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Il pianto delle madri come modello archetipico del lutto

Il pianto rituale nel Mediterraneo

1. Figure del lamento: femminilità e cordoglio

1.6. Il pianto delle madri come modello archetipico del lutto

Siamo a Diabat, a casa della suocera di Nabil, Elaidya, che poi è anche sua zia. La donna sembra più anziana di quello che è, ma il suo carattere è temprato e vitale; è una levatrice e ha una conoscenza smisurata di tutti i rimedi curativi che derivano da piante e unguenti. Ha deciso di trasmettere il suo sapere alla figlia più piccola, che ancora non è sposata e vive con lei e il marito.

Ci racconta ciò che fa quando viene chiamata ad assistere una donna per il parto e ci mostra i rimedi che possono essere utilizzati per alleviare il dolore delle doglie. Senza quasi soluzione di continuità il discorso scivola dalla nascita alla morte, che Elaidya sa essere l'interesse della mia ricerca.

La lamentazione funebre viene riconosciuta come pratica diffusa altrove, ma non qui. Io: «La levatrice, che accompagna alla vita, ha un ruolo anche nella morte?»

Elaidya: «È capitato che mi abbiano chiamata, è successo alcune volte... mi chiamano quando la persona sta morendo. Una volta una persona aveva chiesto che fossi proprio io a lavare la salma. Quello che faccio io è recarmi dal morente, cercare di eseguire le ultime volontà... c'è un ruolo, legato alla disponibilità di accompagnare la sofferenza di una donna quando partorisce.. e quindi accompagno anche il contrario, anche altri tipi di sofferenza».

Io: «C'è qualcuno che si rivolge a lei perché non riesce a superare la sofferenza legata alla morte di un proprio caro?»

Elaidya: «Sì, è capitato spesso. Una signora una volta si voleva buttare da un'altura perché soffriva troppo, aveva perso la figlia in un incidente.

Allora sono stata insieme a lei, parlavo con lei, l'ho sgridata anche perché si voleva togliere la vita. Io: «Perché è haram?»

Elaidya: «La tranquillizzavo dal punto di vista della vita, ma in più sì, c'è anche il piano religioso». (Elaidya, 67 anni, Diabat, Agosto 2015 )

cristiano e in quello islamico, risulta efficace inquadrare una particolare forma di lamento, quello delle madri per il proprio figlio defunto. Il lamento materno si costituisce infatti come modello archetipico del pianto nella misura in cui, configurandosi come l'emblema dell'esperienza di lutto più straziante, condensa la forma del comportamento culturale previsto durante il lutto, l'espressione o la regolazione della sofferenza. Numerosi sono i richiami al lutto portato dalla madre per il figlio scomparso, dalla tragedia greca all'epica, da Shakespeare al modello incarnato nel pianto di Maria (de Martino 1958; Loraux 1991).

La connessione tra femminilità e morte è rappresentata nel lutto delle madri all'ennesima potenza: la madre incarna la potenza femminile del generare e il richiamo alla gestione del passaggio inverso, che dalla vita conduce alla morte, in virtù di una “predisposizione biologica” si rivela qui nella sua accezione più straziante.

Il lutto delle madri si costituisce come emblema del lutto sociale: nella Grecia antica era la madre a chiudere gli occhi al defunto e generalmente era lei la prima ad emettere lo straziante lamento, kòkysen, che permetteva di accedere all'intimità del dolore.

Tramite la codificazione dei gesti che schematizzano i sussulti della disperazione, il lamento veicolava un accesso al dolore permettendo a ogni madre, e ad ogni donna,

di esprimere il proprio, personale, lutto nei segni geometrici di una forma condivisa (Loraux 1991).

Anche la gestualità del lamento si richiama ai gesti compiuti dalla madre sul cadavere del figlio nel momento in cui il dolore raggiunge il proprio culmine, quando cioè la madre si trova di fronte a un corpo che manca di quell'intimità che gli aveva impresso la vita e ripropone sul proprio corpo il dolore per la revoca di quella prossimità fisica. Il chinarsi delle donne sul corpo del defunto, lo scoprirsi i seni – presente sia nella mitologia egizia che nelle testimonianze più recenti (de Martino 1958; Volojhine 2008) – richiama il contatto vitale perduto e quella connessione continuamente ribadita tra potenza del generare, morte e ri-generazione dei sopravvissuti.

Ecuba scopre il seno di fronte al cadavere di Ettore, come a richiamare il contatto vitale emanato dalla prossimità fisica dei due corpi ormai perduta; le Euripidi

rivendicano a sé le spoglie dei propri figli per poterli piangere e richiamarne a sé il corpo un’ultima volta; a Niobe, perduti i propri figli, non resta che cristallizzare il proprio dolore e la vitale intimità perduta assumendo le sembianze di una pietra. Il richiamo alla tragedia greca risulta particolarmente incisivo nella proposta interpretativa di Nicole Loraux, antropologa francese che, esaminando le legislazioni della Grecia classica inerenti la limitazione del lamento, elabora un'originale chiave di lettura del dispositivo della lamentazione e del suo modello archetipico individuato nel lutto delle madri (Loraux 1991; 1999).

La connessione tra donne e lutto va infatti cercata, secondo Loraux, nella tragedia greca e va letta alla luce della dinamica di proibizione-ricanalizzazione della potenza del pianto.

Se, infatti, l'obiettivo della polis era quello di ricercare le condizioni della propria sopravvivenza e della propria stabilità, le leggi volte a limitare la lamentazione durante la ritualità funebre ufficiale erano stilate per tutelare la città dal rischio di disordine che gli eccessi del pianto comportavano. Il pericolo insito nella lamentazione viene cioè individuato da Loraux nella potenziale destrutturazione sociale che l'eccesso può comportare, in quel «fascino delle lacrime» (Loraux 1991)

che il lamento non garantiva di esorcizzare completamente, ma che richiamava costantemente.

La potenza dell'interpretazione di Loraux sta nell'individuare nel teatro, o comunque nella drammatizzazione, uno spazio creato per tutto ciò che viene ricacciato dallo spazio pubblico, ma che non può essere estirpato dall'animo umano: ciò che viene escluso dalla legge viene ricacciato dall'agorà e rifluisce nel teatro, nella messa in scena di ciò che non può essere manifestato nello spazio pubblico.

Nel teatro trova dunque spazio la messa in scena della disperazione straziante che si cerca di limitare nella vita reale. La lettura di Loraux permette di andare più a fondo:

il riferimento alla tragedia greca lascia infatti emergere un ulteriore elemento che concerne il pianto delle madri e cioè la trasformazione del dolore in rabbia e della rabbia in possibile ribellione (Loraux 1990; 1991; Perkell 2008).

Il dolore per il figlio perduto si traduce sovente nella tragedia greca in mènis, ira inestinguibile, la stessa che muove Achille verso l'impresa di vendicare Patroclo e che

si configura come pericolo sociale. La collera tramuta le madri in assassine, come nel caso della vendetta che Clitemnestra infligge ad Agamennone per vendicare il sacrificio della figlia Ifigenia, o il furore di Demetra nei confronti di Ade per il rapimento della figlia Persefone. Il dolore delle madri già diventato rabbia si traduce in una vendetta spietata per colpire il marito responsabile della perdita del figlio, o della figlia, o addirittura, come nel caso di Medea, la collera conduce la madre ad uccidere il proprio stesso figlio per punire il marito con la sofferenza più atroce. In altri termini, il raggiungimento dell'apice del pathos innesca un meccanismo che si traduce nello sfociare del dolore in una vendetta attiva e quindi in un conflitto tra i sessi che conduce la donna a insorgere contro l'uomo.

I colpi autoinflitti dalle donne durante la lamentazione, gli eccessi cui giunge il pianto ritualizzato, richiamerebbero quindi l'archetipo di una donna smisurata (Loraux 1990), alla cui perdita di controllo viene associata una potenziale ribellione. Pertanto, al pianto deve essere imposta una misura, una forma di controllo sociale per impedire il raggiungimento degli eccessi.

Il pianto delle madri come archetipo risulta quindi ambivalente: nella tragedia trova sfogo ciò che la vita quotidiana della polis non permette o al pianto femminile viene associata una colpevolezza, cosicché il cordoglio si configuri come sospetto e venga scongiurato il pianto disperato in cui può incorrere ogni donna? In altri termini, la questione che si pone è se la rappresentazione nel teatro del pianto disperato delle madri, del dolore che muta in rabbia e conduce alla ribellione, si configuri come lo sfogo di ciò che la polis non permette e che può trovare espressione solo nella messa in scena, o se invece attraverso il teatro si vuole veicolare l'interiorizzazione di un'associazione che collega le esasperazioni del pianto delle donne al rischio terribile di una perdita di controllo, giustificando quindi la normativa della polis che frena e controlla gli eccessi del lamento femminile così pericoloso (Loraux 1991; 1999; Stears 2008).

Se la questione rimane dibattuta, la lettura del lutto delle madri come modello archetipico del lamento ha il merito di arricchire e stimolare la considerazione del dispositivo della lamentazione nei termini di una connessione tra donne, morte e rigenerazione che risulta il nodo centrale di questo lavoro.