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2.4 Diffondere il cambiamento: Diffusion of innovation

2.4.1 Policy transfer e policy diffusion

Quando l’attenzione è concentrata sul ruolo degli attori e sugli agenti della diffusione si parla di policy transfer. Questo, nella definizione di Diane Stone, è la conoscenza riguardo all’utilizzo, in un dato setting politico, di prassi amministrative, assetti istituzionali o semplicemente idee, mutuate da un altro setting politico, presente o del passato (Stone, 2012). Un altro concetto chiave è l’idea che delle scelte in ambito di politiche pubbliche fatte in un determinato luogo possano essere influenzate da scelte fatte altrove. La diffusione di una policy può essere considerata come una conseguenza dell’interdipendenza e si verifica in base a quattro meccanismi fondamentali che determinano la trasmissione di prassi regolatorie in differenti contesti geografici, istituzionali o settoriali (Gilardi, 2013). Questi meccanismi, che si evidenziano facilmente a livello locale o internazionale, spiegano anche le ragioni dell’interdipendenza tra il

network di soggetti governativi tra cui si diffondono le policy.

Essi sono:

Apprendimento: è basato sull’interesse dei policy makers (da qui in poi PM) alle conseguenze di policy applicate altrove;

Competizione: i PM adattano le policy a quelle di altri con lo scopo di contendere le stesse risorse;

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Emulazione (o imitazione): la legittimazione di una policy aumenta con la diffusione e questo spinge i PM all’adozione;

Coercizione: si basa sul potere di influenze top down, anche se è un meccanismo marginale negli stati democratici.

Nei processi di diffusione, un ruolo molto importante è rivestito dal framing, cioè la definizione del problema collettivo a cui si vuole dare una risposta. In base al frame si definisce l’ambito di rilevanza dei problemi e si elaborano le categorie fondamentali per inquadrare il processo decisionale (Steensland, 2008). È possibile quindi inferire che, in base a come una policy è definita, si verificheranno dei condizionamenti sul come e a chi sarà indirizzata. Un policy frame può essere descritto come la presentazione o la discussione di un tema da un particolare punto di vista che esclude punti di vista alternativi (Baumgartner, De Boef, & Boydstun, 2008). In altri termini, i frame ci dicono come un problema di policy è percepito o compreso in un dato momento (Baumgartner & Jones, 1993) Questa definizione è coerente con quella di Robert Entman che definisce il framing come la selezione di alcuni aspetti percepiti della realtà all’interno di una comunicazione politica o istituzionale, promuovendo, ad esempio, l’accento su un particolare aspetto, un’interpretazione causale, una valutazione morale e/o nelle raccomandazioni su come gestire u problema collettivo (Entman, 1993). Anche James Druckman definisce gli effetti del framing come l’induzione verso alcune considerazioni nella fase di costruzione delle proprie opinioni, attraverso l’enfasi posta su un sottoinsieme di considerazioni potenzialmente rilevanti (Druckman, 2004). In altri termini, la scelta del policy frame può influenzare i successivi passaggi del processo di

policy. Per quanto riguarda l’oggetto specifico della presente ricerca, è interessante

considerare come il Regolamento per la cura dei beni comuni sia inserito all’interno di un frame con precisi riferimenti filosofici ed etici. I concetti di beni comuni e la

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sussidiarietà, che costituiscono degli elementi fondanti del framing e che saranno approfonditi nel paragrafo 5, hanno giocato sicuramente un ruolo determinante nella diffusione della policy rendendola oggetto di apprendimento ed emulazione da parte dei comuni che l’hanno adottata. Esiste però anche una componente della diffusione che è presumibilmente legata alla competizione e all’opportunità politica di introdurre una

policy efficace nel riavvicinare istituzioni e cittadini, di de-burocratizzare dei processi

amministrativi inefficienti o di attrarre risorse di fondazioni e privati nella gestione di beni e servizi pubblici ai quali i governi locali non riuscivano a sopperire. Le città contemporanee, infatti, si presentano come degli attori sociali, politici ed economici in grado di determinare, attraverso la creazione di relazioni interne ed esterne, il proprio sviluppo economico. Per Le Galès la governance urbana è un processo di coordinamento attraverso cui i diversi attori, portatori di interessi e istituzioni, cercano di raggiungere degli obiettivi comuni e in cui i processi decisionali sono l’effetto di una interazione strategica tra i diversi soggetti coinvolti (Le Galès, 2001). La governance urbana ha quindi un obiettivo interno, coordinare gli interessi dei diversi attori e generare politiche condivise, ed uno esterno cioè di rappresentare la città come un attore collettivo che, nella definizione di Angelo Pichierri è contraddistinto da cinque caratteristiche: degli interessi comuni, un sistema di decisione collettivo, una rappresentazione interna ed esterna come comunità, la capacità di innovazione e dei meccanismi di integrazione (Pichierri, 2005). La competizione tra le città non si svolge più però solo sul piano economico ma anche attraverso nuove forme di governance e strategie che investono il piano politico e sociale (Tocci, 2009). Le città quindi per rispondere ai cambiamenti e alle nuove sfide globali si cimentano in operazioni di marketing urbano con lo scopo di attrarre capitali, risorse umane e finanziarie, eventi o organizzazioni internazionali. La diffusione di policy di

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input, che genera un nuovo fermento per gli attori urbani sollecitati ad un nuovo

protagonismo anche in conseguenza della trasformazione del ruolo dello Stato-nazione, come attore non più centrale ed esclusivo delle politiche (Magnier & Russo, 2002). Questo processo coincide con la necessità di creazione di un’identità collettiva legata alla città, intesa come società locale completa di stampo weberiano. Questo tentativo, anche se solo ideale e dagli incerti risultati, generalmente è gestito in modo consapevole dalle

élite urbane (Tocci, 2009). Infatti, come ricorda Le Galès le città sono abitate da attori

collettivi, ma sono anche composte da istituzioni e strutture sociali che orientano e anticipano le azioni degli attori (Le Galès, 2006). Per questo è particolarmente rilevante la dimensione politica della governance che prevede la capacità di regolare internamente gli interessi dei vari attori sociali per presentare all’eterno la città stessa come attore. Il meccanismo della competizione è quindi funzionale alla diffusione delle policy di

governance collaborativa in quanto accresce l’attrattività delle risorse, nello specifico

attraverso la generazione di beni pubblici competitivi (Pichierri, 2002) che sono in parte assimilabili ai beni comuni materiali e immateriali citati nel Regolamento e in parte dei beni di club (Buchanan, 1965) o local collective competition goods (Crouch, Le Galès, Trigilia, & Vooelzkow, 2001) cioè beni pubblici finalizzati all’accrescimento della competitività del territorio generando produttività economica, benessere collettivo e equità sociale, elementi essenziali per un soddisfacente funzionamento della governance. Le politiche di governance rispondono quindi al venir meno dello schema classico centro- periferia in cui lo scopo delle municipalità era principalmente di mantenere il consenso nei confronti della filiera di cui erano terminale periferico e all’istaurarsi di logiche competitive tra città concorrenti. Le strategie di city marketing spingono le città ad accaparrarsi l’assegnazione di risorse, eventi pubblici e centri di attività, innescando una competizione in cui le città coinvolte cercano di dimostrarsi più attrattive delle altre

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(Guala, 2005). In questo contesto, la governance collaborativa diventa sia un fine che un mezzo, in quanto strumento funzionale per il raggiungimento di precisi obiettivi nella competizione ma anche, come dimostra l’elevata diffusione del Regolamento, un elemento attrattivo in sé, che migliora l’immagine della città e ne costruisce una rappresentazione. L’immagine positiva di luogo dove esiste un alto capitale sociale, dove i conflitti sono bassi, i luoghi di marginalità vengono recuperati e rigenerati, la qualità della vita è migliore è un elemento spendibile nella competizione (Amendola, 1997) e viene diffusa intenzionalmente dagli attori istituzionali con lo scopo di attrarre e quindi, indirettamente, di competere (Tocci, 2009). L’esito e il metodo dei processi di competizione tra le città non sono comunque scontati e la governance collaborativa ne costituisce solo una possibilità. Infatti, essi possono essere anche gestiti attraverso differenti tipi di politiche che, nella rigenerazione urbana, privilegino aspetti commerciali o speculativi.