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Il perimetro delle sostanze.

Ma che cos'è la droga? Di quale forma di sapere essa dovrebbe essere l'oggetto privilegiato? Se è stato criticato l'atteggiamento di indifferenza che la legge e la medicina hanno davanti alla varietà di pazienti e di sostanze consumabili, com'è possibile che per tutti i paragrafi precedenti non si sia fatta nessuna distinzione specifica tra gli elementi appartenenti al mondo della droga? La risposta a queste questioni si trova nel riconoscimento di un'appartenenza della droga a un determinato campo semantico – o semiotico - che le affibia una funzione ben precia e ne determina l'uso nel linguaggio quotidiano. La filosofia con i suoi attraversamenti trasversali può ricostruire un sapere sulla droga e sul suo utilizzo, al di là dei singoli settori specialistici che se ne occupano circoscrivendo il fenomeno ai propri limiti strumentali e teorici. Spesso, nella civiltà del numero, il fenomeno tossicomania è setacciato da una disciplina come la sociologia, disciplina che fin troppo spesso rimane incastrata nell'analisi di statistiche e percentuali. Il risultato di questi studi è quello di imbrigliare un fenomeno in una serie di linguaggi troppo affini a quelli utilizzati dalle strategie del potere – i numeri dominano la scienza e la tecnologia, il pil è un valore numerico attraverso cui controllare il benessere di uno stato, i dati Istat sono ciò attraverso cui viene descritto minuziosamente lo statuto di una popolazione: il risultato è quello di creare una tautologia, in cui i discorsi si accumulano uno sull'altro mascherando il territorio in cui il fenomeno è venuto a inscriversi. In un meccanismo in cui il potere dice se stesso è difficile capire le dinamiche che portano alla costituzione dell'evento droga. Solo con una critica che si distanzia dal sistema società, cercando di guardarlo da fuori, riconoscendone i temi e le ricorrenze, si può cercare di afferrare un fenomeno fluido e sfuggente come quello del policonsmuo di sostanze psicoattive.

Quando abbiamo incontrato il professor Giorgio Maria Fumel al centro Jonas di Bologna, in cui è attivo come psicoanalista, tra le varie domande che gli sono state poste ve n'è stata una in cui si chiedeva come si può definire una sostanza che dà dipendenza. Secondo Fumel questa sostanza ha aspetti molteplici che non si limitano a ciò che altera direttamente lo stato dell'organismo ma può trattarsi anche del sesso, del gioco d'azzardo o di internet. Per lui tutti questi elementi assumono il nome e lo statuto di sostanze da assuefazione. È ovvio però che se dovessimo trovare la definizione di droga legando questa parola alla funzione di “ciò che dà dipendenza” potremmo includere in questo campo più o meno qualsiasi cosa. Questo richiederebbe oltremodo una definizione di dipendenza che ora non trova lo spazio per essere trattata adeguatamente. La droga in questo lavoro deve essere trattata nei suoi legami con la follia chimica, che le predispone un determinato ruolo all'interno della realtà umana. Nel principio di un adattamento all'ordine costituito del consumismo, del benessere e della produttività - e ai solchi che questi stessi producono negli esseri umani – si può trovare il campo che definisce i confini perimetrali della droga come concetto. Come si vedrà, seguendo le parole del filosofo Jacques Derrida, la droga è definibile solo in quanto appartenente a una retorica e a un sistema di relazioni ben precisi. Essa infatti non esiste in natura, e per questo non è teorizzabile, se non scendendo a qualche compromesso con la realtà dei fatti.

La definizione di droga che dà l'Organizzazione mondiale della sanità recita all'incirca così: «la droga è qualsiasi sostanza che, introdotta nell'organismo vivente, può modificarne una o più funzioni»91. È a dir poco scontanto che, se si prendesse per buona questa definizione, praticamente

ogni sostanza con cui il nostro organismo entra in contatto potrebbe essere considerata droga. Al contempo ne sarebbe escluso ad esempio internet, strumento che agisce come un oggetto-sostanza nella relazioni con il soggetto, sabotandone i lobi frontali con tutti i danni che seguono come inibizione della memoria, alterazione della facoltà di linguaggio o di quella di sintesi percettiva. Jacques Derrida decostruisce l'idea di droga legata ai depositi concettuali che nell'ultimo secolo sono entrati a far parte del linguaggio comune. Egli scrive:

Nel caso della droga l'ordinamento del concetto è differente: non esiste droga “in natura”. Possono darsi dei veleni naturali e anche dei veleni naturalmente mortali, ma essi non lo sono in qualità di droghe. Il concetto di droga, come quello di tossicomania, presuppone una definizione istituita, istituzionalizzata: vi necessita una storia, una cultura, delle convenzioni, delle valutazioni, delle norme, tutto un reticolo di discorsi connessi, un'esplicita o ellittica retorica92.

91 Definizione tratta da: ”Informazioni sui vari tipi di droghe, tossicodipendenza e alcolismo”, disponibile al sito: http://www.tossicodipendenza.org/informazioni_droghe.htm.

La droga e il suo utilizzo sono definiti dai contesti sociali in cui questi si realizzano. Non esiste droga in natura vuol dire che non c'è nessuna definizione scientifica – biologica o chimica che sia – di ciò che la droga è o potrebbe essere. La droga è tale solo in società. La sua origine di pharmakos lo conferma: essa è legata a certe ritualità finalizzate ad espellere il male, sia che lo si faccia attraverso lei, sia che sia lei stessa il male da allontanare dalla città. Sono le norme etico-politiche, dunque a determinare la sua definizione. Ogni altra droga che agisce sul soggetto come l'eroina o la cocaina – come ad esempio internet - è considerata droga per un misto di analogia con l'assuefazione delle altre sostanze e ironia - “facebook per me è come una droga”. Ma in realtà nessuno direbbe che internet è davvero come l'eroina. È in una dimensione simbolica che si nascondono i significati di droga e di tossicomania. Essi si definiscono all'interno di rituali e nelle spiegazioni e giustificazioni che ne danno coloro che ne fanno uso, ma soprattutto coloro che ne controllano l'impiego. Per Thoma Szasz queste definizioni sono talmente arbitrarie che è ridicolo che i testi di farmacologia dedichino un capitolo alle droghe. Se questa cosa fosse pertinente allora «i testi di ginecologia e urologia dovrebbero un capitolo sulla prostituzione; i testi di fisiologia dovrebbero contenere un capitolo sulle perversioni; i testi di genetica dovrebbero contenere un capitolo sull'inferiorità razziale degli ebrei e dei negri; i testi di matematica dovrebbero contenere un capitolo sulla mafia del gioco d'azzardo; e, naturalmente, i testi di astronomia dovrebbero contenere un capitolo sull'adorazione del sole»93.

In ambito legale viene effettuata oggi una distinzione tra sostanze illecite e lecite. Anche questa catalogazione non si basa su alcun criterio specifico. Si veda ad esempio la conclusione a cui è giunta una commissione d'inchiesta creata dal governo canadese:

Le droghe possono essere classificate in funzione della loro composizione chimica, il loro uso terapeutico, i pericoli per la salute, la capacità di essere utilizzate per ei fini non terapeutici la disponibilità , il carattere legale o no, gli effetti sul sistema nervoso, gli altri sistemi fisiologici o il comportamento94.

La totale assenza di criteri per distinguere le droghe tra loro mette in chiaro una volta per tutte l'arbitrarietà di ogni classificazione:

La distinzione fatta tra psicotropi e stupefacenti dalle convenzioni internazionali non si fonda su una base concettuale chairamente definita. Il principio attivo della cannabis è classificato tra gli psicotropi mentre la cannabis è classificata tra gli stupefacenti. Peraltro ci dobbiamo interrogare sul

93 Szasz, T., op. cit., p. 14-15. 94 Margaron, H.,op. cit., p. 305.

fatto che la LSD sia inserita nella categoria degli psicotropi e non degli stupefacenti95.

Ogni distinzione tra droga leggera o pesante trova i suoi significati nel modo di esperire una sostanza, «Quando alla droga le è lasciato il compito di compensare i buchi neri della propria soggettività, di metterli in eco «in modo tale che tutta la vita di un individuo, l'insieme delle sue modalità di semiotizzazione, dipendano da un buco nero centrale d'angoscia»96. Il buco nero è

quell'attaccamento a qualcosa di sé che permette di evitare le tanto temute aperture verso l'esterno. La pesantezza di una sostanza è determinata quindi principalmente dai modi di assumerla, dai miti che essa suscita nelle coscienze degli individui, prima che dalle sue proprietà psicochimiche. Questa è l'ennesima prova che le classificazioni internazionali non sono sufficenti a definire cosa può essere una droga.

A complicare ulteriormente la definibilità della droga è il mutismo dell'esperienza legata ad essa. Essa è puro godimento del corpo, abbandono totale a una passione che è muta, che scappa dal dominio del linguaggio e cerca rifugio in un “prima della parola” originario, tendente all'assoluto. «Io Non Voglio Più Sentire Nessun Vecchio Frusto Discorso di Droga o Imbroglio di Droga... Le stesse cose dette un milione di volte e non c'è niente da dire perché NIENTE mai succede nel mondo della droga»97. Il mondo della droga evade il linguaggio, lo priva delle sue capacità significanti,

perché esso è mediazione, ma la droga vuole accedere direttamente all'assoluto. Il corpo, attraverso la sensazione pura, elimina ogni procastinazione a un piacere futuro per un godimento immediato. L'abitudine alla droga genera un Erlebnis priva di linguaggio. Per il tossicomane la parola fatica ad avere una funzione strumentale, se non quella di ottenere tornaconti aggirando qualcuno per un 'altra dose, o fregando il medico che con tutto il suo sapere pretende di salvarlo da qualcosa per cui non sente nessuna necessità di esserlo. Anche chi, tra i colti scienziati ed artisti che negli anni sessanta esperivano il labirinto delle percezioni con visioni mistico-psichedeliche, era costretto a restituirne le immagini entro le barriere della divisione soggetto-oggetto tipica del nostro linguaggio, trovava grosse difficoltà. Esprimere ciò che accadeva al di là era impossibile. Antonin Artaud attraverso il peyote cercava di liberare il suo corpo, di cui Dio era entrato in possesso fin dalla nascita. Una delle complessità della droga sta proprio in questo: liberare se stessi tuffandosi nella morte, in una cupio dissolvi, e ritrovarsi nel proprio corpo che fino ad allora era rimasto incatenato nel linguaggio. Dunque la droga come esperienza sta a metà tra un colto viaggio nella lingua del corpo e un immaturo sprofondare nel godimento che sottrae il soggetto alla realtà. Parlare

95 Ibidem.

96 Guattari, F., “Le droghe significanti”, Millepiani, op. cit., p. 17. 97 William Burroughs, op. cit., p. 13.

di droga significa anche spesso improvvisare su argomenti che di sé non sanno dire quasi nulla. In più, la droga ha un duplice statuto: quello di materialità inerte e immaterialità potente e miracolosa, capace di modificare la percezione di sé e del mondo98. Così sperimentare vuol dire

magiare pezzi di terra e alzazrsi allo spirito. Come tenere insieme questa contradditorietà? Come esprimerla adeguatamente?

In questo ambito verrà presa per buona l'idea che a definire qualcosa come droga è un particolare sistema di significati. Questi possono appartenere a diversi campi. Ad esempio il concetto comune di droga nasce da un intersecarsi di medicina, legge e morale. Nel nostro caso la droga sarà definita in base alla sua funzione all'interno di ciò che è stato definito come follia chimica. Il folle chimico usa la droga per adattare il suo sé alla realtà. Questo può farlo in senso positivo, con la conformazione a una serie di valori sociali, oppure negativo, con la volontà di evadere dalla normalità. In entrambi i casi è una sottospecie di istinto di sopravvivenza, in cui si elude il dolore della condizione umana, a guidare questi gesti. Anche nel caso della doppia diagnosi, essa spesso serve come stampella per reggere una personalità che rischia di andare in frantumi. È vero però che in questo senso qualsiasi cosa può essere una droga. Allora aggiungeremo che, nel nostro caso, sarà necessario un secondo livello di descrizione per definire la droga. Questo livello corrispone agli effetti che una certa sostanza può avere su corpo, cervello e coscienza. Essa può migliorarne le prestazioni o alterarne le percezioni. Può modificare la chimica del cervello, sono gli effetti di molte tra le droghe riconosciute come tali dalla legge, ma anche dell'alcool e di internet. Inoltre esistono degli effetti degenerativi per la coscienza, che la portano progressivamente verso lo stato che Di Petta definisce come annebbiato, crepuscolare:

È una coscienza chiaroscurale, di soglia o confine, tra la luce della realtà e l'ombra della psicosi. In fenomenologia non c'è patologia che non trovi il suo campo di preparazione nella modificazione o nella destrutturazione della coscienza.Nel caso della tossicomania l'abitudine allo sballo plastifica una parte del cervello e della coscienza, bloccando la capacità di connettersi alla realtà in maniera completa. Lo stato di coscienza è coartato solo a pochi contenuti, o addirittura a uno solo99.

A un terzo livello, la nostra droga è definita come tale per la posizione che essa ha assunto nella rete che avvolge le meccaniche strutturali del sociale: la droga è l'oggetto di consumo scarnificato,

98 Caretti, V., La Barbera, D., op. cit., p. 330.

99 Di Petta, G., Il mondo tossicomane: fenomenologia e psicopatologia, Franco Angeli, Milano 2004, p. 85. La coscienza, e lo stato di coscienza soprattutto, sono fondamentali nella psicopatologia fenomenologica, di cui Di Petta è rappresentate, in quanto sono le chiavi d'accesso alla realtà condivisa con gli altri. Quando ci si fa la coscienza è alterata, sballata, e fatica ad incrociare empaticamente le coscienze altrui. Lo stato crepuscolare altro non è che una costante presenza di questo sballo nei rapporti interrelazionali.

disvelato. Essa palesa le caratteristiche intrinseche degli altri oggetti che vengono acquistati nella civiltà consumista. A loro volta queste merci sono definite da un particolare campo di utilizzo nel rapporto soggetto-oggetto. Non è più solo il soggetto a usurare l'oggetto di cui usufruisce, ma entrambi, sia il soggetto che l'oggetto, si consumano in una dialettica in cui il servo e il padrone si dissolvono, lasciando come unico vincitore assoluto il godimento - oltre al profitto di terzi. L'eroina degli anni settanta non faceva nulla di dissimile. O meglio, forse era lei la pardona, e il tossico che la inseguiva disperato lo schiavo. Ma nell'incontro in cui la relazione prendeva vita, entrambi si consumavano e alla fine nessuno trionfava davvero. Col poliabuso la droga è entrata nel campo degli altri oggetti che danno godimento, e da questa rete di relazioni ne è definito. Una determinata modalità di utlizzoi delle cose abitua le persone che, nel momento in cui si trovano davanti alla droga, sono portati a considerarla alla stregua di uno degli oggetti di consumo, grazie a molte modalità di funzionamento simili.

Il passo oltre che fa la droga, è bene ricordarlo, e che ispira questa tesi, è la possibilità di fornire un principio di adattamento alla realtà tramite l'operazione chirurgica che queste sostanze operano sulle molecole del nostro cervello, sul nostro comportamento, e sulla nostra coscienza.

L'idea di un consumismo della droga incatena l'idea del drogarsi alla microfisica della nostra società, in cui il soggetto è determinato dalla logica delle merci e dei mercati, un campo in cui appartiene in quanto consumatore, che lo fonda eticamente, entra nella sua carne determina il valore dell'uomo in base alla sua capacità di consumare.

Capitolo 2