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Sisifo 3

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Academic year: 2021

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6G2.

Idee ricerche programmi dell'Istituto Gramsci piemontese novembre 1984

INTERVISTA

a Gianni Vattimo a cura di Mario Dogliani

ETICA E POLITICA

«È buon governo, ed è il solo buono, quello che garantisce aI cittadino la sicurezza delle grandi strade, l'uguaglianza davanti ai tribunali, un giudice abbastanza illuminato, una moneta giustamente valutata, circolazione discreta, giusta protezione all'estero. Messa così, la cosa non è tanto complicata».

Questa citazione dai Ricordi

di egotismo di Stendhal

esprime un livello minimo di aspettative dalla politica. Pensi che sia possibile, e come, oltrepassarlo?

Potremmo prendere questa frase di Stendhal come la formulazione di una utopia, più carica di significato di molte altre utopie politiche, perché credo sia la più difficile da realizzare. L'esperienza della politica è stata un complicarsi di questi obiettivi

apparentemente così semplici, e che tutti noi

sottoscriveremmo: non è vero che realizzarli sia una cosa «non tanto

complicata», come conclude Stendhal.

Potrebbe avere un significato chiarificatore ammettere che conveniamo su questi scopi, e che la complicazione non sta nell'accettarli, ma nel modo di raggiungerli. È verosimile che negli ultimi anni, nel momento del riflusso, si sia compreso che ciò che ci aspettavamo dalla politica forse era solo questo, e che tutta una quantità di attese ulteriori erano, in realtà, dei mezzi per potervi arrivare, perché occorrevano tali e tante energie, rinuncie, limitazioni alla libertà individuale, che bisognava caricarsi di valori e avere dei punti di appoggio ideologici.

Con questo capovolgi il rapporto tra mezzi e fini. I « valori finali» vengono ad essere dei «mezzi» per raggiungere scopi concreti, che in realtà sarebbero «fini», ed anzi gli unici «fini» che tutti sottoscriveremmo.

Al fondo della questione dell'ideologia sta il problema se la gente si mobiliti o no per degli scopi puramente tecnici: la scelta dei valori e la scelta dei mezzi è un gioco molto più realistico di come lo presenti lo schema della razionalità weberiana, perché una quantità di valori finali in realtà sono mezzi (ad esempio, l'uguaglianza davanti ai tribunali appare un valore finale, ma tende soltanto a permettere ad ognuno di perseguire i propri scopi vitali, i propri valori, di garantire la propria esistenza). Quindi gli scopi che Stendhal indica allo stato sono in realtà dei mezzi, e tutta l'attività necessaria per realizzarli richiede una specie di «caricamento» che implica

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un ritorno a contenuti

ideologici.

Gli scopi della politica hanno sempre questa ambiguità fondamentale: paradossalmente (come, appunto, l'uguaglianza davanti ai tribunali, e in genere l'uguaglianza dei cittadini) sono cose elementarissime, ma ci sono delle situazioni storiche in cui per realizzarle si muore. Per tornare alla frase di Stendhal: questa definisce degli scopi del politico che sono largamente

sottoscrivibili. Se però cerchiamo di porli come scopi ci accorgiamo che sono soltanto mezzi per ottenere altro; e proprio in quanto sono mezzi tecnici per altro, finisce che non possono valere come veri valori, per i quali la gente sia disposta ad affrontare sacrifici; e allora occorrono delle intensificazioni ideologiche (e quando dico ideologiche non intendo illusorie). Si perseguono valori che sono sia mezzi per altro, sia valori finali, e la mescolanza dei due costituisce la difficoltà, la ricchezza e anche l'interesse della politica.

Allora una visione della politica intesa soltanto come gestione di problemi tecnici non è un orizzonte compiuto, perché il rinvio al piano dei valori è necessario.

Credo ci sia una tentazione e una spinta ricorrente a considerare la politica come un fatto tecnico, ma non è possibile, nonostante gli sforzi, concepirla in questo modo.

Una tesi cosi può essere talvolta enunciata in Italia come una tesi terapeutica, contro l'eccesso di

ideologizzazione che c'è stato in passato, ma siccome la politica per realizzare fini che possono apparire anche molto «banali», deve mobilitare molta gente, non può fare a meno di un appello a valori e scopi finali.

C'è una sconnessione tra valori e tecniche, e il problema della mediazione tra questi due ambiti si pone tanto ai singoli che ai partiti. Io penso che non riuscirei ad impegnarmi politicamente molto al di là di quello che faccio proprio per questa sconnessione: tendo a preferire dei politici che facciano bene i tecnici, ma se devo poi concepire il politico solo come tecnico, allora questa identificazione non mi va più bene. Lo stesso problema si pone ai partiti i quali oscillano sempre tra l'essere o agenzie di burocrati o movimenti di ideologia, chiese di massa. La vita dei partiti è questo

andirivieni. Un modo di uscirne poteva essere il tentativo (e interpreto in questo senso la mobilitazione dei radicali di anni fa) di rianimare la politica attraverso l'appello a grossi temi di carattere morale e civile, e sufficientemente concreti: divorzio, aborto... C'è stato poi un

rallentamento ed una dispersione: la «fame nel mondo», ad esempio non è più stato un tema

mobilitante, perché è difficile impegnarsi quando non è percepibile l'efficacia dell'impegno singolo: tanto vale andare a messa. Non vedo soluzioni al problema di questa sconnessione e non riesco a trovare una spiegazione al fatto che si siano spenti questi tentativi: forse questo è avvenuto perché gli aspetti etici mobilitabili con una iniziativa politica determinata non sono poi tanti. Nemmeno il disarmo e la tematica ecologica sono più capaci di grande

mobilitazione: si tende piuttosto ad aspettarsi dai tecnici delle soluzioni di compenso (che si trovino magari dei bidoni resistenti per le scorie...). Continuo però a credere che un modo di salvare la politica dalla decadenza è quello di immettervi dei collegamenti più espliciti tra le scelte concrete e gli orizzonti di valori morali.

Questi orizzonti di valori morali come si presentano di fronte ai singoli? Sono o no

totalizzanti? E se sì, è bene che lo siano?

Sono convinto che c'è una qualificazione storica nel modo di vivere i valori, e credo sia ragionevole avere un'idea della civilizzazione come del «diventare civili»,

nel senso di Elias, di apprendere le «buone maniere». Queste non sono soltanto le buone maniere sociali, ma sono una trasformazione nella psicologia sociale, nel modo di rapportarsi di ciascuno a tutti, e quindi anche nel modo di vivere emotivamente ì valori dell'esistenza. È accaduta e sta accadendo nella società moderna una sorta di secolarizzazione che comporta un atteggiamento più morbido nei confronti della percezione del rapporto con i valori. Corre molto nella cultura contemporanea l'idea, che anch'io sottoscrivo (e che poi nella filosofia diventa la base della popolarità dell'ermeneutica) della comprensione come fatto base.

L'ermeneutica si diffonde nella società in cui l'antropologia culturale diventa una disciplina portante perché c'è larga convergenza sul fatto che esistono le civiltà, i mondi,

gli universi di discorso, di

cultura... Però il pensare agli universi di cultura è proprio del nostro universo di cultura, in cui i valori si presentano come termini di un dialogo e non più come unificanti. Non possiamo più fare a meno di ragionare in questo modo. Questo implica un modo di rapportarsi ai valori radicalmente originale della cultura europea occidentale rispetto alle altre culture. Quando facciamo discorsi tolleranti, di dialogo, in cui accettiamo i valori altrui, il nostro unico valore è quello di ammettere che ci sono altri valori: e questo è molto peculiare.

Il problema del relativismo per molti anni è stato patrimonio del dibattito culturale. Adesso sta

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diventando un'esperienza diffusa, attraverso la moltiplicazione dei messaggi dei media; per esempio: i ragazzi che vanno negli stadi a sentire un concerto rock, non hanno più il culto della star come poteva essere immaginato ai tempi dell'inizio del cinema. Nessuno più si suicida, oggi, per Rodolfo Valentino, ma non c'è neanche più Rodolfo Valentino. Ci sono delle stars che sono

qualitativamente diverse perché molto ironizzate dal meccanismo stesso della distribuzione.

Per fare un altro esempio: il fatto che i mass media parlino moltissimo delle vicende della loro proprietà (vendita o meno di giornali...) comporta una certa erosione interna della mitologia sociale collettiva. Tutto questo implica un alleggerimento nel modo di rapportarsi ai valori, che diventa meno dogmatico, più ironico e anche più debole dal punto di vista della costituzione delle personalità. Quando diciamo che i valori non sono più totalizzanti, intendiamo dire che sono delle totalità più vaghe; ma una visione globale del mondo dobbiamo sempre averla: soltanto, quella di cui disponiamo adesso ha dei confini più incerti, delle connessioni meno rigide; continua ad agire come elemento di cultura, ma in una situazione che io descrivo con il concetto di indebolimento, che non è un concetto solo negativo. Se pensiamo alla teoria della civilizzazione di Elias, mi sembra un concetto positivo, che esprime una maggiore disseminatezza dell'esperienza dei valori e che implica una minore tensione individuale nel modo di viverli.

Quindi non c'è più, oggi, una frattura tra politica = totalità, ed

etica = difesa di ciò che non è riconducibile alla totalità?

L'etica non si formula se non come discorso politico,

inteso non come «politico concreto», ma come mediazione del rapporto tra valori, come riconduzione dell'esperienza individuale a un orizzonte intersoggettivo. C'è in gran parte dell'etica contemporanea una impostazione per la quale valutare eticamente significa riportare le formulazioni delle tecniche singole, delle scienze, alla coscienza comune, che si esprime in una sorta di senso comune, di logos: la ragione non è altro che ciò che vive nell'interscambio sociale che, riportando a sé i dati settoriali e gli scopi parziali li eticizza: non c'è un'etica al di fuori di questa, se non l'etica religiosa. Ma persino nella teologia morale il discorso si formula sempre più nei termini di ciò che puoi mettere in comune con gli altri, di ciò che puoi fare rispettando l'altro.

Tutto il discorso dell'etica è un discorso in qualche modo di omologazione con la politica. Non sono termini remoti. In fondo il valore etico supremo è quello di stare in rapporto con i miei simili nel rispetto delle loro finalità.

Qui l'etica e la politica non si distinguono tanto. La politica è in sostanza mettere come fini ultimi dei fini di convivenza intersoggettivi.

Come valuti la teoria dell'agire comunicativo, e l'introduzione in Italia di filosofie politiche ispirate al neocontrattualismo?

In filosofia io rispetto le teorie dell'agire comunicativo, ma ho l'impressione che abbiano degli ideali troppo modellati sul soggetto scientifico. Habermas mi sembra orientato ad idealizzare una condizione del soggetto come autotrasparenza piena, che è poi la ragione kantiana diventata scopo

dell'imperativo morale. La teoria di Habermas è in sostanza una forma di kantismo. Io non sono convinto che si possa sostenere questo collegamento

tra la soggettività dell'individuo moderno e l'ideale della scienza, della comunicazione non ostacolata perché non limitata dalla finitezza.

Sono convinto che ci siano dei legami con le tradizioni proprie: i valori che coltivo non li coltivo perché corrispondono alla ragione, ma perché sono quelli dentro cui sono cresciuto e che vario secondo regole che sono anche compossibili con il sistema, e non quindi da misurare astrattamente solo con un ideale di

comunicazione illimitata. Habermas può ancora dar luogo ad un razionalismo rivoluzionario; io piuttosto formulerei delle critiche all'ordine esistente in relazione a possibilità scritte dentro l'ordine stesso più che non in una legge razionale come quella della comunicazione ideale. Il contrattualismo è un po' meno dogmatico, è più rispettoso del dialogo tra soggetti che agiscono storicamente in modo diverso, che non si devono necessariamente

omogeneizzare a un livello di razionalità pura, astratta. Ma forse tutte queste teorie che lasciano i valori nel dominio della coscienza e si limitano a farli dialogare, sono un po' troppo astratte, perché prendono i soggetti come unità ultime. Il contrattualismo configura la società come un gioco di palle da biliardo, perché colloca gli individui reciprocamente molto al di là dello scontro esterno che esamina. Non si può fare una applicazione troppo rigida degli schemi weberiani per i quali l'accordo deve riguardare i mezzi, mentre i fini non sono oggetto di discussione. Voglio che la società, anzi, sia proprio un organismo di discussione sui fini e non solo sui mezzi, perché i fini non sono riservati all'ambito della coscienza individuale. In questo senso il modello della vita sociale può essere, molto remotamente, un modello di psicanalisi, e non soltanto di contatti esterni. Il dialogo serve anche a modificare le scelte di valore: l'importante è che non ci siano imposizioni.

Che giudizio dai sulle procedure della politica di massa incentrate sulla partecipazione, sull'ipotesi di far tracimare da! basso le strategie politiche?

Non sono tanto ottimista perché molte delle forme di partecipazione di base sono state troppo promosse dall'alto. Non si può essere troppo mitologicamente «basisti». È ovvio che soltanto in certi momenti di

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estrema tensione nascono dei veri movimenti di base, e che generalmente tutta la sfera del politico tende ad organizzarsi. Dipende tutto dai modelli in base ai quali noi giudichiamo: se teniamo fermo un modello mitico, giacobino, per cui la partecipazione politica deve essere molto intensa, si rimane delusi. Ma è poi proprio quello il modello? o non dobbiamo invece incominciare a pensare che i valori di vita democratica di un paese devono essere valutati non soltanto dal punto di vista della partecipazione alla «Politica» (con la P maiuscola), ma dell'esistenza di una vita sociale?

II fatto che la politica degli assessori alla cultura nei comuni rossi sia stata così importante negli anni passati è proprio il segno che l'animazione politica passa attraverso un'animazione di uso collettivo di valori finali, che sono quelli della cultura: i quadri, la musica..., e che è più questo il contenuto della vita politica in tempi normali che non il perseguire fini politici in senso stretto, o il realizzare dei

meccanismi istituzionali diversi.

È possibile dare un giudizio univoco sullo sviluppo tecnologico e sull'estensione dell'utilizzazione

dell'informatica? Questi processi conducono ad un aumento di possibilità di libertà oppure no? Che cosa cambiano nel rapporto tra filosofo e verità?

Fondamentalmente i media offrono delle chances di divulgazione. C'è una quantità di buona divulgazione culturale nelle televisioni, nelle dispense delle edicole: anche quelle più slabbrate non sono fatte poi così male. Tutta una serie di aspetti culturali, di valori auratici della cultura vengono duramente colpiti. È un bene o un male? Intanto c'è questo dato di fatto: ci sono più mezzi per la gente per imparare, 4

informarsi, sapere: e questo non è un male. Ma ci sono soprattutto delle

modificazioni strutturali dell'esperienza: una delle questioni che credo determinanti anche per la filosofia nei confronti della società tardo moderna, è la modificazione dei caratteri dell'esperienza che si verifica con la mediatizzazione. È soltanto negativa o offre delle possibilità? Il mio maestro Heidegger (che è sempre stato considerato un reazionario, amava la campagna e odiava la città...) continuava ad insistere che la

tecnologizzazione della vita comporta anche — portata agli estremi — il fatto che l'uomo si libera da certe qualità, che lui e il mondo si erano visti attribuire dalla tradizione metafisica (che Heidegger considerava, dal punto di vista del valore, una tradizione negativa, in quanto una dimenticanza dell'essere).

Ci sono delle chances di emancipazione nella vita tecnologica moderna: fondamentalmente di civilizzazione, di investimento meno angoscioso sui valori. Quando parliamo di destoricizzazione non intendiamo perdita della memoria, ma piuttosto una sua «fluidificazione» in un rapporto col passato che non è più lineare, di dipendenza autoritaria. La grande autorità della storia nella cultura moderna era legata alla sua visione come di un processo razionale che indicava le direzioni obbligate. Ora noi, per una quantità di ragioni che sono anche legate alla velocità di trasmissione

dell'informazione, saremmo in grado di scrivere una storia mondiale: però l'aumento delle agenzie di raccolta di queste

informazioni contrasta con la possibilità di costruire questa storia unitaria, perché quelle agenzie sono dei centri tra di loro in conflitto. Ci rendiamo conto che la storia, come storia unitaria, è funzione di una potenza unitaria. Scrivere una storia mondiale sarebbe possibile solo se il mondo si unificasse: e le condizioni di questo non ci piacerebbero. Fino a che punto tutto ciò non porta degli elementi di destoricizzazione complessiva? Mentre era facile per un cittadino prussiano come Hegel sapersi in qualche punto della storia, per noi oggi l'appartenenza alla storia è una cosa molto astratta. Tutta la vita spirituale di Hegel si nutriva di questo legame con il corso universale degli eventi, mentre oggi questo corso universale non c'è. Sappiamo

che se un giornale è di destra o di sinistra i fatti risultano in modi diversi, e il progresso dell'informazione tende a rendere tutto contemporaneo, a identificare sempre più l'informazione con l'accadimento del fatto e addirittura con la possibile modificazione del fatto (vedere la guerra del Vietnam alla TV per gli americani è stato anche un modo di intervenirvi). L'esperienza tende dunque a perdere di spessore storico, e nei confronti della storia possiamo recuperare forse un atteggiamento più classico, umanistico, più

monumentale, nel senso di coltivare liberamente delle relazioni con modelli che non sono più cause, ma esempi di tipo retorico. Oggi posso prendere come modello, ad esempio, il Petrarca e non il filosofo italiano del Novecento a cui, in una visione lineare della storia, dovrei essere più legato. Non c'è più questa concezione causalistica lineare, e allora la destoricizzazione, se per un verso toglie molti supporti, per un altro libera il soggetto in una relazione con il passato, con i prodotti spirituali dell'umanità, che è di tipo «esemplare» piuttosto che deterministico naturale. Credo che questo sia un elemento non irrilevante della tecnologizzazione delle nostre conoscenze e mi aspetto una trasformazione della visione dell'esistenza, concepita non più come un punto su una linea, ma come un punto in un reticolo di riferimenti: come sul video di un computer che, appunto, permette anche dei giochi. Non sono inconsapevole dei pericoli di questo sgretolamento della storicità dell'esperienza, ma vedo anche delle possibilità positive come quella di sollevare l'esistenza storica dalla sua visione lineare e causalistica, e metterla invece in una prospettiva di relazioni libere con le formazioni spirituali, come se si fosse al museo o al supermercato: immagini parzialmente negative, ma tutte di reticolo piuttosto che di linea.

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MATERIALI DI

DISCUSSIONE

LE RIFORME

ISTITUZIONALI:

QUALI ASPETTATIVE

DALLA POLITICA?

Replicando a Salvati

di Pietro Ingrao m rovo a rispondere all'articolo di Michele Salvati e alle J L . questioni, che egli raccoglie sotto la formula «il dilemma di Ingrao». Se ho letto bene l'articolo, esso concentra la riflessione su «una dimensione che non può mai essere tenuta sullo sfondo: cioè l'ampiezza dell'intervento dello Stato nella società». A questo nodo sono riportate le debolezze di proposta della sinistra oggi, che consistono, secondo Salvati, nel voler tenere insieme due obiettivi: un elevato grado di diffusione del potere politico e un elevato grado di intervento dello Stato nel mercato e nella società. Di più: secondo Salvati, l'aspirazione «a vedere in una più diffusa e intensa partecipazione democratica un necessario metodo di controllo efficiente» sull'intervento dello Stato nel mercato e nella società, è un esempio da manuale di tale debolezza propositiva della sinistra. In questa incongruente o inattuabile aspirazione sta appunto — egli dice — il «dilemma di Ingrao».

Chiarisco subito che Salvati non condivide le convinzioni e le forzature degli «odiatori dello Stato»; e non gli sembra affatto che la società e il mercato, ipostatizzati dai liberali «abbiano le meravigliose proprietà che essi gli attribuiscono». Ma egli non vuole chiudersi la possibilità di soluzioni privatistiche. E in fondo ritiene utile che si affidi alla «convenienza» la scelta tra le alternative possibili: tra mercato, Stato e politica «come sono oggi». E qui egli elenca le condizioni che a suo giudizio possono rendere conveniente una soluzione di tipo «pubblico»: un diffuso e stabile consenso politico a una tale scelta; una burocrazia efficiente e «devota a una logica di servizio»; una partecipazione attiva («ma non partitica») degli utenti e dei soggetti che sono coinvolti nell'ambito sociale

«organizzato politicamente». Quando viene a concludere. Salvati si mostra parecchio scettico sulle possibilità di realizzare questa terza condizione, e quindi anche la seconda (una

amministrazione «dedita alla logica di servizio», e sottratta all'onda delle «esigenze particolari» e della «logica politico-partitica»); e infine circa il requisito del consenso egli conclude che esso in fondo dipende dagli

esiti: se gli esiti saranno

buoni («un buon servizio, una buona politica») allora verrà presumibilmente anche

il premio del consenso. Davvero io non saprei dare torto a Salvati, quando egli dà rilievo cosi grande agli

esiti delle soluzioni adottate.

E nemmeno dubito che gli esiti positivi di una scelta favoriscano ampiamente il consenso di coloro che ne sono avvantaggiati. Né vedo perché si dovrebbe privilegiare la soluzione pubblica quando essa desse esiti peggiori di quella privata: credo di essermi, da tempo, utilmente liberato da mitologie iperstatalistiche, e di avere anche scritto a questo proposito qualche parola critica (e anche autocritica) sufficientemente chiara.

Solo che il discorso vero, di merito, a proposito dei dilemmi che abbiamo dinanzi, comincia proprio a questo punto.

^ iamo dunque — e come! — importanza agli «esiti». Ma quali esiti? Rispetto a quali domande, a quali esigenze, a quali fini? E dove sta il metro, il criterio e la misura che ne valuta il risultato, il successo? E con quali procedure, provvederemo a questa valutazione? E chi saranno i soggetti abilitati, o in ogni modo presenti, partecipi di tale valutazione; e non solo ex-post, ma soprattutto nella previsione-progettazione degli esiti? Se è vero che politica è previsione, scelta, decisione, come con tanta insistenza, e da tante parti, oggi si ricorda.

Il dibattito è su questo: sul metodo e sul merito. Anzi direi: su questo è il

conflitto. Non a caso

l'articolo di Salvati è inserito in una trama di riflessioni e di opinioni che «Sisifo» propone sulla riforma delle istituzioni dinanzi a una crisi

della democrazia. E di

questa crisi parla, proprio su «Sisifo», l'intervista di Bobbio, e non solo lui. Bobbio riferisce questa crisi a un modello ideale fondato su un rapporto fra Stato e individui almeno

convenzionalmente «uguali»; e su sistemi rappresentativi in cui gli eletti siano sottratti al vincolo di «gruppi di interesse» e agiscano in funzione della nazione. Tutta la sua intervista sottolinea lo scarto profondo tra questo «modello ideale» e il concreto prevalere di una rete di «gruppi di interesse», che fanno rivivere lo «Stato dei ceti».

Non mi è consentito in questo articolo di entrare nel merito di tale analisi, e della soluzione di

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istituzionalizzato che Bobbio sembra vedere come lo sbocco fatale dei processi che — a suo giudizio — hanno reso irrealizzabile il «modello democratico ideale». A me basta ricavarne che la democrazia moderna, nel suo faticoso e contrastato cammino (e qui non parlo solo della teoria, ma delle correnti storico-politiche, dei soggetti che le attraversano, delle lotte, dei tentativi, degli esperimenti, delle culture diffuse) è fortemente contrassegnata da questo problema, da questa domanda essenziale di eguagliamento.

Non a caso ancora Bobbio, nella sua intervista a «Sisifo», individua proprio in queste condizioni di eguagliamento dei soggetti «individui», la base di legittimazione del principio di maggioranza. E del resto è sui connotati reali, storicamente concreti, di tale eguagliamento che si è dibattuto in teoria, e — soprattutto — si sono combattute lunghe, durissime lotte, e si sono caratterizzati soggetti politici e sociali. E si è dibattuto e combattuto a lungo sulle procedure: si è discusso anche sui limiti (su diritti imprescrittibili) dinanzi a cui lo stesso princìpio di maggioranza doveva arrestarsi.

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a questione perciò non è piccola. Ne va dì mezzo il fondamento della norma, la sua legittimazione. La risposta che si dà incide sulla carne dei cittadini: incide sulla libertà nel senso più elementare, se è vero che ha a che fare con il monopolio della forza da parte dello Stato (o degli Stati); e fonda istituzioni terribili e controverse come il carcere, e oggi addirittura riguarda il potere di usare o no, di controllare o no, armi che investono l'avvenire del genere umano.

La Costituzione stessa, su cui noi oggi ragioniamo discutendo di riforme istituzionali, ha alla sua base una enorme questione di eguagliamento sostanziale; indica nuovi soggetti sociali da elevare a compiti di direzione nazionale: pone cioè un problema di emancipazione; e propone nuove procedure e forme di potere per orientare campi essenziali dell'attività sociale. Non ho bisogno di ricordare l'art. 3. Sono obiettivi da considerare esauriti o superati? O invece da confermare e sviluppare: e — allora — come oggi? È importante sapere se gli esiti

buoni, di cui parla lo scritto

di Salvati, riguardano queste

o altre cose. Torno a dire: esiti buoni per chi, per che cosa?

Il discorso è quanto mai concreto. Tocca in pieno la stessa questione

dell'efficienza e lo stesso problema delle risorse e del loro uso efficace, lo ritengo che la crisi della democrazia italiana, al punto di oggi, 1984, sia connessa a fenomeni e processi transnazionali, che stanno incidendo duramente nella Costituzione materiale, e nel sistema e nella gerarchia delle relazioni sociali. Altrove ho cercato di analizzare questi processi. Qui posso darne — come dire? — solo i titoli; a) avanzata di un complesso militare-industriale esterno, con poteri occulti di decisione, sottratti alla sovranità e al controllo nazionale (la questione atomica); b) trasformazione e articolazione sovranazionale della grande impresa e di decisivi apparati produttori di ricerca scientifica e innovazione tecnologica; c) nuove forme di fluttuazione e di determinazione del sistema finanziario internazionale, che stanno colpendo o ridimensionando gli spazi di intervento utilizzati in Occidente, nei decenni passati, dagli Stati nazionali; d) multinazionali dell'informazione e loro incidenza inaudita sui sistemi di formazione e di

comunicazione, sui patrimoni di conoscenza,

sull'immaginario politico e sull'atteggiarsi dello spirito pubblico.

Sono processi che stanno mettendo in discussione, forme, poteri, spazi di intervento dello Stato-nazione, come è cresciuto negli ultimi due secoli; e dentro il quale si è sviluppata tanta parte del radicamento, dello sviluppo e delle politiche del movimento operaio, cioè del principale soggetto antagonista o «concorrente», maturato nel secolo che si sta chiudendo.

uesti processi in Italia M/W e in Europa stanno

t evocando nuove soggettività politiche e culture di emancipazione e liberazione (movimenti pacifisti, movimenti «verdi»); e più in generale stanno incidendo sulla composizione demografica di interi paesi e continenti, sulle aggregazioni e stratificazioni sociali dei grandi comparti delle economie-mondo, sulla organizzazione dei saperi. Forme di soggettività politica, che hanno agito a tutto campo nelle fasce alte dello sviluppo capitalistico, si trovano oggi di fronte al

dilemma o di ristrutturarsi nelle loro basi di affiliazione e nei loro contenuti, o di vedere ridotta duramente la loro passata «centralità», se vogliamo chiamarla così. E Salvati ne sa molto più di me sulle ristrutturazioni di gerarchie e di connessioni, che stanno producendosi a livello internazionale tra finanza, industria, scienza; e sulle

modulazioni-trasformazioni dei mercati e dei consumi.

Sempre su «Sisifo» trovo nello scritto di Dogliani una affermazione che mi conferma in queste valutazioni: trovo l'invito a «prestare maggiore attenzione ai veri acceleratori che operano nella società, nella scienza e nell'apparato produttivo, e dei quali oggi la politica si limita a registrare, sempre in ritardo, gli effetti».

Ma se questo è vero, allora noi non possiamo affidarci al cosiddetto «realismo» di chi sta e si tiene a una politica «debole», perché altri faranno una politica «forte», la quale inciderà spietatamente sulla nostra politica «debole».

E ricordo a Dogliani — ma lui lo sa bene — che gli «acceleratori che operano nella società», nell'epoca complessa e articolata in cui ci troviamo a vivere, non dimenticano mai (e come potrebbero?) gli Stati, i poteri pubblici: quelli chiari e quelli occulti. Per cui anche lo «Stato minimo» sarà sempre strettamente intrecciato ai processi reali, alle ristrutturazioni culturali e sociali. E in questo senso anche lo «Stato minimo» farà: e come! È da vedere

che cosa farà, e a favore di

chi saranno gli esiti. Dubito — e Salvati lo sa — che essi siano buoni per tutti. Dovremo scegliere e — dico — non già scegliere vuote bandiere, o generici «campi». Dovremo scegliere contenuti; forse anzi connessioni di contenuti: insomma «progetti», fosse pure i più scarni, i più sobri: ma chiari e coerenti. Se queste valutazioni sono fondate, allora può apparire più chiara la controversa questione della «politica diffusa» o della diffusione della politica. Ammettiamo pure che a questo proposito io possa avere delle «simpatie» ideali, o — per metterla al brutto — dei peccati di «ideologismo». Ma non si tratta di questo. La questione della diffusione della politica mi sembra, più che mai oggi, una chiave per fare fronte a quei processi sovranazionali di cui parlavo, a quei determinati, concreti «acceleratori del mutamento», che stanno producendo nuove forme di

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Agosti, Pontiggia, Leonetti, Esposito, Formenti,

Musini, Montuoro, Valesio, Syberberg, Mascitelli,

Calabrese, Masi, Dal Co

Il senso della letteratura

Palermo, Hotel delle Palme 8,9,10 novembre 1984

S. Agosti: Dialogo h a M a i l ™ * • un redattore di AHaketa * O. Pontigglo: l i d . n a g e r s l F. U m M i Pasolini a la liniera oggi * ». Esposito: Moderno . Individuante (I) * A. Cantaforo

I, M o d . m o . Individuality (11) * M.A. O r i g a n i , Indagini di Segre * F. Dal Co: Architettare • paralo ft. Moataoro: Lo sguardo dell'art. * Da M o n a * A. Panica»: L u i l . i l linguaggio poetico

atti Dwo tipi di ironia * A. Di Sparti: SodoImguMice * P. V a l i l o : Lo «ritto <M partalo Wagner secondo Syberfcarg (a cura di P. Bertetlo) * E. Masi: La d n a del viandante r i a , svila merle * E. Masdtelli: Elica scientifica * F. VerceBone: Il simbolo per Creator > l . n . d e t t i : Lattare di Simone Weil * F. l e Sala: Llv.ll! di recdtà * F. Masinii Attraverso figaro C. S U : I m . i M i l ' * Cfr. eooBtkoi Critica d'erte * O. Calabrese: Questioni di p i c e l o « h e n n e * U. M v e : Une

» I H m i l X l l i g i . t i r - * Il - ~ " - • ' - r - • - » O i e m r f e dei « o r n a l i : Le p e s t i o « . Indice d o l a comunicezione: La moneta elettronica * Immagini: L'anima di un papere

dominio, di dipendenza nazionale, di oppressione e di emarginazione sociale, di uso delle risorse, e — mi sembra — di occulta militarizzazione della società, nel tempo dell'arma atomica. ^ obbio, nella sua

intervista a «Sisifo», si K g duole (o constata) che

invece dello stato degli individui, vediamo spuntare sotto nuova forma lo Stato dei ceti, o per dirla con il linguaggio una determinata politologia — lo «Stato degli interessi». In verità io credo che gli individui capaci — come dice Bobbio — di esprimersi a livello «generale» non sorgono a

sé, ma sgorgano da esperienze e aggregazioni collettive, che nel loro

processo giungono ad

esprimere e ad attingere un orizzonte generale. Questo difficile cammino, come è possibile che si compia, se non affonda le sue radici in una ostinata, testarda, tormentata esperienza di politica diffusa?

Salvati solleva il problema di una burocrazia orientata da una «logica di servizio», preservata, sottratta all'incidenza dei

particolarismi di gruppo e della lottizzazione partitica.

Ma se avremo governi e istituzioni inadeguati di fronte alla forza dei grandi

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«acceleratori» e potentati sovranazionali, non ci sarà sorta di predica, o appello alla moralizzazione o severità di sanzioni, che sottrarranno i partiti alla tentazione di mantenere se stessi, il loro ruolo, le loro organizzazioni, i loro mezzi materiali, attraverso la competizione sfrenata nell'accaparramento degli apparati pubblici e dei favori dei «grandi» privati, e quindi attraverso la lottizzazione dello Stato. La «logica di servizio» andrà a farsi benedire.

E ancora: Salvati, e anche Rusconi, sottolineano la parola «efficienza», l'importanza del rapporto che corre tra uso delle risorse e risultato. Verissimo. Ambedue sanno però quanto sia aperto e controverso il discorso sul calcolo delle risorse, sulla_ pozione stessa di risorse, sulla dislocazione nel tempo delle risorse e dei risultati. Sanno quanto ambiguo, controverso, discusso sia lo stesso concetto di produttività. Perciò, quale efficienza? Non ci si può sottrarre ad una discussione attuale sui contenuti di una determinata efficienza, di un determinato uso delle risorse oggi, in quel contesto che descrivevo prima. Mi sbaglio, o i processi di innovazione su cui ragioniamo, chiamano in causa enormi problemi di cultura diffusa, di capacità di mobilità nel lavoro, di combinazione territoriale articolata e decentrata di risorse umane e materiali, di organizzazione differenziata del territorio, di tutela-valorizzazione dell'ambiente? È possibile questa diffusione e articolazione e mobilità di competenze; questo intreccio di valori; questa

combinazione di risorse; senza l'affermarsi di progettualità «regionali» e locali, senza una organizzazione decentrata delle istituzioni pubbliche? E — soprattutto — senza tener conto ormai di un

pluralismo di soggetti, senza costruire o sperimentare momenti e scambi fra aggregazioni, procedure diffuse di informazione, conoscenza e controllo?

/

a strada della centralizzazione neocorporativa istituzionalizzata uccide questo e perciò secondo me non «stabilizza» la democrazia: non produce la

reale forza di decisione

capace di fronteggiare i processi in atto. Mentre centralizza, essa frantuma, impoverisce: e apre spazio a nuovi domini, a moderne disuguaglianze, a vere e proprie fratture di comunità nazionali.

È stato proprio un interessante articolo di Salvati a stimolarmi a leggere un saggio di Mike Davis, dove sono analizzate, con un intreccio suggestivo di strumenti, le operazioni gigantesche di ristrutturazione territoriale, produttiva e sociale, avvenute dentro e alla periferia dei mondi che compongono la confederazione americana; e le nuove, aspre disuguaglianze sociali, i «nuovi dualismi», e i possibili conflitti e le probabili questioni di legittimazione, che sembrano scaturirne.

Io credo che dobbiamo tenere questo orizzonte: e dentro di esso scegliere le opzioni di emancipazione e di liberazione su cui puntiamo, e commisurare gli

esiti delle soluzioni

istituzionali, l'efficienza e la tipologia degli apparati amministrativi, il rapporto tra uso e sbocchi delle risorse, a queste scelte. Mi sembra che sono scelte che vanno al di là degli stessi parametri di equità sottolineati nello scritto di Veca. In ogni modo mi pare che esse evochino questioni acute di identità nazionali, e al tempo stesso di

convergenze sovranazionali, e chiedano anche regole nuove di convivenza mondiale. Altrimenti non capisco la sete di nuove forme comunicative, la critica a forme e modi di vivere la politica, che sentiamo — sia pure a lampi, a scatti — emergere da tanti episodi, spie, finestre della vita comune.

Queste considerazioni sono perciò il contrario di una pura riproposizione di forme di partecipazione, su cui nei decenni passati è accaduto a me in particolare di soffermarmi. Non credo che sia da mettere in soffitta il Parlamento a favore della triangolazione

neocorporativa. Ma la centralità delle assemblee elettive — di cui abbiamo parlato — non solo ha bisogno di riforme per cosi dire razionalizzatrici (monocameralismo): essa deve trovare un raccordo con la dimensione

sovranazionale; senza di che è monca. E la ricerca di un nuovo autonomismo deve partire dall'analisi della crisi effettiva dell'istituto regionale. La formula stessa togliattiana: «i partiti sono la democrazia che si organizza» ha bisogno di allargamenti sostanziali (anche istituzionali) di fronte all'emergenza di nuove soggettività politiche. E del resto sono stati proprio autorevoli dirigenti sindacali a parlare — per esempio — di

«rifondazione» radicale del sindacato: certo prima di tutto nel Sud, ma non solo nel Sud. E basta questo a dire come tutto il discorso sulla partecipazione va ripensato: non per

seppellirlo; ma per ridefinirlo e rimotivarlo nel confronto con la nuova epoca.

^ o poco da dire sull'altro corno del M f J dilemma: quello che

Salvati chiama «l'ampiezza» dell'intervento statale. A me intanto non interessa un discorso sull'«ampiezza», ma sulla «qualità». Ancora una volta, mi sembrano decisivi i contenuti, e non la quantità e l'estensione dell'intervento stesso. Di più: credo che si tratti di affrontare il problema difficile, non tanto della dimensione interna, ma della possibile dimensione sovranazionale di alcuni poteri.

Soprattutto mi interessa il fine, l'orientamento della presenza statale o pubblica. Ho cercato di spiegarlo con una formula: uno Stato che

aiuta a fare: che fa per aiutare a fare. Quindi una

presenza dello Stato che tende non a sostituirsi o a comprimere, ma a promuovere la crescita della società civile. Quindi nemmeno due o tre orti separati: lo Stato, il mercato e poi il cespuglio, il fiore gentile del «terzo settore», come luogo dove maturi separato, a sé, il mondo più libero di domani.

La capacità di autogestione, e prima di tutto (già sarebbe tanto!) di conoscenza, di controllo, di confronto, non può crescere separata dalle aspre guerre della

diseguaglianza, del dominio, della subordinazione, e dello scontro contro le culture e le ideologie che cantano lo splendore e la felicità del successo raggiunto sulle rovine e la sconfitta del proprio simile.

Salvati mi perdoni l'enfasi probabilmente inopportuna di queste frasi. Mi basta che abbia capito che l'idoleggiamento

dell 'ampiezza dell'intervento statale, e più in generale l'iperstatalismo, no, non fanno parte del «dilemma di Ingrao».

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Più iscritti o più voti?

di Giuseppe Bonazzi

uali sono gli indicatori della forza di un M partito politico?

Normalmente si pensa al numero dei voti elettorali, in certi casi al numero degli iscritti. Ma altre analisi potrebbero suggerire di prendere il numero di provvedimenti varati su iniziativa, esclusiva o prevalente del partito e quindi, con una metodologia appropriata, la massa di risorse (finanziarie, umane) investite in programmi socialmente rilevanti. Oppure in un'ottica diversa l'indicatore della forza di un partito potrebbe essere il numero di cariche ricoperte, dando un particolare coefficente alle cariche che producono posti (per i propri elettori), sicché il partito diventa, come suggeriva Pizzorno, un meccanismo di posti che si autovalorizza producendo altri posti. Infine nulla vieta che un indicatore potrebbe riguardare la capacità mobilitativa di un partito, misurata dalla frequenza e dalla massa di persone che fisicamente si aggregano in determinate circostanze (proteste, festivals, funerali, ecc.).

È evidente che a seconda dell'indicatore prescelto noi ci troviamo non solo di fronte a gradi differenti di profondità di analisi, ma soprattutto di fronte a partiti del tutto diversi tra di loro. Per i partiti impegnati in una seria politica riformatrice, la massa delle risorse investite in programmi pubblici può essere senz'altro visto come l'indicatore più adatto a valutare la sua forza di impatto nel rinnovamento della società. Viceversa la forza di un partito che si dedica soprattutto a pratiche clientelari e di sottogoverno sarà colta molto meglio contando il numero di posti occupati o fatti occupare da persone della propria area. Un altro aspetto che emerge da queste prime

considerazioni riguarda la storicità degli indicatori: l'indicatore prescelto per misurare la forza di un partito può essere sostituito da un altro indicatore quando, mutate le condizioni generali, il partito stesso cambia la sua politica e questo cambiamento influisce anche sulla sua immagine, la sua struttura, il suo modo di rapportarsi alla società. In un'epoca di muro contro muro, quando conta soprattutto difendere e intensificare la propria identità, il numero di tesserati (e tra questi il numero di partecipanti effettivi) può essere un indicatore efficace.

Quando la dialettica politica

e civile diventa più aperta e si attuano le contrapposizioni frontali, il numero degli iscritti e degli attivisti può essere messo in secondo piano rispetto al numero di voti riportati.

Si può infine sottolineare che la scelta di un indicatore riflette in larga parte le aspettative che l'ambiente di riferimento di un dato partito ha formulato nei confronti di questo partito, e che esiste un reciproco condizionamento tra le aspettative formulate e la produzione simbolica della propria immagine da parte del partito (assumendo che possa esistere uno scarto tra il programma effettivamente perseguito e la produzione di simbolico).

Ne consegue che quanto più uno intende elaborare un indicatore complesso della forza di un partito, tanto più si troverà ad agire con uno strumento ad hoc, capace solo di misurare la forza di un partito specifico, e in un determinato periodo storico, perché non appena si passa ad altri partiti o ad altri periodi, cambiano i parametri da privilegiare per queste valutazioni. Ciò porta al paradosso che quanto più sofistichiamo gli indicatori tanto più ristretta diventa l'area misurabile, e quindi alla fine la misurazione non serve a nulla perché non consente comparazioni tra realtà misurate in modo uniforme.

^ a risposta più immediata W a questo ragionamento è

che sembra una elucubrazione inutile, perché un indicatore immediato e universale è il numero dei voti conseguiti da ogni partito in una serie storica di elezioni. Questo è ciò che viene effettivamente fatto nella maggior parte delle analisi, giornalistiche o politologiche che siano. Eppure rimane una sottile insoddisfazione se veramente l'indicatore del successo elettorale fosse l'indicatore esaustivo della forza di un partito, non si

comprenderebbero gli sforzi prodotti nelle campagne di reclutamento, che si suppone non siano fatte solo per ottenere sottoscrizioni finanziarie ma per rafforzare la partecipazione di base. Ad esempio se si pone a cento comunisti la domanda: preferisci che il PCI abbia il 35% dei voti con le sezioni pressoché vuote, oppure preferisci che il PCI abbia non più del 26-27% dei voti con le sezioni piene, è ragionevole supporre che la maggioranza degli interpellati rifiuterà di primo acchito il dilemma e dimostrerà che le due alternative non vanno

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poste in contraddizione perché gli iscritti sono importanti per garantire i voti dei non iscritti e i voti d'altra parte sono il serbatoio di nuovi iscritti. Il rifiuto del dilemma esprìme il bisogno di rifugiarsi in alcune sicurezze che nascono da un sistema consolidato di aspettative e di valori. Ma se si insiste nel dilemma, è probabile che sia pure a malincuore una parte sceglierà: più iscritti ma con minor voti, e una parte (la maggioranza?) più voti con meno iscritti. Questa diversa

Ì

scelta esprime un diverso modo di concepire il partito, la sua funzione e le aspettative di linea politica che si sono formulate al suo riguardo. Chi dice che tutto sommato sono preferibili più iscritti piuttosto che vittorie elettorali sottolinea il valore della partecipazione, del partito come momento di formazione, dell'identità interna.

Tutta la componente che diffida verso iniziative politiche percepite come troppo spregiudicate preferisce il consolidamento attivo dei consensi finora acquistati, anche se il costo è una minore iniziativa esterna. Trasferire in un futuro indefinito gli obiettivi ultimi dell'ideologia offre spazi per organizzare la vita quotidiana all'ombra della ideologia stessa. Chi invece si pronuncia per l'altra scelta, cioè che «tutto sommato i successi elettorali sono più importanti del

numero degli iscritti» rivela un orientamento pragmatico, dove il partito diventa uno strumento di trasformazione sociale e dove alla minore partecipazione di base si sopperisce con un più spinto professionismo politico dei dirigenti e un più sistematico ricorso ai mass media per controllare il consenso. 11 maggiore attivismo è pagato con uno sbiadirsi

dell'identità tradizionale. Naturalmente ci sono dei limiti in entrambe le alternative: non ci si può ridurre ad un convento nel primo caso e nemmeno a un comitato elettorale nel secondo, ma all'interno di questo spazio la scelta dell'indicatore di ciò che è la reale forza del partito è anche un dichiarare quali sono le proprie aspettative, qual è il proprio progetto politico.

^ etto tutto questo j J sarebbe interessante M ^ / fare una ricerca:

calcolare per ogni provincia italiana (o per un campione significativo) il rapporto voti-iscritti negli ultimi 10-15 anni, poi ricostruire la formazione e la rotazione dei gruppi dirigenti, e quindi esaminare le principali iniziative politiche a livello locale. In base all'ipotesi prima accennata si dovrebbe prevedere una linea politica più orientata alla difesa dell'identità là dove il rapporto voti-iscritti è basso

(cioè dove i voti raccolti non sono molte volte il numero degli iscritti), ed una politica più pragmatica dove il rapporto è alto, cioè dove i voti sono molte volte il numero degli iscritti. Ma questa è una previsione astratta. Nella realtà è prevedibile che

interverrebbero tante altre variabili, da rendere le conclusioni estremamente complicate e frammentarie. Ma immaginare ipotesi fa parte del mestiere del sociologo. Restiamo dunque alla questione che emerge da queste brevi riflessioni e trasformiamola in una domanda per il lettore che vota PCI: se tu dovessi scegliere senza poterti rifugiare in altre risposte, che cosa preferiresti; che il PCI avesse quattro milioni di iscritti e sezioni piene ma solo dieci milioni di voti (cioè due voti e mezzo per iscritto) oppure preferiresti un partito con un milione scarso di iscritti, le sezioni vuote, il dibattito interno stracco, ma un rapporto iscritti-votanti di uno a quindici, cioè quindici milioni di voti, con una inevitabile classe di professionisti della politica? Non vale rispondere «voglio più voti e anche più iscritti», vorrebbe dire che non si sta al gioco, piuttosto serio, di questa domanda.

Giovanni Lussi, marchio

per lo Studio Nervi (1978)

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Etica e politica

di Claudio Ciancio

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• 1 conflitto tra etica e ^ politica è uno dei ^ capitoli più importanti

di una teoria del moderno. Sarebbe certamente falso affermare che

nell'antichità manchino esempi di tale conflitto (basta pensare all'Antigone sofoclea o a certi aspetti dell'etica epicurea o stoica), ma esso non viene come tale tematizzato. Perciò Platone poteva modellare le virtù dell'anima sulle virtù che devono sostenere la società e 10 stato, e Aristotele poteva definire l'etica come una parte della politica ed affermare senza difficoltà la superiorità del bene dello stato su quello

dell'individuo.

L'età moderna invece pone fin dall'inizio esplicitamente 11 problema. Indagando le leggi specifiche della politica Machiavelli riconosce la sua autonomia dall'etica e perciò l'inevitabile conflitto con essa, conflitto che la successiva teoria della ragion di stato, riaffermando l'eticità della politica e insieme la superiorità dei suoi fini su quelli particolari, cercherà di risolvere ma in realtà renderà più acuto. L'agire politico infatti entra propriamente in

contraddizione con l'agire etico solo quando anch'esso si carichi di finalità etiche: altrimenti abbiamo sì un contrasto tra le due sfere, ma non una vera e propria contraddizione.

A loro volta le tesi politiche che scaturiscono dalla riforma luterana affermano insieme — ispirandosi all'opposizione agostiniana di città-terrena, città di Dio — sia l'autonomia della sfera politica, sia la sua negatività, il suo essere un male necessario, una pura coercizione e limitazione delle innate tendenze dell'uomo al male. Queste prime posizioni del problema sono decisive per la riflessione successiva e fanno già vedere la possibilità di articolazioni e soluzioni molto diverse. E naturalmente le possibilità di comporre un conflitto dipendono anche dal modo di definire i due termini in conflitto. Esso, come si è appena mostrato, sembra essere tanto più acuto quanto più le due sfere hanno punti di contatto. Ma mi pare inevitabile

riconoscere tali punti di contatto. Poiché infatti la politica è una specifica sfera dell'agire umano, quella cioè che ha di mira

l'organizzazione e la direzione di una società, non può non essere artificioso il voler sottrarre questa sfera alle norme che regolano come obbliganti per la libertà di ogni singolo uomo

l'agire umano in generale. Non si può dunque distinguere etica e politica assegnando all'una la sfera dei rapporti personali e all'altra la sfera della totalità, sociale, perché anche su quest'ultima l'etica avanza le sue pretese. D'altra parte proprio il prevalere del punto di vista della totalità, specifico dell'agire politico, pur eticamente ispirato e finalizzato, porta con sé la possibilità di un conflitto con altre obbligazioni etiche. Tale conflitto è dunque un conflitto fra doveri diversi e in ultima istanza un conflitto che nasce dalla difficoltà di armonizzare persona e totalità sociale.

er questo sembra più W significativa anche se meno accettabile la J L . soluzione hegheliana rispetto a quella kantiana. La preoccupazione di Kant è quella di evitare le

confusioni f r a sfera giuridico-politica e sfera morale e insieme di affermare il primato della morale affidando alla politica il compito di realizzare le condizioni esteriori necessarie per l'esercizio della libertà, cioè per la vita morale. L'agire giuridico politico non ha dirette qualità morali (altrimenti si ridurrebbe la moralità alla legalità) e tuttavia la sua motivazione ultima e la sua finalità sono di ordine morale. Ma il problema nasce proprio nello spazio che si apre fra motivazione e finalità ultima da un lato, e la concreta prassi politica dall'altro. Se è vero che il diritto va pensato come il complesso delle condizioni sotto cui il volere dell'uno può essere armonizzato con il volere dell'altro secondo una legge generale (Metafìsica dei

costumi), è però anche vero

che proprio l'esigenza dell'armonizzazione dei voleri si scontra con l'esigenza del rispetto assoluto dei diritti e della personalità dei singoli. Anche a questo problema cercava di dare risposta Hegel quando sottolineava nella moralità la scissione fra soggettività e

particolarità della volontà e universalità del suo oggetto, il bene, e rintracciava le concrete mediazioni per cui il bene universale (della totalità) non si opporrebbe al bene individuale, ma invece lo risolverebbe in sé. La soluzione hegeliana era tuttavia possibile solo attraverso il privilegiamento dell'universale, cioè della politica: non c'è infatti un equilibrio e una convergenza tra particolare e universale, ma un disporsi del primo nel secondo, in funzione del

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quale soltanto può

conservare il suo valore. Per tornare ai termini del nostro problema, si può dire che Hegel risolve il conflitto fra la generale obbligazione etica e la specifica obbligazione politica capovolgendo i termini e cioè attribuendo alla seconda il carattere della generalità e alla prima il carattere della particolarità, dì modo che la politica è immediatamente (e non mediatamente come in Kant) etica e l'etica è etica solo mediamente (attraverso cioè la politica).

• 1 modello hegeliano, / • come è noto, è ^ diventato esemplare per

molte e disparate soluzioni successive, che peraltro l'hanno estremizzato dissolvendo quel tanto di equilibrio fra etica e politica che in esso pur ancora sussisteva. Quelle soluzioni infatti promuovono una più immediata sovrapposizione dei due termini o nel senso che alla politica si attribuiscono tutte le finalità eriche o nel senso opposto che tutte le finalità etiche si dissolvono nella politica: nel primo caso si attribuisce ai compiti politici la stessa incondizionatezza propria dei compiti etici, nel secondo caso si pretende di assolvere nell'azione politica tutti gli impegni etici; nel primo caso l'azione politica è pensata come un'azione individuale nel secondo caso un'azione individuale è accettabile solo come azione politica; nel primo caso tutte le volontà individuali sono sottoposte a una superiore volontà individuale, nel secondo caso ogni volontà individuale è risolta in una volontà generale impersonale. Ma le due soluzioni opposte nascono da una radice comune, la sintesi forzata di etica e politica, e perciò finiscono per apparentarsi strettamente scambiandosi molti dei loro caratteri. Nella Leggenda del grande

inquisitore Dostoevskij

interpreta due forme di questa sintesi (e cioè il temporalismo ecclesiastico e il socialismo) come scimmie del regno di Dio o, così egli si esprime, come correzioni dell'opera della redenzione. L'argomentazione del grande inquisitore si fonda sui seguenti presupposti: 1) che non si può rinviare all'infinito (all'escaton) la sintesi compiuta di realizzazione della libertà (etica) e realizzazione della felicità universale (politica); 2) che la libertà è per l'uomo un tormento a cui è facilmente disposto a rinunciare; 3) che dal momento che «libertà» e pane terreno a discrezione

per tutti sono fra loro «inconciliabili» gli uomini finiscono per deporre la libertà ai piedi di un potere assoluto; 4) che questo potere assoluto assume in sé tutta la dimensione morale dell'esistenza: dispone esso solo di quella coscienza morale e di quella libertà sottratta agli uomini, carica su di sé il peso delle scelte e delle responsabilità mentendo agli uomini per amore degli uomini stessi.

Dal discorso dostoevskijano emerge dunque l'impossibilità di realizzare la conciliazione di libertà della persona e armonia della totalità sociale, se non come deformazione grottesca e oppressiva dell'idea del regno di Dio. L'azione politica non può dunque caricarsi di tutte le finalità etiche né risolverle in sé se non a prezzo di una distruzione radicale della libertà e della coscienza morale delle persone.

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e soluzioni fin qui accennate hanno in comune un presupposto: un concetto «forte» di totalità sociale,

accompagnato da un concetto altrettanto forte di persona, ma non possiamo porre il problema in termini attuali senza tener conto che la gran parte delle sue soluzioni contemporanee muovono invece da un concetto debole di totalità e a volte anche di soggetto. Fortemente influenzata dagli esiti nefasti dell'eticizzazione della politica è la tendenza attuale a tecnicizzarla. In questa tendenza la soluzione del conflitto è affidata all'eliminazione di uno dei termini in conflitto restringendo la portata della politica e cioè limitandone il più possibile la funzione a semplice tecnica di amministrazione e di composizione dei conflitti emergenti e privandola il più possibile di finalità etiche, di proposte di valore. A questo orientamento si può però facilmente obiettare l'arbitrarietà della restrizione dell'etica alla sfera dei rapporti personali e l'inevitabile rischio che la neutralità della politica rispetto all'etica si trasformi pericolosamente in sottrazione della stessa al controllo etico.

Se la tecnicizzazione della politica ricerca una separazione netta fra etica e politica, un nuovo tentativo di ristabilirne la connessione evitandone la sintesi forzata si può vedere nella teoria dell'agire comunicativo. Muovendo dall'analisi delle procedure che garantiscono la validità delle

argomentazioni scientifiche e allargando il problema anche

alle argomentazioni che fanno valere pretese sociali e politiche, Apel formula il seguente principio etico: tutti i bisogni degli uomini in quanto pretese virtuali devono trasformarsi in richieste della comunità dell'argomentazione che si possono armonizzare con i bisogni di tutti gli altri

(Comunità e comunicazione).

Il primo imperativo è allora quello di realizzare la comunità ideale, quella cioè in cui sono rimossi gli ostacoli (soggettivi e sociali) che impediscono di elevare la giustificazione delle pretese individuali al piano dell'universalità sociale. Nella comunità ideale si darebbe perfetta continuità fra etica e politica perché in essa non vi sarebbe nulla di

moralmente obbligante o di politicamente valido che non fosse riconosciuto come accettabile da tutti i membri della comunità. I problemi nascono invece nella comunità reale, nella quale — come del resto la teoria dell'agire comunicativo sa bene — sorgono i conflitti morali. E per risolvere questi problemi non mi pare sufficiente ricorrere nella comunità reale alla norma della comunità ideale. Proprio l'imperativo primario di «eliminare tutte le asimmetrie socialmente condizionate del dialogo interpersonale» (così ancora Apel in Comunità e

comunicazione) porta con sé

la possibilità del conflitto: come non pensare che quell'imperativo (politico) non possa scontrarsi nel concreto con imperativi etici relativi al rapporto con singole persone? La teoria dell'agire comunicativo in quanto postula (diversamente da Kant) la possibilità reale della comunità ideale e la risoluzione storica della contraddizione, se evita ancora di forzare la sintesi fra etica e politica, ne sfuma però il conflitto preludendo inevitabilmente alla giustificazione di un nuovo predominio della sfera politica.

n'altra possibilità ben più radicale della precedente, di estinguere il conflitto sembra essere aperta, almeno implicitamente dal nichilismo contemporaneo attraverso la sua critica del principio della totalità e insieme della soggettività forte. Se infatti la radice del conflitto è nella difficilmente compatibile pretesa di assolutezza che avanzano insieme la totalità sociale e l'individuo, è facile pensare che il loro contemporaneo indebolimento ne elimini la causa: la totalità non

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pretenderebbe più di imporre i suoi valori e le sue finalità agli individui e d'altra parte l'individuo non sarebbe soggetto di esigenze così assolute da non essere relativizzabili nel rapporto con altre esigenze. Ma — ci si può chiedere — lo svuotamento di valore della totalità non prelude a una sua tecnicizzazione anomica, indifferente quindi alle istanze etiche degli individui e per ciò stesso non aliena dal calpestarle?

E d'altra parte lo svuotamento del soggetto non può diventare la condizione che indebolisce la sua resistenza a ridursi a parte e strumento di una nuova totalità?

Contro questi rischi è invece ben premunita una filosofia che peraltro ha molti punti di contatto con il nichilismo contemporaneo (in

particolare la critica radicale al principio della totalità) quale quella di E. Lévinas. La posizione di Lévinas ha diverse sfaccettature. Da un lato difende la possibilità di sottoporre la politica all'etica: «La politica deve poter sempre essere controllata e criticata a partire dall'etica» (Ethique et

infini). Per altro verso

sottolinea la loro

opposizione, quando, come in Totalità e infinito, la politica è intesa come esercizio della ragione totalizzante e come risultante

della guerra di tutti contro tutti. Altre volte invece il rapporto sembra caratterizzato da una permanente tensione nel senso che la politica pur dovendo ricondursi sempre a una radice etica contiene nel suo principio una quasi inevitabile tendenza ad autonomizzarsi e a negare l'etica.

^ a tesi della continuità M fra etica e politica è

fondata su di un concetto forte di soggettività, ma forte in un senso paradossale.

L'autentica radice dell'io non è cioè per Lévinas la sua autonomia e la sua capacità di ridurre a sé l'altro da sé, ma al contrario l'assolutezza e l'inalienabilità della responsabilità verso l'altro uomo che il suo volto gli presenta con un comando assoluto (soggettività come soggezione).

In quanto è costitutivamente (che lo voglia o no) svuotamento di sé, l'io non solo è aperto alla socialità, ma addirittura è già da essa fondato. Ma il rapporto con l'altro come altro fonda solo la relazione etica, mentre la relazione politica richiede un passaggio ulteriore, ed è questo passaggio che si presta ad interpretazioni diverse restituendo peraltro, proprio con le sue

ambiguità, al problema tutta la sua complessità. Il passaggio è quello dall'altro al terzo. Se cioè di fronte all'irriducibile alterità dell'altro sono chiamato a un rispetto incondizionato (non riconducibile cioè ad alcuna misura mia propria o generale), la presenza del terzo — cioè non solo dell'altro, ma anche degli altri — mi impone di estendere la mia

responsabilità anche al di là del più prossimo,

introducendo una misura che accomuna gli altri e mi consente di ordinare gerarchicamente le loro richieste.

Soprattutto nella sua ultima opera Altrimenti che essere, Lévinas non avverte un conflitto fra doveri etici e doveri politici: «in nessun modo la giustizia è una degenerazione del per

l'altro». Piuttosto egli vede

nella dimensione della totalità (e quindi della politica) una costante tendenza ad avere il proprio punto di gravitazione in se stessa e a presumersi originaria.

II discorso di Lévinas si ferma qui. Ma non occorrerebbe proseguirlo per chiedersi se la tendenza della totalità a degenerare non sia — come del resto altri suoi testi fanno pensare — una tendenza inevitabile? Se davvero si possa pensare una politica che non entri mai in

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contraddizione con l'etica se cioè la gerarchizzazione dei doveri non comporti la necessità di fare male a qualcuno in vista del bene di tutti? Tesi che vale

ovviamente, se il male resta male, anche quando è fatto in vista del bene.

In Lévinas forse il principio della totalità (e quindi della politica) finisce per avere insieme una connotazione troppo negativa e una troppo positiva. Troppo negativa in quanto se ne nega assolutamente

l'originarietà, troppo positiva in quanto se ne afferma la possibile continuità con la dimensione originaria (l'etica). Questa ambivalenza può forse essere superata — aprendo così anche una nuova posizione del nostro problema — pensando invece anche la totalità come principio originario, altrettanto originario e irrinunciabile che la persona. Ma se le cose stanno così, allora occorre pensare la mediabilità della persona nella totalità sociale insieme come necessaria e come impossibile: necessaria perché la totalità è originaria e impossibile perché anche la persona lo è.

fìÉ uali conseguenze ne w M discendono per il

M nostro problema? Anzitutto che il conflitto fra etica e politica non dipende da una cattiva impostazione del problema, ma invece da una corretta. Infatti il conflitto è risolvibile solo attraverso rinunce e semplificazioni: o

rinunciando alla dimensione etica della politica o tentandone una sintesi forzata o sorvolando sulla specificità e legittima autonomia della politica. In secondo luogo, e conseguentemente, il conflitto non è risolvibile sul piano delle concrete scelte etiche: non bastano cioè una finalizzazione etica dell'azione politica e una convergente qualità morale positiva di tutti i membri della comunità per evitare che l'azione politica si trovi continuamente di fronte a conflitti di doveri. In terzo luogo la

conflittualità latente fra etica e politica, fra i doveri verso la persona e i doveri verso la società, va considerata, pur nella sua insufficienza, come la condizione ottimale di una società. La superiorità dello stato di diritto e della democrazia sta precisamente nella non soluzione del conflitto, nel considerare altrettanto irrinunciabili il valore del singolo e l'armonizzazione dei singoli nella società. Da

ciò discendono due conseguenze. La prima è che una società democratica presuppone un concetto forte sia di persone che di totalità sociale perché il conflitto si mantiene solo per la forza dei due termini opposti. La seconda è che,

paradossalmente, la democrazia non può —

perché non deve — funzionare. La sua

condizione è il rischio continuo di dissolversi volta a volta nella dissociazione anarchica e

nell'autoritarismo. In questa oscillazione — quarto punto — finiscono per oscillare anche i limiti oltre i quali l'azione politica diventa moralmente illecita. Certo è opportuno che l'agire politico (e la legislazione) definisca di volta in volta i limiti di violabilità dei doveri e dei diritti della persona, ma è anche evidente che in situazioni eccezionali (ma tutte le situazioni non sono in qualche modo

eccezionali?) questi limiti possono essere spostati. Ciò che è più importante è considerare tali limitazioni sempre e comunque come negative e perciò da rimuovere sempre il più possibile e il più presto possibile.

L'azione politica ha sempre irrimediabilmente una dimensione negativa. Una dimensione negativa che essa

solo illusoriamente può evitare quando cerca o di svuotarsi o di colmarsi di eticità.

È proprio nel riconoscimento di questa sua negatività (con la quale la politica né rinuncia al regno di Dio né si fa sua scimmia, per misurarne, piuttosto la lontananza) che risiede forse la sua più profonda moralità.

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Stato e telematica

di Renzo Rovaris

embrano tempi favorevoli agli slogan risolutori, che sgombrano il terreno dalla complessità dei problemi ed o f f r o n o la gratificante senzazione che tutto sia semplice, o semplificabile (il «decisionismo»).

Il modo rozzo con il quale si usano le tecniche di comunicazione di massa per evidenziare le proposte — siano esse politiche, o tecnico-commerciali — non deve però indurre al rifiuto puro e semplice dei problemi, che esistono e derivano dalla crescente difficoltà a padroneggiare sistemi sempre più complessi dal punto di vista sociale, economico, tecnologico. Se l'eccessiva semplificazione non è una risposta, come affrontare la complessità? Proverò ad esaminare un caso specifico, il

funzionamento della Pubblica Amministrazione e le possibilità offerte dall'introduzione dell'informatica e delle telecomunicazioni o, come si preferisce dire oggi, della «telematica».

Lo strumento informatico sembra ideale per consentire la sintesi di grandi quantità di informazione, per costruire «indicatori» per la programmazione, per ridurre, insomma, la complessità del sistema senza semplificarla arbitrariamente. Se ne può ricavare la conclusione che una diffusione capillare di mezzi informatici nello Stato e nelle Amministrazioni Locali sia il rimedio ottimale per superare l'impotenza e l'inefficienza che appaiono caratteristiche del

«pubblico»: per evitare, ad esempio, che il ministro Visentini abbia «schifo» del prodotto del suo ministero. Questa tesi, che appare ragionevole a chiunque frequenti uffici statali, rimasti per la maggior parte allo stadio pre-elettronico, è sostenuta vigorosamente da più parti, in ¡specie da chi ha interessi commerciali nella vendita di oggetti

informatici.

Non che sia una tesi falsa: è però insufficiente, e rischia di essere pericolosa come tutte le semplificazioni eccessive. Stanno a dimostrarlo i poco brillanti risultati ottenuti nella lotta all'evasione fiscale, nonostante i faraonici (e costosi!) progetti di informatizzazione degli ultimi quindici anni (la famosa «anagrafe fiscale», nota anche come «progetto Atena»),

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a percentuale di mercato coperta dalla Pubblica Amministrazione nel settore degli elaboratori «general purpose» (16% nel

1981, con un incremento

annuo della spesa del 20%) è infatti già oggi rilevante. Pur non essendo quello pubblico il settore-guida per le applicazioni informatiche, il trend riscontrabile conferma che anche in esso il processo di estensione delle tecniche di trattamento automatico dell'informazione prosegue in modo

irreversibile in linea con le tendenze mondiali, che fanno ritenere di essere di fronte ad una nuova fase della rivoluzione industriale. La rilevanza del parco calcolatori della Pubblica Amministrazione non deve però far dimenticare la sostanziale inadeguatezza del suo utilizzo: il livello qualitativo delle applicazioni negli Enti Pubblici è generalmente modesto, e comunque non ha tenuto il passo con gli analoghi sviluppi negli altri settori. Le cause di questo stato di cose sono, di solito, indicate nelle procedure che regolano il funzionamento della Pubblica Amministrazione (norme contraddittorie e complesse, personale demotivato, impossibilità di decisioni rapide).

A mio avviso, il vero motivo è legato al significato che si è voluto attribuire all'introduzione

dell'informatica: e, cioè, legato alla cultura del nostro Stato più che a cause tecniche ed organizzative. L'informatica è stata — ed è tuttora — vista con una connotazione sostanzialmente tecnologica. Della «macchina informatica» si è enfatizzato soprattutto l'aspetto efficientistico, la possibilità di azioni complesse per mezzo di automatismi. È il trionfo dello «schiacciare il bottone»: mito radicato nella classe politica italiana, se si pensa agli anni dell'esperienza del centro-sinistra. I sistemi di elaborazione vengono spesso chiamati «cervelli

elettronici», con tono di compiacimento: il desiderio di potenza, che si alterna abitualmente alla frustrazione, in chiunque svolga funzioni di governo, fa vivere il computer come una via di mezzo tra il genio della lampada di Aladino e la potente macchina bellica.

• fallimenti di questi / • anni, se non hanno

^ arrestato l'espansione del mercato dei calcolatori nella Pubblica Amministrazione, hanno indotto a riflettere sulla

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