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E Piscator, Il tea tro politico, Einaudi, Torino 1976, p 16 [1929] 2 Ivi, p 17.

Nel documento L'Ottobre delle arti (pagine 34-38)

3. Ivi, p. 25. 4. Ivi, p. 24.

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delle arti se stesso sul piano linguistico. Di qui la polemica contro il Naturalismo, inteso erroneamente come il linguaggio

più idoneo a farsi viatico del messaggio rivoluzionario, e la scelta, viceversa, di aprirsi alla sperimentazione di nuove soluzioni linguistiche, di nuovi modi e di un nuovo stile tea- trale, perché solo la rivoluzione del linguaggio è in grado di produrre esiti incisivi sul piano sociale in quanto sa parlare una lingua del contemporaneo di più ampia diffusione ed efficacia. Perché un’arte sia rivoluzionaria deve, in sostanza, rivoluzionare se stessa, il suo linguaggio e i suoi codici.

È un principio basilare del rapporto tra arte e rivoluzio- ne nel contesto delle avanguardie: limitare l’una a cassa di risonanza dell’altra non solo è estraneo alla nuova sensibi- lità estetica ma è considerato anche retorico e inutilmente ridondante. Di qui la tensione dialettica tra i due poli che a noi interessa verificare soprattutto nei confronti dell’Ot- tobre sovietico. Il secondo caso che presentiamo rivela, da questo punto di vista, una prospettiva assai distante da quel- la di Piscator in cui, per utilizzare un termine gramsciano, possiamo cogliere, pur se in una maniera problematica, la dimensione dell’intellettuale organico. Tristian Tzara è il fondatore e il teorico del Dadaismo, il movimento più tra- sgressivo e nichilista delle avanguardie (anche se l’apoteosi dell’azzeramento dell’arte va letta in una maniera meno meccanicistica di come si è soliti fare e va pensata nella di-

namica di una nuova nascita5), distante per configurazione

intellettuale dall’organizzazione marxista del pensiero, dal rigore leninista (tutti ricordano la singolare coincidenza per cui erano praticamente vicini di casa nel loro soggiorno zurighese), dalla prospettiva di una rivoluzione sistematica, politica e strutturata. Nonostante ciò Tzara ricorda in una conferenza del 1947, Le Surréalisme et l’après-guerre, come il gruppo dadaista avesse salutato molto positivamente la Rivoluzione russa «come l’unico mezzo capace di fermare la guerra; l’abbiamo fatto con grande convinzione, anche perché avevamo preso posizione contro il pacifismo piagno- ne e umanitario i cui appelli ai buoni sentimenti, tanto in

voga allora, ci sembravano particolarmente pericolosi»6. Il

5. R. Tessari, Teatro e avanguardie storiche, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 166. 6. T. Tzara, Con totale abnegazione, Castelvecchi, Roma 2013, p. 41.

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rapporto col movimento bolscevico, all’altezza del 1917, che è l’anno d’oro in cui nasce la rivista «Dada», non produce altri esiti. Nella Rivoluzione russa Tzara legge solo la possi- bilità di por fine alla guerra, non l’occasione per rimettere in gioco una riflessione di più ampio respiro sulla tematica rivoluzionaria, le cui potenzialità sono attribuite solo alla dimensione estetica, risultando quella politica marginale rispetto al processo complessivo che ha in mente. «È evi- dente – scrive nello stesso testo – che la natura anarcoide di Dada, fedele all’idea di un assoluto morale da difendere al di là di ogni contingenza pratica, confinava i Dadaisti ai

margini della lotta politica»7. Una volta conclusa l’esperien-

za dadaista, però, nel 1947 Tzara fa una scelta tutta politica, senza rinnegare nulla della sua visione artistica, aderendo al Partito Comunista Francese ed è in tale contesto, con in più la recente conclusione della Seconda Guerra Mondiale, che va letto il testo della conferenza che abbiamo appena citato che riconsidera in maniera problematica l’esperienza dada e soprattutto quella surrealista e disegna un quadro storico di più ampio respiro sul rapporto tra poesia e rivoluzione.

Il terzo caso è ancora diverso e, per molti versi, impre- visto perché riguarda Filippo Tommaso Marinetti il cui nome è associato abitualmente, e a ragione, al Fascismo, sia nella sua fase inaugurale e movimentista che in quella istituzionale del regime. Eppure anche Marinetti ha un momento, breve ma importante, in cui si confronta con la rivoluzione bolscevica e non lo fa, come ci si attenderebbe, da una posizione di mero antagonismo ideologico ma in termini più dialettici e dotati di interessanti implicazioni di natura storica. Nel 1920 scrive un Manifesto, Al di là del Comunismo, abitualmente trascurato sia quando si parla del Marinetti teorico delle arti (il che è comprensibile) sia quando, viceversa, si parla del Marinetti politico. Per com- prendere la ragione per cui Marinetti si cimenta in questo testo, che resterà un unicum, e per valutarne meglio le argomentazioni interne è indispensabile fare un prelimi- nare riferimento al contesto storico. Siamo nel pieno del «biennio rosso» in cui, tra il 1919 e il 1920, si scatenò un violento conflitto di classe che, partendo da vertenze di

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delle arti natura sindacale, si orientò, in una sua parte minoritaria ma consistente, verso un esito rivoluzionario. Si cominciò

con lo sciopero generale del 1919 e si approdò all’occu- pazione delle fabbriche del 1920. La parte riformista del sindacato e del Partito Socialista intese il clima che si stava determinando come l’occasione per ridisegnare i rapporti di forza all’interno del sistema del lavoro, quella più radica- le e massimalista lo voleva, invece, come l’humus su cui far germogliare anche in Italia un movimento rivoluzionario che avesse nel Bolscevismo il suo modello ideologico e po- litico. Il confronto all’interno della sinistra fu durissimo e si risolse, nel 1921, nella scissione della parte più radicale del partito, che faceva riferimento a Gramsci e Bordiga, e nella nascita del Partito Comunista. Se quello all’interno della sinistra fu uno scontro politico, di ben altra natura e caratura fu quello col sistema politico. Polizia, esercito e le neonate squadre dei Fasci di combattimento di Mussolini intervennero pesantemente a tutela non solo dell’istituzio- ne statale e monarchica ma anche dello schieramento pa- dronale, sia industriale che agrario, che, proprio in questa occasione si diede la sua prima forma organizzata. Nella fibrillazione del momento si modificò sensibilmente l’at- teggiamento politico di Mussolini. Se nel Programma di San Sepolcro del 1919, stilato in occasione della nascita dei Fasci di combattimento, era presente un esplicito atteggiamento rivoluzionario che vedeva nella borghesia un’antagonista sociale, nel 1920, in occasione del secondo congresso dei Fasci c’è una svolta conservatrice che avvicina Mussolini ai partiti liberali – tanto che nelle amministrative di quell’an- no si arrivò alla formazione di vere e proprie alleanze anti- socialiste in cui spesso assieme ai partiti borghesi si presen- tavano anche esponenti dei Fasci di combattimento – e al movimento padronale a cui le «squadracce» fasciste offri- rono un sostanziale contributo con violente azioni contro operai, anarchici e socialisti. Marinetti era stato tra i fonda- tori dei Fasci di combattimento, trovandovi riscontri precisi col programma futurista, insurrezionale, antimonarchico e antiborghese. Visse così la svolta politica di Mussolini co- me un tradimento del Programma di Sansepolcro e lui e altri esponenti futuristi uscirono dal movimento «non avendo

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potuto imporre alla maggioranza fascista la loro tendenza

antimonarchica e anticlericale»8.

Una corretta messa a fuoco della situazione di contesto è fondamentale per comprendere la genesi e le argomen- tazioni di Al di là del Comunismo. Quando lo scrive Marinetti è fuori dai Fasci ma non intende rinunciare al suo obiettivo né alla sua identità politica, ribadendola e ponendola in ide- ale continuità con quanto ha scritto e detto in precedenza: «Ho sintetizzato in questo manifesto alcune delle idee già sviluppate nella mia opera Democrazia futurista, pubblicata un anno fa, e nel mio discorso sulla Bellezza e necessità della violenza, pronunciato da me il 26 giugno 1910 alla Borsa

del Lavoro di Napoli»9. Non è lui, lascia intendere, ad aver

cambiato idea ma Mussolini e così in un testo che vuole esse- re tutto politico il suo compagno di un tempo e il Fascismo non vengono nemmeno nominati, a sancire una distanza ideologica quanto dura tanto breve, perché di lì a poco Ma- rinetti si riavvicinerà al Fascismo tanto da scrivere nel 1924, l’anno dell’assassinio Matteotti e dell’avvio della trasforma- zione del sistema parlamentare in regime: «sosteniamo stre- nuamente il Fascismo, salda garanzia di vittoria imperiale

nella certa, forse prossima, conflagrazione generale»10.

In quel breve arco di mesi del 1920, invece, la pensa diversamente e l’elemento di distinguo è sancito dall’idea di rivoluzione che Marinetti pone a fondamento delle sue scelte artistiche ma anche di quelle politiche. In Democrazia futurista del 1919, che ha nominato come diretto antece- dente di Al di là del Comunismo, ha proclamato la nascita di un Partito politico futurista (che non diventerà mai un’or- ganizzazione ma è una tipica visione utopica marinettiana) le cui radici siano antimonarchiche ma anche antirepub- blicane «per giungere ad un governo tecnico di 30 o 40 giovani direttori competenti senza parlamento, eleggibili

da tutto il popolo mediante sindacati»11. Un modello poli-

tico rivoluzionario, dunque, estraneo ai sistemi istituzionali consolidati, monarchia e repubblica, che può ricordare per

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