interprete di Heidegger e

dell’esistenzialismo.

19. Sul tema si veda anche, con differenti prospettive, J.L. Nancy, L'impératif catégorique, Flammarion, Paris 1983, pp. 35-60,

nonché W. Kutschmann, Erfinder und Entdecker oder Richter der Natur? Die kantsche Richter-Metapher und di Selbstlosigkeit der modernen

Naturwissenschaften, in "Zeitschrift für philosophische Forschung", 43, 1, 1988, pp. 32-57.

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Perché Kant usa la metafora del tribunale della ragione? Perché non gli basta più stabilire che di fatto usiamo certi strumenti cognitivi? Si può suggerire la seguente risposta: Kant ha bisogno di una ragione giudicante, perché si rende conto che i razionalisti e gli empiristi suoi contemporanei presentano due tipi di attualità, in reciproco conflitto. I razionalisti credono che la conoscenza si fondi su princìpi razionali attuali, sempre presenti e necessari. Gli empiristi, di contro, che le evidenze che formano la conoscenza siano date dall’esperienza, in un modo altrettanto attuale e indiscutibile. Chi ha ragione? Per rispondere, la ragione stessa deve diventare un tribunale, che valuta la legittimità di pretese confliggenti.

Un tribunale non può dar ragione a una parte semplicemente perché un determinato comportamento è attuale, come costume dominante nella società: così, Kant distingue la critica della ragione dalla fisiologia - empiristica - della conoscenza, cioè dalla spiegazione del modo in cui la gente conosce, la quale nulla dice della legittimità della struttura della conoscenza. Un tribunale, inoltre, non è un potere che si autopone, alla maniera del principe nuovo di Machiavelli, ma è legittimato come organo della legge.

La filosofia critica, insomma, non ha nulla a che fare con i vari tipi di ragione-realtà idealistica, la quale si autopone, si autolegittima per il fatto stesso di porsi, e assorbe in se stessa la totalità del reale, ma è un organo derivato, terzo, che non crea ma che orienta. Tuttavia, la deliberazione del tribunale può aver luogo solo perché il tribunale mette, di proprio, un diritto che non è contenuto nelle pretese delle parti, bensì è pronunciato dal tribunale stesso.

Il diritto accertato dal tribunale non è qualcosa che viene “scoperto” negli usi e nei precedenti già esistenti: per questo motivo, il tribunale della ragione può essere paragonato, più che a una corte civile di common law, a un tribunale costituzionale straordinario. Infatti, una corte civile di common law è un'istanza che è nello stesso tempo legiferante - dunque non mera bouche de la loi - e che si riconosce come sottoposta a un ideale di legge che in se stesso è altro e differente dal suo arbitrio, anche se, a tutti gli effetti, l'unico organo che scopre e pronuncia questa legge è il tribunale stesso. Tuttavia, questo tipo di tribunale, sia che si basi esclusivamente sul precedente, sia che riconosca un ruolo anche alla consuetudine, presuppone una situazione di legalità già data e incontestata: il tribunale della ragione kantiano, invece, deve fare i conti con una condizione di discordia e anarchia, dovuta alla crisi degli ordinamenti tradizionali, e deve elaborare le strutture stesse della legittimità.

La proclamazione di queste nuove strutture della legittimità non può ridursi ad una presa di potere o alla nomina di un principe nuovo, ma deve contenere le regole con le quali sia possibile dirimere le pretese delle parti in conflitto. Per questo, la costituzione pronunciata dal tribunale deve essere procedurale e aperta: una corte che si limitasse a imporre una parvenza di legittimità a un potere de facto perderebbe il suo ruolo di giudice e si ridurrebbe a organo propagandistico del principe: per questo, il tribunale della ragione deve avere come suoi caratteri essenziali l'autonomia e la soggezione ad un ideale di legittimità e di legislazione.

La ragione di Kant, letta secondo la metafora del tribunale, è una ragione regolativa, che inserisce le pretese dalla conoscenza - o meglio dei vari tipi di conoscenza - in strutture di legittimazione. Non essendo creativa, non ha come compito di sindacare la realtà delle conoscenze, bensì la loro possibilità: deve, cioè, legittimarne e sistematizzarne le strutture, in modo che siano unitarie e reciprocamente compatibili. Un tribunale che si pronunciasse in modo episodico e asistematico, secondo gli umori e le esigenze dei giudici, non sarebbe un tribunale, ma un organo arbitrario. Allo stesso modo, un tribunale che deliberasse in base a pronunce di altri - per esempio di un principe - sarebbe ugualmente arbitrario: al giudice è richiesta nello stesso tempo l'indipendenza da istanze differenti e la soggezione alla legge, in una parola, l'autonomia. Così scrive Kant in Che cosa significa orientarsi nel pensiero?

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Libertà nel pensare significa anche la sottomissione alle sole leggi che la ragione dà a se stessa; e il suo contrario è la massima di un uso sregolato della ragione. La conseguenza di ciò è naturalmente che, se la ragione non intende star sottomessa alla legge che si dà da sé, allora dovrà necessariamente piegarsi al giogo delle leggi che le dà un altro; senza una qualche legge, infatti, niente, nemmeno la più grande assurdità, può tirare per le lunghe il suo gioco. L'inevitabile conseguenza della sregolatezza nel pensare quale qui si è spiegata [Jacobi], cioè come una liberazione dalle limitazioni imposte dalla ragione, è quindi questa: che così si finisce per perdere la libertà di pensare e poiché la colpa di ciò non è dovuta alla sfortuna ma ad una presunzione bella e buona, la libertà di pensare ce la giochiamo nel vero senso della parola 21.

La ragione critica di Kant è ben diversa dalla ragione-realtà idealistica: la totalità, l'unità e la sistematicità del sapere sono certo fra le sue aspirazioni, ma l'impresa critica è possibile solo nel quadro di un operare finito. Il fatto stesso che ci si proponga il compito critico di stabilire quali sono gli ambiti di validità della conoscenza implica che la ragione non sia un organo del sapere assoluto.

Chi ricerca condizioni e valuta possibilità non è di per se stesso incondizionato e necessario. E' ben vero che la ragione non può mai operare senza presupporre se stessa e la propria autonomia: una ragione che fosse mossa da altro non sarebbe più una ragione, ma - per usare una immagine kantiana - un semplice girarrosto 22. Ma deve essere molto chiaro che, per la ragione di Kant, la necessità di presupporre se stessa

come dato non sistematizzabile, come istanza critica insuperabile è un sintomo di finitezza, e non di assolutezza 23. La ragione, in un certo senso, è irrimediabilmente prigioniera di se stessa. La critica della

ragione risponde alle domande “Che cosa posso conoscere?”, “Che cosa devo fare?” e “Che cosa posso sperare?” 24, ma è del tutto impotente di fronte a questioni come “perché conosco?” o “perché dover essere

morali?”: il semplice fatto di esserci e di porsi delle domande non ha nessun significato fondativo. La ragione di Kant è soggetta, per così dire, al teorema di Gödel: può dar conto di tutto, ma contiene, come elemento indecidibile, se stessa.

Quest'impossibilità è anche e nello stesso tempo un punto di forza, in quanto è una prova della non-metafisicità della ragione kantiana. La ragione non è un sistema dato una volta per tutte, ma un processo: per questo motivo possiamo attribuirle la forma di una legislazione, ma non dei contenuti necessari. Kant parla, nella Risposta alla domanda: che cos'è l'illuminismo? di Beruf jedes Menschen, selbst zu denken 25. La ragione ha il

carattere di una vocazione. La vocazione, nella sua accezione religiosa, è una chiamata personalissima, che è impossibile imporre o definire nei suoi contenuto dall'esterno, perché è qualcosa che può provare e valutare soltanto l'interessato. In luogo della necessità, Kant pone l'autonomia del pensiero e le strutture delle sue condizioni e possibilità.

La deduzione nell'opera di Kant

21. I. Kant, Was heisst sich im Denken orientieren?, Ak. VIII, 131 ss. (trad. it. di F. Desideri, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, pp.

14-15, in I. Kant, Questioni di confine, Marietti, Genova 1990, pp. 3-16) .

22. I. Kant, Kritik del praktischen Vernunft, A 173-174 (trad. it. pp. 118-19). Kant, naturalmente, usava questa immagine per

distinguere la propria concezione della libertà da quella di Leibniz: un automaton spirituale, per il fatto di essere determinato da rappresentazioni anziché da cause materiali, non è affatto più libero di un automaton materiale. La sua libertà è, appunto, una libertà del girarrosto.

23. Si pensi al celebre passo della Critica della ragion pura in cui la necessità incondizionata viene detta «il vero baratro della ragione

umana». Ora, la necessità incondizionata è propria del ciò che è un fondamento ultimo, ineludibile, dal quale non è possibile prescindere: ma non si può fare a meno di chiedere "che cosa fonda il fondamento?". Questo vale anche per chi volesse interpretare la ragione kantiana in maniera idealistica: il fatto che la ragione non possa fare a meno di presupporsi nella propria autonomia non è, propriamente, un fondamento, ma un baratro. Il fatto che la ragione non possa uscire da se stessa non dice nulla sulla sua identità con la totalità del reale. (Kritik der reinen Vernunft, B 641-A 613; trad. it. di P. Chiodi, Utet, Torino 1967, p. 490).

24. I. Kant, Kritik der reinen Vernuft, B 832/A 804- B 833-/A 805. Queste tre domande della filosofia si compendiano nella

domanda “che cosa è l’uomo?”. La filosofia, tuttavia, non è antropologia - anche perché, se così fosse, essa si ridurrebbe ad una fisiologia dell’intelletto e ad una genealogia della morale. Piuttosto, essa va intesa come una antropologia fondamentale trascendentale e non ontologica (v. L. Amoroso, Senso e consenso. Uno studio kantiano, Guida, Napoli 1984, pp. 68-72): per chiedersi che cosa sia l’uomo, come essere razionale ma finito, il tribunale della ragione deve conquistare, attraverso la consapevolezza del carattere prospettico della cultura umana, un punto di vista che non si appiattisca sull’umano nel suo mutevolissimo senso storico-fisiologico. Come posso conoscere una prospettiva se non in qualche modo sfuggendole? (P. Ricouer, Philosophie de la volonté.

Finitudine et culpabilité, I: L’homme fallible, Aubier, Paris 1960, pp. 14-17).

25. I. Kant, Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?, A 483 (trad. it. di F. Gonnelli, I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, Laterza,

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L'interpretazione del pensiero kantiano che stiamo cercando di delineare è anti-idealistica. Ove, infatti, gli idealisti leggevano la ragione di Kant come principio attuale, tendenzialmente logico e ontologico, qui la ragione è una razionalità riflettente di tipo giuridico, un processo in sé finito di strutturazione di possibilità e di limiti. E uno dei temi più importanti - e di più diretta derivazione giuridica - del pensiero kantiano è, appunto, la deduzione.

Il termine deduzione, nell'uso kantiano, è tratto dal linguaggio del diritto, e indica la dimostrazione della legittimità di determinate pretese, come distinta dalla prova di questioni di fatto 26. La deduzione più

tormentata e più celebre è la deduzione trascendentale, contenuta nella Critica della ragion pura, avente ad oggetto la legittimazione dell'uso conoscitivo delle categorie dell'intelletto. La questione che rende necessaria la deduzione è, in breve, la seguente: una volta individuati alcuni strumenti della conoscenza - le categorie, fra le quali è degna di menzione la causalità, funzione cardine del ragionamento scientifico - che non derivano dall'esperienza, ci si chiede se sia lecito o no utilizzare tale strumento in ambito conoscitivo. Questo interrogativo, peraltro, non si pone nel vuoto, ma solo in quanto si considerano date due circostanze di fatto: da una parte, le intuizioni sensibili, e dall'altra, appunto, le categorie dell'intelletto. Se vogliamo, in questa duplicità si ripropone quella crisi dell'univocità dell'evidenza denunciata dal contrasto fra empirismo e razionalismo. Non possiamo dedurre - in senso logico - l'esperienza sensibile dalle categorie, né, viceversa, le categorie dall'esperienza sensibile. Hume, su questo, era stato chiarissimo 27. Occorre, dunque, una

legittimazione. Scopo di questa legittimazione - la deduzione trascendentale, appunto - è mostrare in che modo possa darsi una conoscenza unitaria pur in presenza di due tipi di evidenza reciprocamente indipendenti. Dalla parte della sensibilità, abbiamo un molteplice virtualmente infinito; dalla parte dell'intelletto, un numero finito di categorie. Chi ci dice che queste ultime servano a qualcosa? L'impresa della legittimazione presuppone, almeno come focus imaginarius, una unità della conoscenza: infatti, senza questo presupposto, non si darebbe neppure il conflitto fra l'evidenza dei razionalisti e l'evidenza degli empiristi. Se, dunque, vogliamo discutere del problema della legittimità dell'uso delle categorie, dobbiamo presupporre un soggetto, un substrato che sappia riconoscere come proprie entrambi le evidenze in conflitto. Se, infatti, mancasse questo riconoscimento non si potrebbe neppure dare il conflitto. Per questo, Kant chiama tale substrato io penso, proprio perché non si tratta di un palcoscenico inconsapevole su cui hanno luogo rappresentazioni, ma di qualcosa di attivo, che opera riconoscendo, appunto, le rappresentazioni come proprie. Ebbene, il conflitto fra l'evidenza sensibile e quella intellettuale può proporsi solo se entrambi riescono a funzionare di concerto: solo se le categorie rendono intelligibile la molteplicità virtualmente infinita offerta dall'evidenza sensibile, in modo tale che questa evidenza possa perfino, se è il caso, contrapporsi ai risultati finora dati per acquisiti e catalogati dall'intelletto. Va sottolineato che la deduzione trascendentale si sviluppa con una serie di condizioni ipotetiche: se vogliamo dirimere il conflitto, dobbiamo presupporre una unità virtuale della conoscenza e della soggettività in cui tale conoscenza ha luogo, e le cui funzioni unificatrici siano, appunto, le categorie. L'io penso, insomma, non è una evidenza ultima, attuale, ineludibile, ma è una possibilità introdotta da un “se”. Non è il fondamento della realtà e della razionalità, ma solo una condizione logico-conoscitiva, che deve poter accompagnare la conoscenza secondo le categorie - se si vuole che la conoscenza sia unitaria, e quindi soggetta a discussione e critica - e non si riduca a una serie di immagini che si susseguono su una lanterna magica. La condizione ipotetica dell'io penso, peraltro, non determina né il tipo di categorie, né il tipo di rappresentazioni: richiede soltanto che esse siano riconoscibili, unificabili e sistematizzabili, oltre che, per quanto riguarda le categorie, unificanti e sistematizzanti.

Hegel dava di questa deduzione una lettura di tipo metafisico - come se Kant si fosse proposto di dedurre, in senso logico, la tavola delle categorie dalla realtà necessaria dell'io penso - e criticava l'impresa kantiana come fallimentare. Infatti, egli sosteneva che non c'era nessun nesso fra l'io, come unità dell'autocoscienza, e le categorie le quali dovevano essere le funzioni unificatrici della sua conoscenza, ma che la connessione rimaneva meramente empirica. La critica hegeliana sarebbe pertinente se la deduzione trascendentale fosse metafisica: se si proponesse, cioè, di dedurre le categorie dalla attualità di una autocoscienza che si autolegittima in quanto fonte, nello stesso tempo, di realtà e di conoscenza. Ma Kant non si pone, nei confronti degli strumenti del pensiero, la questione - metafisica - della loro “realtà”, ossia

26. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 116-B 117/A 84 (trad. it. pp. 152-53). 27. Sul tema si rinvia a M. Pera, Hume, Kant e l'induzione, il Mulino, Bologna 1982.

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della loro connessione alla struttura delle cose, bensì la questione - giuridica - della loro validità e del loro uso

28.

Mentre gli idealisti si rifacevano a un concetto di fondamento come attualità, realtà necessaria, incondizionatezza, Kant pensava, antimetafisicamente, al fondamento come condizione e limite. Gli idealisti, riducendo Kant a un metafisico, lo trattavano come se egli avesse trasferito la funzione di fondamento logico-ontologico, nel senso tradizionale, al soggetto, e poi non fosse riuscito a determinare la struttura categoriale del soggetto a partire dalla sua produttività necessaria e incondizionata. In realtà, una simile dimostrazione non avrebbe, dal punto di vista di Kant, nessun valore: anche se si riuscisse a dimostrare che le categorie sono la struttura necessaria del soggetto in quanto conoscente e autocosciente, non verrebbe affatto legittimato il loro uso conoscitivo 29. Chi ci dice che queste presunte strutture necessarie non sono

l'anatomia del sogno? Chi ci dice che con esse possiamo conoscere? La domanda da fare, per Kant, è un'altra, e cioè: a quali condizioni ed entro quali limiti possiamo usare una determinata funzione in modo legittimo? In altri termini: una fondazione ultima e sempre presente, perché ineludibile, della conoscenza e della realtà è, dal punto di vista kantiano, qualcosa che ha pochissimo significato. Infatti, se questa fondazione ultima e ineludibile opera effettivamente come tale, allora ogni modalità del conoscere è ricompresa in essa e non può sfuggirvi. A che pro', dunque, interessarsene? Se è davvero una fondazione ineludibile, non si può fare comunque senza di essa. E' più utile occuparsi dei fondamenti possibili ed eludibili: sono essi che hanno bisogno di dimostrazione e di legittimazione, proprio perché si può fare senza di essi.

La tesi fondamentale di questa interpretazione di Kant è la seguente: la nozione tradizionale di fondamento dà conto delle possibilità riconducendole all'ordine unico e incondizionato della realtà assoluta; Kant riconduce la necessità all'ordine vario e problematico delle condizioni di possibilità, e dei diversi ambiti di validità da esse aperti.30 Per questo, nel pensiero kantiano si possono isolare varie deduzioni, a seconda del

tipo di concetto e dell'ambito di validità cui esso si riferisce: Kant distingue, ad esempio, fra leggi della natura e leggi della libertà, e cerca di mostrare che i concetti esplicativi della conoscenza teoretica non si addicono - coerentemente - al regno del diritto e della morale. In generale il problema delle deduzione si pone perché non si dà una necessità automatica e inevitabile. La ragione deducente non avrebbe senso nel regno del necessario e dell'attuale, ma opera, come un tribunale, nell'ambito del possibile. L'incondizionato - dice Kant - non può essere pensato senza contraddizione.

Cerchiamo innanzitutto di chiarire che cosa si intenda per deduzione trascendentale überhaupt.

Hegel, come abbiamo già accennato, interpretò la deduzione kantiana come se fosse finalizzata alla determinazione delle categorie nella loro totalità e necessità, in rapporto con l'autocoscienza 31. Kant, tuttavia,

si pone il problema della deduzione addirittura dopo aver esposto le categorie. La deduzione cerca di giustificare non il rapporto fra le categorie, né il rapporto fra le categorie e l'unità dell'autocoscienza, bensì la connessione fra un tipo di determinazione a priori e la possibilità del relativo oggetto: nel caso della deduzione trascendentale delle categorie, il rapporto fra queste e il relativo oggetto. Il fatto che si presenti l'esigenza della deduzione mostra che questo rapporto non è assoluto, ma è soltanto possibile: perciò, occorre esibirne le condizioni - trasgredibili - di validità 32. La trascendentalità della deduzione - cioè il fatto

che inerisca agli strumenti del nostro conoscere - è un suo carattere analitico: non si può legittimare empiricamente qualcosa, in base a una fisiologia del conoscere; allo stesso modo, un tribunale non potrebbe dichiarar legittimo un comportamento semplicemente perché diffuso nella società. Insomma: la deduzione è il principale carattere che contraddistingue la filosofia critica di Kant tanto rispetto alle impostazioni empiristiche, quanto rispetto a quelle razionalistiche. E' impossibile legittimare empiricamente una forma a priori, e allo stesso modo è vano pretendere di ricavare un oggetto dalla logica.

La deduzione trascendentale si basa sulla distinzione fra quaestio juris e quaestio facti: il diritto e l'ambito delle pretese dei nostri concetti puri non sono contenuti analiticamente nel fatto. Kant, insomma, pur esprimendosi ancora come se l'ordine formale del pensiero fosse naturale, ne mette in questione le condizioni da un punto di vista non naturalistico 33. Il fatto che i concetti da legittimare esistano e vengano usati non

28. P. Chiodi, La deduzione cit., pp. 10-13. 29. Ivi, pp. 21-59.

30. Ivi, pp. 13 ss..

31. G.W.F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, I, § 42. 32. P. Chiodi, La deduzione cit., pp. 33-38.

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comporta automaticamente la legittimità e la validità del loro uso. Dire che le categorie sono connaturate alla fisiologia delle nostre facoltà conoscitive non serve affatto a chiarire se e in che misura sia lecito ricorrere ad esse per la conoscenza.

I concetti della filosofia esprimono un campo di pretese, che deve essere fondato non esibendone la necessità, ma mostrandone la possibilità legittima. Kant distingue molto chiaramente, nella Critica del Giudizio, fra Feld o campo (l'ambito delle pretese di un concetto a prescindere dalla possibilità della sua fondazione); Boden o territorio (la parte del campo in cui tale possibilità sussiste) e Gebiet o dominio (la parte del territorio in cui la validità è reale, cioè si riferisce effettivamente a cose possibili) 34. Su un medesimo territorio sono

compossibili dominii diversi, a seconda delle condizioni di validità che formano l'uso legittimo di un concetto: ad esempio, nell'esperienza hanno dominio sia la legislazione intellettuale della natura, sia la legislazione razionale della libertà, a seconda che si adotti la prospettiva della spiegazione. oppure quella della legge morale e giuridica 35.

Per illustrare il senso della deduzione trascendentale, consideriamo brevemente la deduzione dei concetti puri dell'intelletto, o categorie. Il problema di questa deduzione è, fondamentalmente, la classica questione del rapporto fra la nostra rappresentazione e l'oggetto 36. Che cosa ci assicura che fra questi due termini esista

conformità? A questa domanda, si davano tre soluzioni metafisiche tradizionali, che Kant rigettava già nella lettera a Marcus Herz del 21/II/ 1772 37:

- rapporto di un soggetto attivo con un oggetto passivo (intellectus archetypi, nella cui intuizione trovano fondamento i fatti stessi);

- rapporto di un oggetto attivo con un soggetto passivo (intellectus ectypi, le cui rappresentazioni sono determinate completamente dall'influenza dell'oggetto);

- operare di un Dio attivo su un soggetto e un oggetto ugualmente passivi (occasionalismo di Malebranche).

Le prime due soluzioni vengono rifiutate da Kant, perché presuppongono una azione assoluta e incondizionata la cui insussistenza è provata dalla semplice presenza di due interpretazioni confliggenti dell'intuizione: una azione assoluta e incondizionata, immediatamente carica di contenuto concettuale, non potrebbe neppure essere messa in discussione. La terza, quella occasionalistica, perché comporta un circolo vizioso, dal momento che il deus ex machina, il quale si preoccupa di armonizzare conoscente e conosciuto, è introdotto dalla medesima facoltà conoscitiva che occorre legittimare.

Le tre soluzioni tradizionali hanno in comune la spiegazione del rapporto fra rappresentazione e oggetto con uno schema di tipo causa-effetto. Ciò che à assunto come prius, sia esso Dio, o il soggetto conoscente, o l'oggetto offerto dall'esperienza, è trattato come un fondamento che ha i caratteri della incondizionatezza - perché è causa prima - della presenzialità e della necessità, nel senso che non può essere altro da ciò che è. Anche per Kant fondamento e necessità coincidono, ma necessità e incondizionatezza no: si può parlare di fondamento solo in relazione a dei tipi di legittimità, da determinarsi di volta in volta secondo condizioni di validità particolari 38.

In termini più semplici: la metafisica tradizionale giustificava, o meglio spiegava, la conformità fra la rappresentazione e l'oggetto, constatando la presenza di un prius logico, di un fondamento, che operava come una causa prima. In questo modo commetteva due errori: in primo luogo trattava se stessa come un oggetto esterno, cioè ragionava come se conoscesse, da una parte, l'oggetto, indipendentemente dalla sua rappresentazione, e dall'altra la rappresentazione; in secondo luogo, dava per scontato che fosse appropriato utilizzare, per definire il rapporto fra conoscenza e rappresentazione, la categoria di causa. La ragione di Kant, invece, è una ragione riflettente, che sottopone a critica le proprie possibilità e i propri limiti, e in quanto riflettente, non è affatto in grado di trattarsi come se si vedesse dall'esterno, come un oggetto dell'esperienza: il suo problema, perciò, non è l'impossibile esibizione di un fondamento assoluto, ma una critica che chiarisca come e quando usare le proprie categorie: in questo caso, ad esempio, come e quando usare la categoria di causa.

34. Ivi, pp. 49-52; cfr. I. Kant, Kritik der Urteilskraft, A XV-XVI (trad. it. di A. Gargiulo, Critica del Giudizio, Laterza, Roma-Bari

1987, pp. 12-13.

35. P. Chiodi, La deduzione. cit, pp. 50-52. 36. Ivi, p. 72.

37. Ak. X 129-135. P. Chiodi, La deduzione. cit , pp. 69-75. 38. Ivi, p. 81.

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Dunque, il problema della deduzione delle categorie si articola secondo il seguente itinerario 39:

1. esistono dei concetti a priori dell'intelletto;

2. l'accertamento di questo fatto apre il problema della loro legittimità e delle loro condizioni d'uso; 3. ogni pretesa di legittimità è una pretesa di necessità;

4. ogni pretesa di necessità richiede una deduzione che ne determini le condizioni;

5. se esistesse un piano in cui necessità e incondizionatezza coincidessero, nessuna deduzione sarebbe possibile. Ma dal momento che si può parlare di necessità solo in relazione a condizioni determinate, dunque da determinati punti di vista e da determinate prospettive, l'universo della metafisica si frantuma in una pluralità di immagini del mondo. Il tribunale della ragione giudica secondo alcuni princípi fondamentali implicanti la propria autonomia e la propria aspirazione all'unità e alla sistematicità, ma in base ad una pluralità di codici possibili.

Nella seconda edizione della Critica della ragion pura (1787), Kant imposta il problema della deduzione delle categorie come problema della possibilità logico-trascendentale - e non psicologica - di una unificazione in generale. Il fondamento dell'unificazione è rappresentato dall'unità in quanto possibilità: «Das: Ich denke muss alle meine Vorstellungen begleiten können» 40.

Il molteplice della sensibilità, per poter essere oggetto di una conoscenza, esige una unificazione. L'unificazione, a sua volta, richiede una unità che funga da suo substrato. Questa unità, d'altra parte, non può essere fornita a parte objecti: è infatti impossibile dimostrare che ciò di cui facciamo esperienza è in se stesso unitario e coerente, anche perché l'esperienza di oggi può essere smentita dall'esperienza di domani. Pertanto, questa unità deve essere ricercata a parte subjecti, nel rapporto fra l'autocoscienza dell'io penso e tutte le altre rappresentazioni. «Ogni molteplice dell'intuizione ha una relazione necessaria con l'io penso nel medesimo soggetto in cui questo molteplice si incontra» 41. Tale relazione è espressa dal muss begleiten können.

Schopenhauer criticava questo enunciato dicendo che ritirava con una mano quanto dava con l'altra 42: si

trattava, per lui, di un enunciato modalmente ambiguo, in quanto nello stesso tempo apodittico (cioè affermato incondizionatamente come necessario: “deve”) e problematico (cioè esprimente una mera possibilità). Sembra, cioè, che la tesi di Kant sia passibile di due interpretazioni differenti, a seconda che si accentui il muss o il können. Nel primo caso essa avrebbe il senso di “l'unità della conoscenza sensibile secondo le categorie è assicurata dal fatto che l'io penso accompagna necessariamente ogni mia rappresentazione”. Nel secondo caso significherebbe invece “l'unità della conoscenza secondo le categorie è assicurata dal fatto che l'io penso può accompagnare ogni mia rappresentazione”.

La prima interpretazione fonda, alla maniera della metafisica tradizionale, l'unità della conoscenza sulla necessità incondizionata della presenza dell'autocoscienza. Se accettiamo questa interpretazione, il compito della deduzione sarebbe superfluo: non abbiamo bisogno di legittimare l'uso delle categorie se l'io penso è sempre necessariamente presente, bell'e strutturato, assieme a ogni nostra rappresentazione. Nel secondo caso, invece, ne seguirebbe che si ha unità della conoscenza secondo le categorie solo qualora sia possibile che l'io penso accompagni ogni mia rappresentazione. Ma Kant usa il poco usuale costrutto “deve poter”. L'unità dell'autocoscienza, cioè del substrato entro il quale la validità delle categorie può essere discussa e legittimata, non è una necessità in senso assoluto, ma una necessità condizionata: perché si dia il conflitto fra scettici e dogmatici, perché si ponga il problema stesso della legittimazione, questa unità deve essere possibile. In termini semplici: se vogliamo riflettere sulla nostra conoscenza, la sua unità autoconsapevole deve essere possibile. Pertanto, condizionatamente, per avere unità dell'autocoscienza, deve essere possibile che l'io penso accompagni ogni mia rappresentazione. Il “deve” esprime, insomma, una necessità relativa alla possibilità dell'unità dell'autocoscienza, e non assoluta 43. Ora, a che condizione è possibile che l'io penso

accompagni ogni mia rappresentazione?

Non basta, ovviamente, avere della rappresentazioni: in questo caso, la coscienza potrebbe ridursi al teatro inconsapevole su cui si susseguono le percezioni; ma non si potrebbe dire che queste rappresentazioni sono unificate dal fatto che tutte passano, una dopo l'altra, su questo palcoscenico. Occorre l'attività

39. Ivi, p. 88.

40. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 131 (trad. it. p. 162). P. Chiodi, La deduzione cit., pp. 232- 68. 41. Ibid.

42. A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, in Id., Sämtliche Werke, Brockhaus, Leipzig 1938. Bd. I, p. 535 (trad. it. di P.

Savj-Lopez e G. De Lorenzo, Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 584).

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