• Non ci sono risultati.

Paziente in stato vegetativo permanente e decisioni di fine vita: il caso Englaro

Sul tema sinora esaminato ulteriori aspetti di complessità emergono laddove si abbia riguardo alla situazione in cui versano pazienti in stato vegetativo permanente; tale complessità è determinata, a sua volta, da una molteplicità di fattori, tra i quali posizione preminente riveste senza dubbio la questione dell‟ambito di liceità delle cc. dd. decisioni di fine vita, in particolare allorché siano qualificabili in termini di scelte eutanasiche.

Alla forma, in verità ancora incompiuta, assunta dalla tutela della volontà che si estrinsechi in un‟opposizione alle cure proposte si aggiungono altri nodi irrisolti per i pazienti in stato vegetativo: anzitutto, la problematica qualificazione delle attività di alimentazione e di idratazione artificiali in termini di veri e propri trattamenti medici, che possano essere soggetti a rifiuto ovvero configurarsi come accanimento terapeutico già ad un apprezzamento oggettivo; il legame istituito tra valore legittimante del consenso all‟intervento sul corpo e carattere personale, attuale e pienamente consapevole del consenso stesso; lo statuto incerto delle direttive anticipate; l‟ampiezza del potere di cura e sostitutivo di un terzo in rapporto alla problematicità della decisione da assumere.

Il principio di autodeterminazione su cui si fonda la tematica del consenso informato è sintomatico di una signoria, di un dominio sulle proprie decisioni restituito alla persona; una signoria che acquisisce rilievo peculiare quando la persona di cui si tratta è un soggetto incapace, per il quale appare auspicabile l‟adozione di strumenti di protezione proporzionati e non stigmatizzanti sul piano sociale, che assicuri quella partecipazione effettiva alla vita della propria comunità, da realizzare anche attraverso la manifestazione di

225 Tuttavia, di contrario avviso è parte della dottrina. Cfr. A. GENNARI, La protezione dell’autonomia del disabile

psichico nel compimento di atti di natura personale, con particolare riferimento al consenso informato all’atto medico, in Familia,

4/2006, 733 ss., secondo il quale così opinando si finirebbe con l‟attribuire valore legale al testamento biologico attraverso l‟interpretazione di una disciplina dettata a tutt‟altro fine.

226 Sul punto si rivela particolarmente interessante l‟analisi di G. FERRANDO, Il beneficiario, in S. PATTI (a cura di), L’amministrazione di sostegno cit., 48.

117

un potere di scelta su situazioni personali che lo riguardino. È indubbio che in casi come questi il problema principale sia quello della modalità di manifestazione del volere da parte dell‟incapace, in quanto se sinora si è cercato di dimostrare che, per quanto possibile, la volontà della persona deve essere ascoltata e conseguenzialmente rispettata, è perché appare auspicabile che le uniche situazioni in cui il soggetto sarà sostituito nella manifestazione del consenso/dissenso siano esclusivamente quelle in cui l‟esigenza della sostituzione si palesi nitida in tutta la sua drammatica evidenza. Ed è proprio in queste situazioni che viene in rilievo il volere manifestato in precedenza, quando si era in condizione di piena capacità e non si versava (ancora) in quella situazione clinica che impone poi l‟intervento o trattamento rispetto al quale andrebbe manifestato il volere.

Inevitabilmente, in tali peculiari circostanze, la signoria restituita alla persona entra in crisi perché viene a collidere con le tematiche di fine – vita che, solo in alcuni ordinamenti, hanno trovato riscontro in una disciplina positiva. Infatti, quando la decisione di non sottoporsi al trattamento sanitario, in precedenza espressa, attraverso quelli che si denominano variamente living wills, testamenti biologici, o direttive anticipate ma che designano la medesima realtà fattuale, si traduce in una decisione di morte la problematica si complica ovunque perché non è più solo il diritto ad essere coinvolto nella tematica, ma anche la religione, la filosofia, la bioetica. Sicché viene nuovamente in rilievo la scelta dell‟approccio (preferibile) con cui il legislatore deve affrontare una certa problematica: diniego, diritto che attende, autonomia amministrata.

La Francia, al riguardo, ha optato per l‟approccio dell‟autonomia amministrata227:

piuttosto che precludere l‟esercizio di un diritto perché le sue estrinsecazioni concrete potrebbero confliggere con valori altrettanto fondamentali dell‟ordinamento, sceglie di regolamentarlo introducendovi dei limiti che ne arginano i rischi di abuso. La Loi Leonetti del 2005 ha disciplinato, come di seguito si vedrà più approfonditamente, il testamento biologico, stabilendo che il medico deve tener conto per un massimo di tre anni delle direttive anticipate per ogni decisione sui trattamenti del paziente, sempre che il documento sia stato redatto per iscritto e conservato dal medico curante o presso il luogo di degenza. La Germania è nella fase del diritto che attende: il testamento biologico è ancora sulla carta ma giova sottolineare l‟importanza di una decisione del 2003 con cui la Corte federale tedesca228 ne ha sancito la legittimità, stabilendo che le direttive anticipate sono vincolanti

se corrispondono esattamente alla situazione clinica concretamente verificatasi.

227 Il tema sarà affrontato in maniera analitica nel par. III.2, A). 228 Cfr. infra par. III.2, A).

118

L‟Inghilterra, con il Mental Capacity Act del 2005, ha introdotto una normativa ispirata al principio, di conio giurisprudenziale, del best interest229, regolamentando le modalità

attraverso cui possono essere assunte decisioni relative alla sfera patrimoniale e personale di soggetti che versino in una situazione di inability to make decision. In particolare, il lasting power

of attorney permette ad un soggetto di conferire ad altro l‟autorità di agire in sua vece, anche

nelle decisioni concernenti la salute ed il benessere psicofisico del mandante. Invece, le

advance decisions to refuse treatment consentono al soggetto maggiorenne e capace di esprimere

il rifiuto anticipato ad uno specifico trattamento medico230. Ancora una volta l‟approccio è

quello dell‟autonomia amministrata, per quanto appaia massimamente valorizzata la volontà e quindi l‟autonomia del soggetto, sostituito nella decisione solo quando non abbia provveduto a nominare il donee.

In Italia vi è un vuoto legislativo, una lacuna, che spinge l‟interprete a cercare di colmarla. In tal senso va letto il recente intervento della Corte di Cassazione che, nell‟ormai celebre sentenza Englaro231, ha avuto la “capacità di leggere il diritto per quello che è e non per quello che si vorrebbe che fosse o non fosse, assumendosi la responsabilità che è propria del giudice che di fronte a questioni difficili non le sfugge rifugiandosi in artificiose costruzioni e negando quella giustizia che i cittadini chiedono”232. Tuttavia, non da tutti appare condivisa la lettura interpretativa proposta dalla

S.C.: in particolare, si è autorevolmente sottolineata la contraddizione, insita nel sillogismo proposto, della sintesi rispetto alla tesi ed antitesi da cui si muove233.

La Cassazione sancisce a chiare lettere il diritto al rifiuto di cure da parte del soggetto capace, fondato sulle stesse norme che radicano il diritto al consenso, precisando che l‟autodeterminazione terapeutica del paziente non deve incontrare un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene – vita. Tuttavia, la tematica si complica quando il

229 Il riferimento è al noto Caso Bland, in cui la House of Lords espresse per la prima volta il principio del

best interest. Cfr. Airedale NHS Trust vs. Bland AC 789 – Estratti dei pareri dei giudici tradotti in italiano in Bioetica,

1997, pp. 305 e ss.

230 Ove si tratti di un trattamento di sostegno vitale, saranno necessarie, in particolare, la forma scritta, la presenza di un testimone, nonché l‟esplicitazione della consapevolezza che il rifiuto del trattamento implica un rischio per la sua sopravvivenza

231 Cfr. Cass. civ. n. 21748/2007.

232 Sono parole di Stefano Rodotà, in La vita e le regole, cit., p. 247.

233 Cfr. P. STANZIONE – G. SALITO, Il rifiuto “presunto” alle cure: il potere di autodeterminazione del soggetto

incapace. Note a margine di Cass. civ. 16 ottobre 2007, n. 21748: gli Autori sottolineano che posta la necessità

di assicurare parità di trattamento a soggetti capaci ed incapaci ed affermata la vincolatività del volere espresso dal paziente capace (consenso/dissenso), la conseguenza logica avrebbe dovuto essere quella di affermare la vincolatività in presenza di prova certa delle volontà espresse da chi è poi progressivamente o improvvisamente scivolato in uno stato di incoscienza che gli impedisce di ripeterle. Per contro la S.C. condiziona il rispetto del rifiuto di cure dell‟incapace a due presupposti, l‟uno l‟accertamento rigoroso della condizioni vegetativa irreversibile, l‟altro l‟incompatibilità di tale condizione con la rappresentazione di sé sulla quale la persona aveva costruito la propria vita fino a quel momento e con il modo personale di intendere la volontà individuale.

119

soggetto di cui si tratta è incapace di manifestare il proprio volere: è legittimo che il tutore o altro soggetto in tali situazioni chieda di interrompere cure reputate “inutili” e “sproporzionate”, facendosi portavoce di una volontà in precedenza manifestata dal paziente? Come va accertata eventualmente l‟esistenza di una volontà di rifiutare le cure? Al riguardo, possono profilarsi varie situazioni: in primis, se il soggetto si trova in una condizione di totale incapacità e non esistono dichiarazioni anticipate di trattamento, il medico in situazioni di emergenza (stato di necessità) avrà il dovere di intervenire avendo di mira il miglior interesse terapeutico del paziente. Al di fuori di questi casi, il paziente torna a vestire il suo ruolo di protagonista nell‟alleanza terapeutica col medico: ma l‟effettività dell‟informazione, presupposto della manifestazione di un consenso autentico, ed il coinvolgimento reale del paziente nelle scelte terapeutiche che lo riguardano possono essere posti in pericolo, dal momento che l‟incapace (l‟infermo, l‟anziano) può non essere in condizione di partecipare coscientemente a questo momento più o meno drammatico della sua esistenza. Potrà allora il tutore svolgere il ruolo di referente soggettivo del medico nelle scelte che riguardano l‟incapace? In base alle argomentazioni già esposte in precedenza, ciò deve essere possibile per colmare una lacuna, ridurre una diversità che altrimenti si tradurrebbe in un‟odiosa discriminazione. Vale la pena di ribadire che il tutore non decide al posto dell‟incapace o per l‟incapace ma con lui, ossia nel suo interesse, ricostruendone o contribuendo a ricostruirne la presunta volontà: in tale prospettive, l‟utilità delle direttive anticipate si palesa in tutta la sua evidenza, permettendo al medico di non allontanarsi troppo dai convincimenti del paziente, che attraverso quel documento ha cercato di assicurarsi un certo margine di autodeterminazione auspicandone il fedele rispetto. L‟intervento del tutore non intaccherà la sostanza della decisione della persona, ma ne completerà e ne esprimerà il contenuto, avuto riguardo alla volontà espressamente manifestata in precedenza dal soggetto poi divenuto incapace, nonché alla personalità e alle convinzioni dello stesso.

Nello svolgimento del proprio ufficio al tutore non è preclusa una valutazione, da compiersi sotto il controllo del giudice, volta a considerare le condizioni attuali in cui si attua la sopravvivenza del paziente, la loro dimensione per molti versi innaturale e la compatibilità con l‟identità espressa dal soggetto prima dell‟episodio traumatico che ha compromesso in modo irreversibile la sua capacità di intendere e di volere. Questa apertura costituisce il passaggio più difficile della motivazione ed è al contempo quello decisivo: richiede, infatti, un confronto diretto con il vero nucleo problematico del caso, ovvero l‟ammissibilità della sostituzione nelle decisioni rivolte non già a consentire bensì a rifiutare

120

le cure, per la gravità delle conseguenze che ne discendono. Anche l‟interruzione e la non somministrazione delle cure divengono possibile oggetto di una decisione assunta nel migliore interesse e rispettando la volontà del soggetto incapace; l‟interprete è chiamato volta per volta a ricostituire la regole operanti nei casi concreti, nonostante le difficoltà di carattere tecnico – giuridico ed ancor più la drammaticità della vicenda sul piano etico.

Secondo nodo problematico affrontato dalla Suprema Corte è quello afferente il rapporto tra atti personalissimi e spazio di esplicazione della funzione sostitutiva da parte del rappresentante legale. L‟espressa negazione della possibilità di un esercizio mediato dell‟autonomia in relazione a diritti di carattere personale aveva condotto in passato ad un diniego di fatto di tutela: nella sentenza in commento la facoltà del tutore di assumere la decisione in luogo dell‟incapace è ricondotta all‟esercizio del potere di cura: invero, se in relazione agli atti personalissimi è escluso il potere di rappresentare, la tutela dei diritti che vi sono connessi richiede o di consentirne l‟esercizio all‟incapace, qualora egli conservi capacità di discernimento sufficiente a comprendere la portata dell‟atto, oppure di affidarla al tutore234 .

Invero, la puntuale ricostruzione delle basi normative e dei presupposti teorici del consenso informato non deve condurre a predicarne la necessaria personalità ed attualità quali caratteri indispensabili ed ineludibili: la prima caratteristica, infatti, avrebbe la conseguenza di determinare l‟insurrogabilità della volontà del paziente e sarebbe incompatibile anche con la consueta applicazione degli istituti di protezione dell‟incapace praticata nell‟ambito della cura della salute; mentre, la seconda, che normalmente opera rispetto ad un paziente che sia capace di intendere e di volere, negli altri casi non può che essere riferita alla decisione proveniente dal soggetto al quale è demandata in via sussidiaria. Proprio la valorizzazione del significato culturale del principio del consenso nel rapporto terapeutico e l‟articolata descrizione delle sue modalità applicative anticipano la ricerca di una soluzione per la condizione di incapacità del paziente che conduca al ripristino del dualismo nel processo di elaborazione della decisione medica. Ove non si perseguisse tale opzione ermeneutica, le alternative prospettabili sarebbero quella di affidare la scelta alla discrezionalità del professionista sanitario sulla base del suo apprezzamento oggettivo oppure di considerare indecidibile la domanda sulla prosecuzione dell‟intervento di

234 Sull‟opportuna distinzione tra potere di cura e potere di rappresentare si è soffermata in dottrina in relazione a questo caso G. FERRANDO, Stato vegetativo permanente e trattamenti medici: un problema irrisolto, in

121

sostentamento per i pazienti in stato vegetativo e quindi, in definitiva, la loro condizione inafferrabile dal punto di vista giuridico.

Il tutore è legittimato, pertanto, a richiedere la sospensione dell‟alimentazione e dell‟idratazione artificiali: tuttavia, a tal fine, sarà chiamato a ricostruire la volontà del soggetto nel cui interesse assume la decisione. Al riguardo, è possibile identificare tre criteri potenzialmente idonei per favorire l‟emersione della volontà del soggetto incapace: 1) oggettivo, il quale presuppone la dimostrazione rigorosa del rifiuto del paziente se egli solo avesse immaginato il sopraggiungere dello stato vegetativo; 2) parzialmente oggettivo, che subordina la ricostruzione della volontà negativa alle cure all‟esistenza di un principio di prova; 3) puramente oggettivo, che in nome del best interest del paziente, legittima la sospensione delle pratiche mediche allorché i dolori e le sofferenze derivanti dal trattamento artificiale di mantenimento in vita risultino superiori rispetto ai benefici connessi.

La S.C., nella recente sentenza, ancora l‟accertamento del precedente volere del soggetto divenuto incapace a “chiari, univoci e convincenti elementi di prova non solo alla luce di

precedenti desideri e dichiarazioni dell’interessato ma anche sulla base dello stile e del carattere della sua vita, del suo senso dell’integrità e dei suoi interessi critici e di esperienza”; l‟obiettivo è quello di

contemperare la discrezionalità con il dato oggettivo, il rischio quello di distinguere nei casi concreti vite degne di essere ancora vissute e vite che meritano di estinguersi.

Vale sottolineare che la pronuncia in esame dimostra un uso consapevole della comparazione giuridica: infatti, per inquadrare una materia non regolata compiutamente dalla legge, ma disseminata di sporadici riferimenti normativi, spesso di derivazione comunitaria o comunque posti a livello sovranazionale, ricorre ad un‟ampia rassegna delle soluzioni legislative o giurisprudenziali proposte in altri ordinamenti. In questo ricco quadro di richiami a discipline e precedenti stranieri è possibile individuare le matrici dei limiti posti ai poteri del tutore: invero, il vincolo di tipo oggettivo rimanda alla nozione di

best interest, come elaborata dalla Corti inglesi, la quale impone di ricercare sempre una

soluzione che risponda al miglior interesse dell‟incapace secondo l‟apprezzamento dei medici, sindacabile dal giudice; il criterio di tipo soggettivo appare, viceversa, riconducibile al substituted judgment test, cui ricorrono soprattutto le corti nordamericane235.

Nel riprendere questi modelli – entrambi dibattuti negli ambienti di origine per la loro parzialità da un lato e per il carattere di artificiosità dall‟altro – la sentenza opta per una

235 In re Quinlan, 355, A.2d 647 (1976); Cruzan v. Director, Missouri Department of Health, 497, U.S., 261, 111 L. Ed. 2d 224 (1990). Quest‟ultima decisione è pubblicata anche in Foro it., 1991, IV, c. 66.

122

combinazione tra gli stessi piuttosto che per la scelta di un unico criterio decisivo per guidare la scelta del tutore. Ne deriva un giudizio complesso che, proprio per la pluralità di fattori tenuti in considerazione, rivela maggiori possibilità di mirare realmente al best interest del paziente.

Entrambe le componenti nelle quali deve articolarsi lo sforzo valutativo e interpretativo del tutore sono da reputarsi necessarie, anche se nel singolo caso concreto potrebbero finire col non rivestire un rilievo paritario. La disattivazione dei presidi terapeutici è, in buona sostanza, affidata al riscontro pratico della ricorrenza di una situazione di accanimento terapeutico: in merito, giova evidenziare che la Corte di Cassazione non si arresta di fronte alla difficoltà di definire i contenuti di quella che è una nozione extragiuridica, ma contribuisce a specificarla indicando condizioni oggettive che, nella loro gravità ed irreversibilità, consentono di connotare come una forma di accanimento protrarre la vita artificialmente; tuttavia, la S.C. non ammette di affidare al puro accertamento di siffatta dimensione esistenziale la scelta in ordine alla sospensione del sostegno artificiale bensì a tale verifica sceglie di affiancare l‟ulteriore elemento, quello soggettivo. Trattasi di una soluzione più affidabile per più di una ragione, prima fra tutte la valorizzazione dell‟esigenza di non consentire una decisione che sia basata esclusivamente sull‟apprezzamento del miglior interesse del paziente: se ad essere presa in considerazione fosse solo la situazione in cui versa concretamente il malato, a prescindere dalla sua identità di persona, a parità di condizioni oggettive l‟esito del processo di decisione dovrebbe essere lo stesso, cosicché il compito del tutore ne uscirebbe affatto sminuito, mentre assumerebbe rilievo preponderante il giudizio medico sulla ricorrenza di un determinato stato clinico che, una volta che sia compiutamente definito, potrebbe evocare la qualifica di accanimento per ogni intervento diretto a prolungarlo. Invero, ove si creasse una corrispondenza tra obiettive condizioni di vita e giudizio sulla loro accettabilità o meno ovvero tra la natura invasiva del trattamento necessario a conservarle e la valutazione di contrarietà alla dignità della persona, si correrebbe il rischio di innescare automatismi potenzialmente idonei a contraddire sia la tutela della personalità del malato sia il rispetto del ruolo di cura attribuito al tutore. Così, eventuali direttive anticipate non rivestirebbero un peso decisivo, se orientate in senso opposto a quello verso cui viene indirizzato l‟esame obiettivo; coloro che si prendono cura del soggetto incapace finirebbero così per vedere ridotta la propria partecipazione al processo decisionale fino all‟ipotesi estrema in cui questa sia assunta

123

contro la loro volontà o con una scelta attributiva qualora più soggetti che assolvono ai compiti di assistenza materiale abbiano opinioni contrastanti236.

A tal proposito vale considerare che nell‟ambiente anglosassone, dove le Corti fanno uso del best interest, approccio favorito rispetto al substituted judgment test, il recente intervento legislativo (Mental Capacity Act del 2005) accoglie il primo schema per ogni rilevazione di decisioni riguardo ai soggetti incapaci di intendere e di volere o, più precisamente, di decidere per se stessi (section 3). Tra le “circostanze rilevanti” cui guardare per ricercare il miglior interesse della persona vengono indicati i suoi desideri e sentimenti presenti e passati, le convinzioni ed i valori personali, nonché ogni altro fattore che la persona interessata avrebbe verosimilmente preso in considerazione nella decisione: elementi che, combinati tra loro, consentono di formulare un‟ipotesi sulla decisione che il malato avrebbe assunto per sé ove fosse stato capace, piuttosto che valere ad esprimere un giudizio obiettivo sulla natura e l‟utilità del trattamento somministrato e sul carattere proporzionato rispetto ai benefici che se ne ottengono (section 4)237. Invero, sembra che