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La Positività della religione cristiana

2 3 Hegel come denkender Geschichtsforscher

3.3.2 La Positività della religione cristiana

La Positività della religione cristiana è il titolo col quale Nohl, nei suoi Scritti

teologici giovanili, raggruppa il testi 32, 33, 34, dell’odierna edizione critica degli studi di Hegel. Nonostante si parli maggiormente della positività della religione cristiana nel testo 32, il primo, questa volta la scelta ci sembra più calzante e più aderente allo spirito dei manoscritti. Per l’analisi dei testi ci manterremo, tuttavia, fedeli alla divisione proposta da Nicolin e dalla Schuler e focalizzeremo la nostra attenzione in particolar modo sul testo 32 che risulta maggiormente rispondente alle esigenze del presente lavoro.

Il testo 32 vide una fase di composizione molto lunga, tra la fine di Luglio del 1795 e la fine di Aprile del 1796. Riusciamo ad avere una testimonianza della sua composizione dalla lettera di Hegel a Schelling del 30 Agosto del 1795:

t’invierò tra qualche tempo il piano di qualcosa che penso di elaborare e per il quale ti chiederò in seguito un amichevole aiuto soprattutto per ciò che riguarda la storia della Chiesa307

Hegel si riferisce proprio a questo testo sulla positività della religione cristiana. Lo scritto si compone di due parti, una più originariamente hegeliana riguardante la positività del cristianesimo, formata da una successione di paragrafi brevi e tematicamente focalizzati, l’altra originata dall’influenza della Gerusalemme di Mendelsohn, formata da paragrafi più lunghi e concettualmente meno circoscritti. Esso tuttavia si riconduce concettualmente alla precedente Vita di Gesù e al problema del dispotismo religioso-politico del suo tempo. Le parole di Lukàcs sono in questo senso illuminanti:

La vera questione centrale del periodo bernese del giovane Hegel è quella della « positività» della religione ( in particolare della religione cristiana).

185

[…] per il giovane Hegel la religione positiva del cristianesimo è un sostegno del dispotismo e dell’oppressione, mentre le religioni antiche e non positive sono state le religioni della libertà e della dignità umana. Il loro rinnovamento è, nella concezione del giovane Hegel, l’obiettivo rivoluzionario che l’umanità del suo tempo è tenuta a realizzare.308

Prescindendo per un momento dal fatto che Lukàcs trascura volutamente un’opera come la Vita di Gesù e in generale la riflessione più propriamente teologica di Hegel in virtù della predominanza di quella politica309, tuttavia egli ha ben focalizzato il tema principale della riflessione di questo testo 32 e in generale degli altri testi di questo periodo che ad esso trasversalmente si ricollegano. Il nodo da sciogliere era questo: «la religione positiva del cristianesimo è un sostegno del dispotismo e dell’oppressione»310. Bisognava capire da dove proveniva la sua positività per smantellare il dispotismo politico. Ed è quello che Hegel tenta di fare in questo testo n. 32.

Hegel esordisce dicendo che sulla religione cristiana si sono sempre avute le valutazioni più contrastanti, ma che il modo di considerarla nel suo tempo è quello legato alla sua interpretazione illuministica.

Si leveranno sempre molte voci in contrasto con l’obiezione di principio che tali considerazioni riguardano bensì questo o quel sistema della religione cristiana, ma non la religione cristiana stessa; e ognuno pone il proprio sistema come «la» religione cristiana ed esige che tutti lo abbiano sotto gli occhi. Il modo di considerare la religione cristiana che è in voga nei nostri tempi pone a base della sua dimostrazione la ragione e la moralità, e per la sua spiegazione fa appello allo spirito delle nazioni e del tempo.311

Il contesto di riferimento quindi, anche per questo scritto, è la filosofia di Kant. Hegel comincia a parlare di spirito ebraico, la cui categoria, come sottolinea giustamente Mirri, rimane immutata durante tutto il corso della riflessione filosofica hegeliana312. Secondo Hegel lo spirito ebraico era «sommerso sotto il peso di precetti statutari che pedantemente prescrivevano una regola per ogni banale azione della vita

308 G. Lukàcs, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, cit., p. 50.

309 Per la concezione lukàcsiana dell’Hegel teologico come leggenda reazionaria, cfr supra nota 198. 310

Ibid..

311 G.W.F. Hegel, Scritti giovanili, cit., p. 429. 312 Ivi p. 409.

186 quotidiana»313, inoltre l’esercizio della virtù era «costretto in formule morte»314. Il popolo ebraico era altresì sottomesso ad un popolo straniero, quindi viveva un’«ubbidienza da schiavi»315.

Il contesto culturale, ossia la situazione storica del popolo giudaico, determinerebbe già un preciso indirizzo nello sviluppo del cristianesimo: gli ebrei basavano il loro credo su un esercizio della legalità, ma si trattava di una legge esterna all’individuo, e che quindi già di per sé provocava una scissione. Hegel tuttavia, sorprendentemente, non inquadra l’azione e l’insegnamento di Gesù all’interno di tale contesto, anzi dice che egli

Libero dalla contagiosa malattia della sua epoca e del suo popolo, dalle restrizioni dell’accidia che dissipa la sua attività unicamente nel soddisfare i bisogni comuni e le comodità della vita, e parimenti da ambizione e altre inclinazioni, il cui soddisfacimento, se desiderato, lo avrebbe spinto a venire a patti con il pregiudizio ed il vizio, si accinse ad elevare religione e virtù a moralità, a restaurare la libertà di questa in cui consiste la sua essenza.316

Gesù, quindi, era per il suo popolo una sorta di kantiano ante litteram: il suo scopo era quello di sostituire alla legalità ebraica la libertà della moralità pura che fa capo alla ragione universale. Il Nazareno desiderava riportare il suo popolo ai «puri principi morali»317, in base ai quali «giudicò le cerimonie, il gran numero di espedienti escogitati per eludere la legge, e la pace che la coscienza trovava nell’osservare la lettera della legge, nei sacrifici e negli altri riti, invece che nell’ubbidienza alla legge morale»318. Gesù, però, «ebbe il dolore di vedere il crollo totale del suo piano di introdurre la moralità nella religiosità della sua nazione, e di vedere quali incompleti e incerti effetti avesse avuto il suo sforzo di suscitare […] migliori speranze a una fede migliore»319. Gesù, tuttavia, non si era pronunciato contro «la religione stabilita, ma solo contro la superstizione morale, che le esigenze 313 Ivi, p.430. 314 Ibid. 315 Ibid. 316 Ivi, p. 431. 317 Ibid. 318 Ivi, pp. 431-2. 319 Ivi, p. 432.

187 della legge morale fossero da considerare soddisfatte quando si fossero osservate le pratiche della religione»320.

È importante fare delle precisazioni circa la figura di Gesù fin qui delineata. Innanzitutto Hegel non vede nella morte del Nazareno il principio della redenzione, ma solo il fallimento di un progetto pedagogico-morale umano; crolla totalmente la prospettiva della fede cristiana e, quindi, il cristianesimo in toto, in linea con quanto era già stato denunciato nella Vita di Gesù. Proprio in questo contesto si situa il confronto implicito che egli pone tra la figura del Nazareno e quella di Socrate: «Gesù non si pronunciò contro la religione stabilita»321. Egli, quindi, come il suo predecessore ateniese, si muoveva nel rispetto delle leggi del suo popolo, e ancor di più per questa ragione il suo progetto tese ad assumere una valenza solo pedagogico- morale. Tuttavia egli fu vittima, così come Socrate, del dispotismo politico. È evidente come qui Hegel volesse mettere ancora più in risalto l’azione ingiusta della politica che si serve del cristianesimo per attivare il suo giogo.

Risulta incomprensibile, di conseguenza, che dalla dottrina di Gesù, si sia originata la positività della religione cristiana. Da questo momento in poi si assiste alla totale inversione della concezione hegeliana circa la figura di Gesù: è proprio nella sua predicazione e nel suo continuo rimandare alla fede in un’autorità divina trascendente l’individuo, che si trovano i germi della positività di questa religione. Hegel, tuttavia, giunge a questo assunto molto gradualmente. Ai fini di una esaustiva analisi del testo, seguiremo qui la dialettica di questa affermazione.

Nel capitoletto intitolato Donde derivò la positività?, Hegel sembra ricapitolare, inizialmente, tutte le caratteristiche che farebbero di Gesù il «maestro di una pura religione morale e non di una religione positiva».322 Il leitmotiv di queste osservazioni risiede nel fatto che tutte le dottrine che non poggiavano su fatti, come i miracoli, l’attesa di un Messia, la presenza di un essere maligno per le malattie incurabili, fossero tutte «rappresentazioni dei suoi contemporanei»323 delle quali Gesù si era 320 Ibid. 321 Ibid. 322 Ivi, p. 433. 323 Ibid.

188 servito per destare «l’attenzione di un popolo sordo alla moralità»324, ma lo scopo principale del Nazareno consisteva sempre nella educazione alla virtù morale, e le suddette rappresentazioni altro non erano se non un modo per raggiungere tale fine325. E proprio a questo punto della trattazione che comincia gradualmente a farsi strada l’idea hegeliana che la positività della religione cristiana derivi dalla dottrina di Gesù.

Che insomma la dottrina di Gesù non sia in generale positiva e non abbia voluto fondare niente sulla sua autorità; contro questa tesi si levano due partiti, i quali concordano nel ritenere che la religione contiene bensì i principi della virtù ma al contempo ha anche prescrizioni positive per acquistare la benevolenza divina più con esercizi, sentimenti e fatti, che con la moralità. Ma questi due partiti si differenziano l’un l’altro in ciò: l’uno ritiene questa positività un elemento inessenziale e non accettabile in una religione pura, e perciò non vuole concedere neanche alla religione di Gesù, il rango di religione fondata sulla virtù; al contrario, l’altro partito pone la preminenza della religione di Gesù proprio in tale positività, che ritiene così sacrosanta come principio dell’eticità, basando anzi spesso questi su quella, e concedendole talvolta un’importanza maggiore.326

A prescindere che si voglia prendere le parti dell’uno o dell’altro partito (per il secondo è più facile stabilire la positività, poiché essa esce già «in forma positiva dalla bocca di Gesù che richiese fede nei suoi insegnamenti»327), ciò che comunque non cambia è lo scopo hegeliano di ricercare «sia nella forma originaria della religione stessa di Gesù, sia nello spirito dei tempi, alcuni motivi universali che fecero si che ben presto la religione […] divenisse dapprima una setta e poi una fede positiva»328. I motivi per i quali questa religione divenne una fede positiva ruotano tutti intorno al necessario carattere autoreferenziale delle dottrine professate da Gesù:

Proprio come in colui che insegna virtù e vuole lottare contro la corrente della corruzione morale della sua epoca ha particolare importanza il carattere morale a lui proprio, senza di cui le sue parole cadrebbero morte

324 Ibid.

325 Si noti qui l’eco, oramai piuttosto vago, della Volksreligion e della sua canalizzazione della sensibilità e delle esigenze del popolo per la realizzazione della religione razionale. Anche in questo contesto, la figura di Gesù si serviva di un mezzo per il raggiungimento della massima virtù, che non era costituito dalle naturali esigenze del popolo, ma dalle rappresentazioni comuni fornite dai dogmi religiosi

326 Ibid.. 327 Ivi, p. 434. 328 Ivi, p. 435.

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e fredde dalle labbra, così nel caso di Gesù, parecchi elementi concorsero a rendere la persona del maestro più importante di quanto fosse in sé necessario per raccomandare la verità da lui insegnata329

Il motivo dell’autoreferenzialità ce lo suggerisce Hegel nel momento in cui nelle battute iniziali del testo ci descrive la società ebraica nella quale il Nazareno si trovò ad operare. Egli costituiva un eccezione e proponeva una virtù che difficilmente poteva essere fondata sui precetti che governavano quella società. Il popolo ebraico, abituato ad una religione basata sulla legalità, piuttosto che sulla moralità, necessitava in sostituzione delle leggi di esempi forti e convincenti; Gesù doveva riuscire a diffondere la sua dottrina riproducendo in qualche maniera l’autorità costituita dal rispetto di una legge. Questo è il principale motivo dell’autoreferenzialità del messaggio del Nazareno.

Gesù fu invero costretto per se stesso a parlare molto di sé e della sua persona[…] in questo solo modo poteva avvicinare il suo popolo. Gli ebrei erano intimamente convinti di aver ricevuto da Dio l’intera loro costituzione, le loro leggi religiose, politiche e civili. Questo era il loro orgoglio; e questa loro fede escludeva ogni autonoma speculazione e si limitava allo studio delle sacre fonti, restringendo l’efficacia della virtù alla cieca ubbidienza verso questi precetti che gli ebrei non si erano dati da sé. Il maestro che avesse voluto realizzare nel suo popolo qualche cosa di più che tramandare un nuovo commentario a questi precetti e avesse voluto convincerlo dell’inadeguatezza della fede statutaria della chiesa, doveva necessariamente basare le sue affermazioni su un’eguale autorità. Volersi richiamare solo alla ragione avrebbe significato predicare ai pesci, poiché gli ebrei non avevano alcuna sensibilità per un richiamo del genere.330

L’intrinseca costituzione dello “spirito ebraico” rendeva necessaria l’autorità del nuovo maestro. Gesù fu aiutato in questo dall’“attesa messianica”: gli ebrei credettero presto che il Nazareno fosse il messia, il «plenipotenziario di Jeova»331 che «doveva restaurare sin dalle fondamenta lo stato ebraico»332. E il maestro di virtù, secondo Hegel non poté contraddirli, «poiché questa loro supposizione era l’unica condizione perché trovasse seguito presso di loro»333. Ciò fu poi determinato da un 329 Ivi, p. 437. 330 Ibid.. 331 Ivi, p. 438. 332 Ibid.. 333 Ivi, p. 439.

190 altro rilevante fattore: «Niente ha contribuito più di questa fede nei miracoli a rendere positiva la religione di Gesù e a fondarla interamente sull’autorità»334. Hegel non manca di sottolineare tuttavia che Gesù non esigeva fede nei suoi miracoli, ma nella sua dottrina, il che, pur dimostrando che l’autoreferenzialità non era voluta e pur salvando la sua integrità morale, tuttavia non era in pieno accordo con il significato profondo della virtù fondata sulla pura moralità: Hegel non manca di sottolineare che le verità eterne valide e universalmente necessarie non devono fondarsi sulla dottrina di un singolo bensì solo sull’«essenza della ragione»335. Tuttavia non fu questa la via che prevalse per educare il popolo alla virtù, bensì «furono i miracoli accettati con fiducia e fede che fondarono la fede sull’autorità del loro autore e l’autorità di questi divenne il principio dell’autorità morale»336. I garanti di questa autorità furono i

discepoli, la causa più profonda della riduzione dell’insegnamento della fede di Gesù a fede positiva. Nel capitoletto Il positivo derivò dai suoi discepoli337, Hegel ci

fornisce le sue motivazioni al riguardo.

I discepoli si distinsero per tutte le virtù positive, rettitudine, coraggio e costanza nel professare la dottrina di Gesù, al quale erano legati soprattutto per un sentimento di amicizia338. La loro sfera di attività era piuttosto limitata, «nessuno di loro si era segnalato come condottiero o profondo uomo di stato, anzi si facevano un vanto di non essere tali»339. Quando diventarono discepoli di Gesù «il loro orizzonte si allargò un poco, non tuttavia al di sopra di tutte le idee e pregiudizi degli ebrei»340,

essi si legarono in amicizia con lui e l’aderenza alla dottrina di Gesù dipese molto da questa amicizia, che in un certo senso aveva allargato il loro campo di attività; «ogni loro interesse era circoscritto alla persona di Gesù»341 per cui, dopo la sua morte, tramandare questa dottrina divenne il loro vero unico scopo; ma essi non

334 Ivi, p. 440. 335 Ibid. 336 Ibid. 337 Ivi, pp. 442-443. 338 Ivi, p. 442. 339 Ibid.. 340 Ibid.. 341 Ivi, p. 443.

191 tramandarono i veri insegnamenti del Nazareno, bensì la fede in lui, ossia il loro stesso modo di vivere la predicazione del loro maestro.

Cristo dice: «Chi crede», ma questo non significa affatto «chi crede in me». E che sia da intendere così o meno gli apostoli tuttavia lo interpretarono proprio in questo senso, e lo «scibolet» dei loro amici, il cittadino del loro regno di Dio non fu la virtù o la rettitudine, ma Cristo342.

Ed era questo il messaggio che i discepoli comunicavano anche durante le visite nei paesi nei quali dovevano diffondere il messaggio di Gesù. Convinti che la vera fede consistesse nel credere nelle parole del Nazareno, durante i loro viaggi si limitavano ad «attirare l’attenzione del popolo su di sé e sul maestro e diffondere la storia dei suoi atti miracolosi»343. Fu, così, un’errata interpretazione dei discepoli il

motivo principale della trasformazione della religione cristiana in una religione positiva. Ciò ebbe un enorme impulso soprattutto dopo la resurrezione di Cristo poiché Gesù in quest’occasione disse ai suoi discepoli «di diffondere la sua dottrina nel suo nome»344. Fu così che la religione cristiana si trasformò: la setta divenne qualcosa di più grande e cominciò a contrapporsi alla fede ufficiale dell’epoca. Il cristianesimo diffondendo la sua dottrina a tutta la comunità, veniva necessariamente a scontrarsi con lo stato e i suoi precetti, soprattutto perché la società ebraica basava la sua legalità sui precetti derivanti da una religione che il cristianesimo adesso contrastava. Da questo momento in poi inizia la seconda parte del testo che, come dice Peperzak,

E’ una lunga riflessione sull’istituzionalizzazione della chiesa primitiva e sui rapporti tra chiesa e stato che da essa scaturiscono. Hegel estremizza qui la teoria kantiana della chiesa che non può essere che una comunità di amici in cui ognuno è libero di entrare o uscire quando vuole345.

Assodato che il cristianesimo sia una religione positiva, questo discorso viene adesso totalmente messo da parte a favore di una riflessione nei rapporti fra la chiesa positiva e lo Stato. A tal proposito Hegel si rifà in più punti alla Gerusalemme di Mendelssohn, che separava radicalmente la società religiosa da quella civile. Hegel

342 Ivi, p. 204. 343

Ivi, p. 444. 344 Ivi, p. 445.

192 comincia la sua riflessione dicendo che il patto fra i primi cristiani «può facilmente divenire molesto e limitativo se si estende oltre una piccola cerchia e si impiccia di cose che propriamente dovrebbero sempre essere lasciate alla libera scelta del singolo»346. La chiesa tende spesso infatti a diventare, per sua costituzione intrinseca, un contraltare allo Stato perché «diviene una fonte di diritti e di doveri interamente indipendenti dallo Stato temporale»347.

Da questo momento in poi Hegel fa propendere la sua riflessione verso la totale separazione fra Stato e chiesa, facendola dipendere da motivazioni legate proprio alla natura intrinseca dei due ordini

Le leggi civili riguardano la sicurezza della persona e della proprietà di ogni cittadino; completamente fuori discussione sono le sue opinioni religiose. Perciò, qualunque sia la fede che il cittadino professi, lo Stato ha il dovere di difendere i suoi diritti come cittadino, ed egli può esserne privato, nei riguardi dello Stato, solo se lede i diritti altrui348

Come rileva bene Rosenzweig nella sua opera Hegel e lo Stato, da questo momento della trattazione assistiamo a un Hegel dominato dall’idea di contratto349, e non si tratta più dell’idea rousseauiana della stipulazione di un patto di un singolo con tutti gli altri; soprattutto per quanto riguarda il problema della posizione della chiesa nei confronti dello Stato, Hegel si avvicina maggiormente, come detto sopra, al Mendelssohn della Gerusalemme, ma da un altro punto di vista. Nell’autore della

Gerusalemme la separazione di Stato e chiesa si fonda sull’impossibilità di stipulare un contratto con i problemi morali dell’uomo, la riflessione di Hegel invece proviene dalla sua concezione di società, che si distingue in libera e coercitiva350. Lo Stato rappresenta il potere coercitivo, e deve garantire che i doveri di un cittadino siano diritti per l’altro e non può tollerare al suo interno un altro Stato, per il quale i diritti si fondano unicamente su doveri assunti volontariamente da chi ha voluto entrare a far parte di questo Stato nello Stato, ossia la chiesa.

346 G.W.F. Hegel, Scritti giovanili,cit., p. 463. 347 Ivi, p.466.

348

Ivi, pp. 468-469.

349 F. Rosenzweig, Hegel e lo Stato, cit., p. 51. 350 Ibid.

193

Entrando io in una società di tal genere, i membri di questa acquistando verso di me certi diritti che si fondano soltanto sulla mia volontaria partecipazione alla società[…]. I diritti su di me che io concedo ad una tale