di Terenzio Cozzi
• I Convegno organizzato ^ dall'Istituto Gramsci si & proponeva di valutare la
personalità di Piero Sraffa come intellettuale europeo del 20° secolo. L'obiettivo è stato raggiunto pienamente per quanto riguarda la valutazione dell'economista, ma soltanto parzialmente per altri importanti aspetti dell'intellettuale. Nonostante la mancata relazione di Napoleoni su Sraffa e il marxismo e la non partecipazione di Garegnani alla tavola rotonda conclusiva, la piuttosto folta presenza di economisti ha inevitabilmente concentrato l'attenzione sui temi a loro più congeniali.
Sono stati ampiamente sviscerati il tema della critica di Sraffa a Marshall, quello del rapporto con Keynes, quello della rivalutazione del pensiero classico e della critica alla teoria marginalista del capitale e della distribuzione e, in minor misura, quello del rapporto tra pensiero di Sraffa, marxismo e sviluppi neoricardiani e
neokeynesiani.
Ciascun tema è stato per lo più trattato come un capitolo a sé, forse per quella ritrosia che spesso hanno gli specialisti quando temono di uscire da terreni di propria specifica e indiscussa competenza. Non è però mancato un tentativo da parte di Graziani di collegare i vari temi tra di loro in modo forse discutibile ma, non per questo, meno interessante. C'è, secondo Graziani, un filo logico che lega l'articolo di Sraffa del '25 con alcune tesi che vengono alla luce negli anni '30 a Cambridge nel circolo di Keynes: è la critica alla teoria neoclassica della sovranità del
consumatore e la sua sostituzione con la tesi della sovranità dell'imprenditore nel sistema capitalistico. Su questa base si può spiegare anche perché Sraffa abbia svolto la sua analisi in
Produzione di merci a mezzo di merci assumendo come
già determinato il livello delle quantità prodotte: queste «non sono oggetto di trattazioni di mercato, non scaturiscono da
contraddizioni tra chi domanda e chi offre, non danno luogo ad un equilibrio di mercato, sono frutto di una decisione autonoma di una delle parti».
n altro intervento che si è distinto per ampiezza di prospettiva è stato quello di Nicholas Kaldor. La logica non era quella di cercare
un'evoluzione coerente del pensiero sraffiano, che appariva data per scontata, quanto piuttosto quella di illustrare le peculiarità delle posizioni di Sraffa nei confronti delle principali scuole del pensiero economico: classica, neoclassica, marxiana e neokeynesiana. La tesi fondamentale di Kaldor è che l'interesse principale di Sraffa è stato di tipo critico e non costruttivo. Il suo scopo era quello di mettere a nudo le difficoltà delle diverse teorie, il che ha portato, qualche volta e come sottoprodotto, ad aprire nuove vie capaci di far progredire la comprensione dei problemi economici.
Nell'apprezzamento entusiasta riservato al contributo critico di Sraffa, fa quindi da contrappunto il giudizio relativo alla limitatezza del contributo costruttivo determinata, in parte rilevante, da una opzione politica che poneva Sraffa in contrasto con Keynes. Mentre quest'ultimo, pur essendo fortemente critico del sistema capitalistico, aveva come obiettivo principale quello di salvarlo, con un atteggiamento quindi tipicamente riformista, a Sraffa interessava soprattutto sostituire il sistema
capitalistico, non riformarlo. Da qui la scelta di mettere in luce le contraddizioni fondamentali delle teorie che, come quella neoclassica, portavano ad una visione apologetica del capitalismo e di quelle che, come quella marxiana, indebolivano la giusta critica di fondo basandola su analisi penetranti ma non assolutamente inattaccabili dal punto di vista logico. Di qui anche il relativo disinteresse per la teoria keynesiana che non si prestava ad una critica radicale del capitalismo ma neppure si proponeva come una giustificazione apologetica per l'oggi e per il futuro.
Con argomentazioni simili, la tesi di Kaldor sul disinteresse di Sraffa per la teoria keynesiana era stata esposta, con una nutrita serie di argomentazioni, nella relazione presentata da Skidelsky. 11 contributo di Sraffa all'elaborazione della
Teoria generale è stato
decisamente minore, soprattutto di natura critica e, quasi sempre, di interesse marginale. D'altra parte però, anche il contributo di Keynes all'evoluzione del pensiero sraffiano è stato decisamente modesto: Un
problema di non
comunicazione, come diceva
il titolo della relazione di Skidelsky.
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a C O s u o. V o _o o m g ^ É considerazioni C / ^ ' analoghe si può incidentalmente arrivare anche riflettendo su un argomento completamente diverso quale quello affrontato da Becattini a proposito della famosa critica di Sraffa a Marshall. Ne traspare infatti la relativa indifferenza di Keynes per gli sviluppi teorici a cui l'attacco alla teoria marshalliana della determinazione del prezzo aveva aperto la strada. Eppure proprio Keynes aveva preso l'iniziativa di chiedere a Sraffa la pubblicazione suH'£corcom;c journal di un articolo che riprendesse i temi sviluppati nel famoso saggio pubblicato nel 1925 sugli Annali della Bocconi. Keynes stimava moltissimo Sraffa e Io proteggeva in tutti i modi. Ma tutto, o quasi, finiva lì. L'attacco a Marshall gli faceva probabilmente piacere, forse anche perché gli poteva servire per una più completa conquista dell'ambiente di Cambridge. Ma ciò non lo induceva certo a distogliere la propria attenzione da quello di cui si stava occupando. Sraffa era un importante punto di riferimento in quel processo di «sprovincializzazione» che, Becattini ci ricorda, stava manifestandosi nella Cambridge di allora, Keynes certo favoriva il processo; ma non fino al punto di esserne l'originatore e, meno che mai, l'interessato principale.D'altra parte, né Keynes né altri, si accorgono che l'attacco di Sraffa ha l'effetto di «mettere fuori gioco l'embrione di una teoria marshalliana dello sviluppo economico».
Disinteresse per i fenomeni del lungo periodo?
Probabilmente si da parte di Keynes, tutto preso dall'assillo di proporre politiche per il superamento della crisi. Ma è difficile pensare che valga lo stesso per Sraffa. La critica alla correttezza formale dell'impostazione
marshalliana del problema delle economie esterne all'impresa, ma interne al distretto industriale, bastava per Sraffa a togliere ogni validità euristica al concetto anche se opportunamente riformulato? Certo così è stata vista la posizione di Sraffa, e Becattini vede in questo l'aspetto negativo del contributo che invece «per molti altri aspetti
rappresentava veramente una pietra miliare». Ma era proprio questa l'intenzione di Sraffa oppure la critica distruttiva avrebbe dovuto spingere altri a riformulare la teoria su basi logicamente coerenti?
^ M ui si tocca un altro aspetto che è stato M affrontato al
Convegno, anche se da punti di vista diversi. Il seme gettato da Sraffa è stato fatto germogliare come meritava? La risposta deve probabilmente essere negativa. In campo marxista si sono avute reazioni spesso scomposte alla dimostrazione della non validità della soluzione marxiana al problema della
trasformazione, come se si trattasse di un reato di lesa maestà perpetrato nei confronti della teoria del valore-lavoro, il che certamente non è, almeno per molti aspetti essenziali
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(si vedano le relazioni di Gilibert, di Egidi e il mio intervento alla tavola rotonda). Si è voluto dipingere Sraffa come un teorico astratto, il che è certamente vero. Ma è altrettanto vero che la sua teoria lascia volutamente aperto lo spazio
all'introduzione, in campo di teoria della distribuzione, di importanti elementi istituzionali come egli stesso mi ebbe a confermare sottolineando anche come ciò non possa avvenire
nell'ambito dell'impostazione neoclassica. Tra l'altro, come ben sottolineato da Punzo, il metodo «costruttivo» utilizzato da Sraffa nelle dimostrazioni matematiche suggerisce inevitabilmente l'opportunità di «aprire l'analisi verso il mondo empirico», cosa che invece «è stata la parte meno perseguita da chi ha letto Sraffa». Infine, si è troppo spesso presa la parola di Sraffa come quella definitiva e non assoggettabile ad alcun tipo di critica o ad un uso parzialmente diverso da quello da egli proposto. Ciò è avvenuto per il caso delle economie esterne
marshalliane. Ma è anche avvenuto nei confronti della teoria neoclassica,
contrariamente a quanto diceva il sottotitolo di
Produzione di merci che,
come ricordava Kaldor, era visto dall'autore come un
Preludio ad una critica della teorìa economica, non come
la critica. Il criterio dì considerare «ortodosso» soltanto chi si rifaceva a tutto, e solo, quello già scritto da Sraffa, ha portato ad una divisione delle forze tra coloro che, da posizioni diverse, pur si rifacevano al suo pensiero. A mio parere ciò ha avuto una consistente parte di responsabilità nella conseguenza nefasta della resurrezione dalle ceneri di tutta l'impostazione neoclassica tradizionale. Gli amici, profondamente divisi su questioni particolari, sono stati inevitabilmente battuti da nemici tra loro molto più uniti sugli aspetti essenziali.
^ a riflessione su altri t importanti temi My economici emersi al
Convegno porterebbe il discorso molto lontano. Per evitare una eccessiva frammentazione preferisco rinviare il lettore alla pubblicazione, che spero prossima, degli atti. Vorrei però aggiungere ancora qualcosa sull'aspetto che, a mio parere, non è stato completamente sviscerato al convegno: quello di Sraffa come intellettuale, prima e oltre che economista. Ci sono state due belle relazioni. Una, ad opera di Faucci, ha illustrato la formazione intellettuale di Sraffa nella Torino degli anni '20. Ne è risultato un ritratto vivido dell'ambiente politico e culturale della facoltà di Giurisprudenza e del Laboratorio di Economia politica, le sedi dove Sraffa lavorava per la preparazione della tesi di laurea sotto la guida di Einaudi ma ricevendo suggestioni anche da altri e in particolare da Loria, almeno a giudicare dalle citazioni. L'importanza della tesi, come è stato sottolineato anche dall'intervento di Ginzburg, risiede nella straordinaria anticipazione di molte posizioni che, 2-3 anni dopo, Keynes presentava su La
riforma monetaria. Non è
certo un caso che sia stato proprio Sraffa a tradurre in italiano il volume di Keynes. L'altra relazione è quella su
Sraffa, Wittgenstein e i problemi deI metodo logico,
presentata da Me Guinness. Relazione molto dotta, ma più centrata sulla figura del filosofo austriaco che su quella di Sraffa. Viene certamente messo in luce l'influsso del pensatore italiano sulle modificazioni in senso antipositivista delle tesi di Wittgenstein, specialmente a proposito
dell'idea che «la maniera di pensare riflette il carattere di una cultura». Ma
l'argomento non viene approfondito molto al di là di quanto era già, almeno parzialmente, noto. Le conclusioni della relazione sono però un po' diverse da quelle usuali in quanto l'autore afferma che «le accuse che Wittgenstein sia stato scettico e che sia stato relativista sono false. Tale opinione è basata su una proposizione che è in parte dovuta all'influsso di Sraffa».
ome si vede da queste M y brevi osservazioni, si
può certamente concludere che il convegno ha registrato un indubbio successo per il livello delle relazioni e degli interventi. È rimasta però una grave lacuna che si sperava venisse colmata proprio da questo convegno. Ci si aspettava una valutazione del rapporto di profonda amicizia tra Sraffa e Gramsci e una accurata analisi dell'influenza che questo sodalizio ha avuto nell'elaborazione del pensiero di entrambi. Faucci ha detto qualche cosa, ma non era suo compito approfondire l'argomento. Toccava infatti a Spriano fare una relazione su Sraffa,
Gramsci e i Quaderni.
Purtroppo la relazione è mancata e l'aspettativa è andata delusa.
Mentre si ha una abbastanza buona conoscenza di ciò che Sraffa ha fatto per Gramsci ai tempi della sua
incarcerazione, si sa molto poco sull'influenza reciproca in campo di interessi e di elaborazioni intellettuali. Kaldor, nel discorso ufficiale, pronunciato a Cambridge in occasione della commemorazione di Sraffa, ha avanzato l'ipotesi che «fu l'influenza di Gramsci a distoglierlo dai suoi iniziali interessi per i problemi monetari e bancari e a portarlo ad occuparsi dei problemi sollevati dalla teoria classica del valore nella versione sviluppata da Ricardo». Mi risulta che questa tesi non sia stata condivisa da Pasinetti il cui nome, stranamente, non compare tra gli invitati al convegno. Egli ha esposto le sue ragioni a Kaldor il quale sembra averle parzialmente accettate, almeno a giudicare dal fatto che il testo del discorso che Kaldor ha distribuito al convegno porta una significativa correzione a penna. Invece di «fu l'influenza di Gramsci...», ora si legge: «Fu forse l'influenza di Gramsci...». Può sembrare strano che due persone che a Sraffa sono
state molto vicine non si siano fatte un'opinione concorde sul problema dell'influenza reciproca di Sraffa e Gramsci. Molto probabilmente ciò è dipeso dalla notoria riservatezza di Sraffa. Inoltre è certo che Kaldor non sapeva che Gramsci era venuto casualmente a sapere dalla lettura di un articolo di Einaudi che Sraffa si stava occupando di Ricardo, come ci ha ricordato Faucci. Ma certamente il tutto è una prova della necessità che l'Istituto Gramsci cerchi di promuovere studi storici approfonditi che permettano di far luce non tanto su questo aspetto, certamente minore, ma su tutta la questione del rapporto intellettuale tra i due grandi pensatori. Un primo passo potrebbe proprio essere rappresentato dalla pubblicazione della relazione che Spriano non ha avuto modo di presentare al convegno.
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Giovanni Anceschi, marchio per«Invisibie city» (1981)
A r m a n d o Ceste, G i a n f r a n c o Torri: marchio per «Il dottor
Bostik» (1984)
Gelsomino D ' A m b r o s i o , Pino Grimaldi: marchio per la mostra
«Autodocumentazione» (1978)