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UN PERCORSO FORMATIVO E FORMATORE L’autobiografia può essere interpretata come un

La “con-ricerca” sul campo per la formazione continua

UN PERCORSO FORMATIVO E FORMATORE L’autobiografia può essere interpretata come un

pon-te e come un filtro tra presenpon-te, passato e futuro, non risponde primariamente a nessuna esigenza di mera descrizione del passato in quanto la memoria ricostru-isce il passato in funzione dell’immagine globale che il soggetto ha di sé e nel momento presente lo sovra-de-termina proiettandolo verso il futuro.

58 A. Alberici (a cura di) Educazione in età adulta: percorsi biografici nella ricerca e nella formazione, (2000), Armando Editore, Roma.

Demetrio sostiene che “l’autobiografia non è soltanto un tornare a vivere ma un tornare a crescere per sé stes-si e gli altri, è un incoraggiamento a continuare a rubare giorni al futuro che ci resta e a vivere più profondamen-te quelle esperienze che, per la fretta e la disatprofondamen-tenzione degli anni cruciali, non potevano essere vissute con la stessa intensità”59.

L’esperienza viene ricostruita non solo per coglierne il senso ma anche per interpretarlo ed attribuirgli nuovi significati, ma per fare ciò è necessario distanziarsi da essa.

Nella vita quotidiana ricordando il passato gli si at-tribuisce sempre lo stesso significato prevalente in quel momento in cui si è verificato, non si ricostruiscono mai le tappe che hanno portato a quel risultato finale.

Una storia di vita, costruita un’intervista o un’esposi-zione scritta focalizzata, disinnesca questo meccanismo e induce a vedere nuovi significati sotto una luce nuova sia in funzione del presente che in proiezione futura.

Un’esperienza dall’esito negativo può essere maturata attraverso un processo che ha visto un dispiegamento di risorse di un certo tipo (che il soggetto doveva pure avere per poterle dispiegare), passando per tappe in-termedie positive il cui valore si è riaffacciato in altre circostanze senza che noi ne avessimo coscienza. Allo stesso modo, un’esperienza può essere positiva non solo per il suo risultato finale ma anche per il valore delle tappe intermedie o per la qualità e l’intensità delle competenze emotive messe in campo (Goleman 1996)60.

59 D. Demetrio in A Alberici, (2000), op. cit.

60 D. Goleman, Intelligenza emotiva, (1999), Bur Rizzoli, Milano.

Il sociologo Franco Ferrarotti, tra i principali teo-rizzatori dello strumento storia di vita, introduce una valutazione epistemica del lavoro del ricercatore che si pone nella prospettiva biografica: “[i racconti autobio-grafici] coinvolgono l’ atteggiamento morale metateori-co del ricercatore.

La loro raccolta esige la caduta e il superamento dell’asimmetria tra ricercatore e situazione umana in-dagata. Ho imparato che il ricercatore è sempre dentro, non fuori, dalla ricerca. Ho imparato, in altre parole, che il ricercatore è sempre, anche lui, un ricercato.

Nel momento in cui interroga, si auto-interroga.

La ricerca cessa di essere una comunicazione a una sola via ovvero un procedimento essenzialmente auto-ritario in cui c’è chi agisce e chi subisce.

Si trasforma in dialogo. Si fa «con-ricerca»”.61

In linea con questo concetto, le informazioni vengo-no costruite nel corso di un processo di ermeneutica, in cui la particolarità e l’unicità del fenomeno si con-frontano con le similitudini del reticolato di relazioni ed azioni riscontrabili nel vissuto degli attori del feno-meno stesso.

Questo consente di osservare “in modo empatico” il fenomeno scelto, predisponendo alla riflessione teorica e lasciando una flessibilità che permette al ricercatore di ritornare sulle stesse scelte di pensiero.62

L’approccio autobiografico, messo in atto empatica-mente, in condizione di vicinanza e comprensione delle

61 F. Ferrarotti, L’ultima lezione. Critica della sociologia contemporanea, (1999), Laterza, Roma-Bari.

62 R. Bichi, L’intervista biografica. Una proposta metodologica, (2002), Vita e Pensiero, Milano.

narrazioni, permette attraverso una riflessione sociolo-gica che tiene conto delle singolarità culturali di inter-rogarsi in prima persona ed arricchirsi a propria volta delle appartenenze delle storie di vita.

È un esercizio che favorisce una riflessione personale come sperimentazione di un agire professionale in costru-zione, generando uno sguardo più attento verso l’altro in funzione della nostra stessa capacità riflessiva d’in-terpretazione di percorsi formativi.

Inoltre, nelle esperienze personali arriviamo a va-lutare la nostra esperienza sociale cogliendo l’altro in quanto esperienza di vita.

Questo percorso formativo e formatore traduce la nozione di coscienza sociale, che va conseguita non come luogo di categorie valoriali e interpretative ma come esperienza lucida della propria personale traiettoria sociale, delle posizioni e delle prese di posizione nei contesti sociali e relazionali specifici,o ancora come di-sposizione a considerare gli altri in quanto espressioni di esperienze sociali piuttosto che oggetti sociali. Inte-ragendo con l’altro attraverso l’ascolto attivo è possibile cogliere una correlazione tra individui e società non de-terminata a priori ma in armonia con la capacità rifles-siva dell’individuo di interiorizzare e filtrare il sociale proponendo delle rappresentazioni originali della sua esperienza sociale63.

63 G. Gargano, in M. Corsale, 2010, Op. Cit.

Conclusioni

In una società complessa come quella in cui vivia-mo il fenomeno sociale va osservato e allo stesso tempo

“scoperto” progressivamente.

I tempi attuali ci pongono di fronte a nuove sfide nell’interpretazione di contesti nei quali non è possibile fare previsioni esatte, in alcuni momenti siamo una sor-ta di nuovi pionieri alle prese con una trasformazione della struttura sociale che sta assumendo una connota-zione sempre più Smart.

Diventa, così, maggiormente indispensabile modifi-care alcuni meccanismi più consolidati di pratica socia-le per realizzare compiti educativi rivolti all’individuo al fine di aiutarlo a declinare la propria vita in una di-rezione costruttiva che non vesta più i panni rigidi di destino ma quelli flessibili di progetto.

Il sociologo, come professionista per eccellenza im-pegnato sul campo, deve essere in grado di moltiplica-re i luoghi di riflessione, irrobustimoltiplica-re l’amoltiplica-rea dei rapporti comunicativi significativi, realizzare spazi di ricerca che consentano di osservare i problemi per cercare so-luzioni e fertilizzare il principio dell’intenzionalità edu-cativa, per creare strumenti utili a padroneggiare un presente sempre più incostante e a ridimensionare il disagio che si origina dalla perdita di connessione col contesto di riferimento.

Nelle società contemporanee i progressi tecnologici, le migrazioni, le trasformazioni politiche ed economi-che si stanno verificando a una velocità mai vista pri-ma, quindi è probabile che intere generazioni diventino

adulte in modo radicalmente diverso da quello della loro infanzia e dovranno quindi subire diversi processi di ri-socializzazione.

Di fronte a ritmi di cambiamento così sostenuti, l’at-titudine del sistema culturale a rendere possibile la pro-duzione di senso entra in crisi e diventa difficile per gli attori sociali trovare riferimenti.

Questo diventa ancora più grave quando è la sfera culturale stessa ad attraversare una profonda crisi.

Infatti, all’inizio della modernità la narrazione “re-ligione” ha cessato di essere l’unico riferimento per in-terpretare la realtà, le narrazioni “scienza” e “politica”

hanno acquistato sempre più importanza fino ad essere in grado di orientare le azioni sia delle élites politiche che delle masse alimentando la convinzione di un pro-gressivo miglioramento del mondo.

Tutto ciò non si è verificato ed oggi l’ottimismo sem-bra essere una scelta coraggiosa se non irrealistica, da quella “fine delle grandi narrazioni” che ha caratteriz-zato l’era postmoderna teorizzata da Lyotard già nel 1979, nessun’altra è stata ancora in grado di prendere il loro posto, con conseguente crisi delle principali fonti per dare senso all’essere nel mondo.

Il disagio che ne deriva può mostrare sintomi diver-si, anche collettivi, come ad esempio i tentativi violenti di afferrare gli ultimi scampoli del fascino delle grandi narrazioni dei movimenti basati su religione, razza o nazionalismo64.

Il disagio sociologico oggi ci mostra come le proteste per rivendicare i propri diritti assumono spesso tratti

64 M. Corsale, 2010, op. cit.

apertamente sovversivi, altre volte possono assumere una forma più soft, mimetizzata nella vita quotidiana, con l’ adozione di atteggiamenti contrari alle norme e arrivando a negare anche l’esistenza di un virus che sta tenendo sotto scacco l’intera umanità immergendola costantemente in un pericolo sempre presente, ma invi-sibile e per questo difficile da percepire realmente come tale.

La pandemia che si è verificata in questo 2020 ha portato il genere umano ad interrogarsi su grandi temi riguardanti la vita, uno di questi è il tema dell’Apoca-lisse inteso come fine del mondo che potrebbe essere intesa come “crisi della presenza”, rischio radicale di non esserci nel rapporto Io- mondo all’interno di orizzonti storico-culturali costantemente minacciati dal pericolo di crollare.

Che il mondo possa finire è un tema antico quanto il mondo, si manifesta ciclicamente in maniera diver-sa nelle varie epoche storiche che si susseguono e negli ambienti storici, sviluppando dinamiche differenti tra i gruppi sociali e gli individui e generando nuove forme di coerenza culturale in base all’importanza che gli vie-ne data e all’emotività con cui è vissuto.

In realtà, se di apocalisse si deve parlare, è più oppor-tuno riferirsi a quella che Ernesto De Martino chiama Apocalisse culturale: le sue diverse declinazioni all’interno delle ideologie, delle religioni, della politica ma anche nelle varie forme dell’arte si riflettono nei rapporti socia-li, evidenziando le contraddizioni, principali o seconda-rie all’interno delle vaseconda-rie formazioni sociali esistenti.

Si tratta di una crisi radicale di valori che evidenzia, ancora una volta, i limiti della cultura in un dato

mo-mento storico e che nell’individuo si declina, a livello psicologico come un crollo del Sé che può assumere an-che carattere psicopatologico.

Le settimane di lockdown, infatti, hanno causato uno stato di disagio mentale in molte persone, le quali sono state ostaggio di ansie e paure ed hanno aggravato ul-teriormente la condizione patologica di molte persone che oltre al disagio vivono proprio una malattia.

Tutto questo, ovviamente, si ripercuote nelle intera-zioni sociali all’interno della società.

Al livello di analisi etnografica e storico-culturale, potremmo elencare sotto questo tipo di apocalisse tutte quelle tematiche di fine del mondo, catastrofiche o otti-miste, che assumano consistenti dimensioni collettive.

In entrambi i casi l’immagine che ne esce sembrerebbe quella di un’opposizione speculare in cui i casi di crisi della presenza al mondo si configurano entro i termini spazio-temporali di un disagio della civiltà, cui non si riesce ad opporre alcuna forma di soluzione culturale:

ed è allora che si percepisce la fine.

Non potrebbe qui essere meglio reso il vissuto di fine del mondo come vissuto della perdita della intersog-gettività dei valori, la progettualità della quale è ciò che costituisce il carattere fondamentale di normalità del-la mondanità, il suo appartenere ad una prospettiva di operabilità socialmente e culturalmente condizionata.

Senza dubbio il divenire culturale conosce momenti critici in cui parte del suo senso, cioè della sua direzio-ne e del suo significato, si smarrisce per sempre: questo avviene quando non può essere più progettato, quando nessuna spazialità è percorribile e la presenza corre ver-so il nulla.

Ma nella misura in cui il divenire resta «culturale», e quindi “normale”, esso riacquista prima o poi quella flui-dità mondana che fa sostituire il «non c’è più nulla da fare»

con sistemi protettivi e reintegrativi che l’individuo, se-condo la sua forza, utilizza per fare qualche cosa di valido.

Come rischio antropologico permanente, il finire è sempli-cemente il rischio di non poter essere in nessun mondo culturale possibile, il perdere la possibilità di farsi presen-te operativamenpresen-te al mondo: la cultura umana in generale è l’esorcismo solenne contro questo rischio radicale.

In queste circostanze diventa fondamentale una socio-logia che sia al tempo stesso analisi del costume apocalit-tico e diagnosi di un morbo culturale 65.

La narrazione si potrebbe ben prestare a queste funzio-ni in quanto può fotografare di volta in volta i tempi che cambiano, lasciandoci dei fotogrammi di “ciò che è stato”

e fornendo, eventualmente, una seconda occasione per ca-pire o usare costruttivamente qualcosa che non si è stati in grado di cogliere appieno in un momento precedente.

Se è vero che la mente viaggia per schemi culturalmen-te orientati che il nostro cervello utilizza per dare risposculturalmen-te immediate a ogni situazione, è altrettanto vero che una forma di disagio può avere origine da una svista lasciata indietro lungo il percorso.

In tutte le situazioni della vita in cui ci sentiamo colpiti, angosciati e smarriti, l’improvvisa presa di coscienza di un chiaro sapere, sia questo in realtà vero o falso, possiede in sé già una efficacia rasserenatrice e il sentimento scate-nato in noi da quelle situazioni perde la sua forza già per il solo fatto che il giudizio su di esse diventa chiaro: come

65 E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, (a cura di Clara Gallini), (2002), Einaudi, Torino.

al contrario nessuno sgomento è maggiore di quello che si scatena davanti ad un pericolo indeterminato.

Il mondo concreto dell’uomo è sempre un mondo stori-co all’interno di una tradizione, che sussiste in ogni tempo mediante la società e la comunità, come l’uomo vive nel mondo e come il mondo stesso gli appare diverso è quindi da indagare in una prospettiva storico-sociologica66.

Come ci insegna Bauman, anche i nostri schemi men-tali diventano liquidi man mano che il mutamento si fa strada, questo dinamismo causa delle scintille che porta-no alla genesi della riformulazione culturale.

In linea di principio, la comunità è categorica e coerciti-va, in quanto determina e definisce previamente il casting sociale dell’individuo, l’identità invece, si presume sia li-beramente scelta, una sorta di «fai da te». Questo ricollo-camento concettuale mira a riconciliare le (inconciliabili?) sfide dell’«appartenenza» con l’autodefinizione abbinata all’autoaffermazione.

È da questo che derivano l’inclinazione ai conflitti e le complesse e dialettiche dinamiche che si instaurano tra i diversi fenomeni sociali che nella postmodernità liquida si differenziano dal passato per un mutamento dei loro limiti.

Quello che ieri non si poteva vivere apertamente oggi si può fare, anzi può essere anche sintomo di «avanguar-dia», superamento del «vecchio», di capacità, intelligenza.

Jean Piaget parlava dell’intelligenza come di quella capacità dell’essere umano di adattarsi all’ambiente, sia sociale sia fisico: più sei «adattato», più per gli altri sei in-telligente.

66 Ibidem.

Siamo in una vita moderna in cui ogni recinto arretra sempre più i propri confini ed è sempre più difficile defi-nire i limiti, tutti i mutamenti socioculturali sono prodotti da un meccanismo di «distruzione creatrice» che comporta necessariamente adattamento e ribellione.

Nella fase contemporanea della sua storia, la cultura tende palesemente verso il suo lato distruttivo – ovvero a privilegiare l’elemento distruttivo della creazione – con l’intento di mostrare, dimostrare ed enfatizzare la mute-volezza, la fragilità, l’endemica instabilità e transitorietà e la brevità dell’aspettativa di vita di tutti i prodotti cul-turali67.

La prescrittività dei sistemi di socializzazione, oltre a favorire una certa staticità sociale, contribuisce all’imma-gine di un individuo rassegnato e rinunciatario, raffor-zando il conformismo e ostacolando forme alternative di apprendimento.

Anche se non ci si può sottrarre completamente alla consuetudine che permette il risparmio energetico delle azioni umane, bisogna considerare che la nostra è un’e-poca di continue metamorfosi che vanno fronteggiate adattandovisi valutando una cultura del cambiamento, pertanto i sistemi elettivi collegati al dinamismo e alla ra-zionalità devono convivere con quelli prescrittivi: questa convivenza, però, a volte determina insicurezze sia nei comportamenti individuali che in quelli collettivi, se non si riesce a padroneggiare questo divenire non lineare né a sottrarsi alle regole prescrittive.

Le storie di vita possono mantenere una testimonianza di qualcosa che è stato solido in un contesto dove i confini

67 Z. Bauman, T. Leoncini, Nati liquidi. Trasformazioni nel terzo millen-nio, (2019), Sperling&Kupfer, Torino, 2019.

sono per natura liquidi e flessibili e questa caratteristica si riflette anche all’interno del mondo del lavoro, dove si riscontra un gap tra saperi formalizzati (quelli scolastici) e quelli concreti.

Quello che sta emergendo a livello globale è una mag-giore diffusione dei saperi formalizzati che però non sem-pre sono in grado di gestire concretamente il sapere che si forma nella vita quotidiana.

L’individuo, in particolare il “nativo liquido”68, è chia-mato ad esercitare una capacità creativa della flessibilità in quanto la vita professionale odierna è basata soprattut-to su competenze mobilizzate con le quali affrontare le situa-zioni di novità.

La figura del sociologo, dunque, si proietta in questa dimensione di costante accelerazione sociale nella quale è necessario mantenere il ritmo al fine di riuscire a cogliere e sfruttare al meglio tutte le varie opzioni che vanno con-figurandosi progressivamente, suscitando irrequietezza nella percezione soggettiva degli attori sociali coinvolti.

Ragionando sempre in ottica di collaborazione e con-divisione insieme alle altre professionalità “esperte della flessibilità”, il sociologo sul campo diventa sempre di più una figura vicina alle persone per offrire sostegno nella ricerca di esperienze significative che siano in grado di at-tivare le risorse resilienti all’interno delle biografie indivi-duali in condizione di disagio.

68 Espressione con la quale Bauman indica chi appartiene da nativo alla società liquida.

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