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Su un film mai girato, tra Fellini e della Corte

Sommario 1. Un opaco intertesto, o «ritrattone», veneziano: ragioni di uno sguardo comparati-

2 Posizioni dialogant

Ho accennato in precedenza alla funzione di pungolo, di costante invito a visitare Venezia e riprendere in mano il progetto, rivestita nel dialogo da della Corte. Lette nel loro assetto diacronico, le epistole chiarificano alcuni spunti contenuti nella versione del trattamento che possediamo, ritraen- do lo scrittore veneziano come l’artefice di un continuo rilancio dell’idea progettuale, di un tentativo reiterato di rimotivare il regista mediante il suggerimento di nuovi elementi, l’invio di materiali narrativi, di ipotesi di sceneggiatura cui Fellini si riferisce in più punti nelle sue repliche. Tra queste ultime si precisa, in particolare, come il continuo differimento degli incontri-sopralluoghi, e della collaborazione in senso proprio, materiale (un confronto de visu che articoli il piano in una discussione concreta e protratta), cui gli stessi inviti si legano, non sia l’effetto di una posa, da parte di Fellini. Piuttosto, è da leggere come la risultante necessaria di un decennio nel quale il regista è implicato in tempi e impegni di pro- duzione frastornanti; a questi si accompagna un profondo senso di crisi, di disinganno per le sorti politiche ed estetiche della cinematografia nel nostro Paese. Tornerò nell’ultimo paragrafo su questo tema; basti per ora accennare alla viva riconoscenza, al sentimento di familiarità che Fellini prova per l’interlocutore, espresso già agli esordi della corrispondenza, nell’autunno del 1981: «Caro amico, ho letto i tuoi racconti veneziani che sono bellissimi, e con gioia mi ripeto che avevo ragione a sentirti un col-

laboratore prezioso, congeniale; avremmo potuto lavorare bene insieme

prima della morte del cinema».6

La lettera appare l’espressione di un reciproco trovarsi; la coscienza di una congenialità fra spiriti creativi visionari, aperti ad accogliere nella loro opera elementi cospicui di trasfigurazione fantastica, nonché le suggestio- ni della parapsicologia, si estenderà nel tempo, fra la partecipazione a un lutto dell’uno e le preoccupazioni per lo stato di salute dell’altro, sino a far sprigionare dalla penna del regista reiterate dichiarazioni di un profondo sentimento di amicizia, ai limiti della fraternità: «Anche se ci conosciamo poco e ci siamo visti soltanto qualche volta ho sempre provato per te una simpatia e un affetto da compagno di scuola. Ti ho voluto bene subito, da quando ho letto i tuoi primi racconti di fantascienza e non ti conoscevo

ancora».7 E ancora: «ho ricevuto la tua affettuosa, carissima letterina, e

più passa il tempo e più mi affeziono, ed il sentimento di amicizia che ho provato subito dalla prima volta che ti ho incontrato è diventato così familiare e confortante per cui mi sembra che tu sai tutto di me; e anche se non ci si vede mai e si parla pochissimo, sento che mi conosci molto di

più e meglio di altri amici che frequento da tanto tempo»;8 «Caro Carlo

grazie fratellino mio»,9 per non citare che alcuni passi intonati al registro

sopra descritto.

Ora, su una tale base di riconosciuta, mutua affinità, o congenialità, si slanciano le immagini fluide della Venezia comunemente congetturata: a distanza di anni dai primi discorsi sul film da farsi, lo scrittore, proprio perché intimamente convinto dell’essenza precipuamente felliniana del progetto, «riprov[a] a metter[e] in corsa» il suo interlocutore «sulla rotta di Venezia, non perché io sia della Liga Veneta (in questo senso potrei sentirmi birmano o afghano) ma perché questo spazio mi pare sempre più

che possa essere, profondamente, uno dei tuoi».10 Una Venezia, dunque,

sganciata da ossessioni localistiche, tanto immune da tentazioni oleografi- che quanto sottratta a idealizzazioni nostalgiche; quello che segue è il trat- teggio di una storia posta in comune con Fellini perché la visione dell’uno trasmuti e si fonda nell’immaginazione dell’altro; ne viene l’evidenziazione di alcune immagini imprescindibili, nell’elaborazione del soggetto, e al-

6 Federico Fellini a Carlo della Corte, 30 ottobre 1981 (CISVe, Fondo «Carlo della Corte»,

Serie «Corrispondenza», UA 210, n.1).

7 Federico Fellini a Carlo della Corte, 16 aprile 1986 (CISVe, Fondo «Carlo della Corte», Serie «Corrispondenza», UA 210, n. 6).

8 Federico Fellini a Carlo della Corte, 17 giugno 1988 (CISVe, Fondo «Carlo della Corte», Serie «Corrispondenza», UA 210, n. 17).

9 Federico Fellini a Carlo della Corte, febbraio 1990 (CISVe, Fondo «Carlo della Corte», Serie «Corrispondenza», UA 210, n. 25).

10 Carlo della Corte a Federico Fellini, 5 giugno 1987 (CISVe, Fondo «Carlo della Corte», Serie «Corrispondenza», UA 210, n. 11).

tamente simboliche, come la «torre-abitazione», «una specie di falanste- rio prelecorbusieriano naturale», dove si è rifugiato a vivere il «pregiato vecchione» Palazzeschi, famoso scrittore («ma, meglio, potrebbe essere anche un pittore», che della Corte vedrebbe «parlare con le ombre», oltre a tratteggiarlo come «un tantino alcolizzato: è un tema stracittadino, e nel caso, anche giusto»), dalla cui isolata prospettiva Venezia verrebbe «vista

e sentita soltanto o quasi».11 Non è, questo, che uno dei tanti frammenti,

degli episodi di Venezia «rapidi, scintillanti come le sue acque», ipotizzati da Fellini, e questo in contrapposizione alla fisionomia di «ritratto in ca- pitoli» (Tornabuoni 1988) approntata a suo tempo per Roma; ancora per ragionare delle atmosfere, come pure dei contenuti del film, già in passato della Corte aveva concepito specifici sviluppi della sceneggiatura, oltre a una visione d’assieme della particolare forma urbana alla quale il film si sarebbe dovuto ispirare:

Sto vedendo, antropologicamente, una Venezia sempre più estremistica, scucchiaiata di ogni medietà, abitata solo da vecchi e bambini, rintanati nei loro quartieri, ai lati della Strada Nova, che si affacciano di nascosto sulle arterie maggiori per spiare i ‘foresti’, e non si capisce se siano finti questi o quelli: una Venezia fatta di case di riposo, ospedali, orfanotrofi, che assediano palazzo ducale e altri monumenti deturpati, scorporati da ogni realtà. Un pizzico di macabro fantascientifico, come le storie di bambini perfidi (che nell’intimo sono degli alieni) di Bradbury, di fanta- scienza sociologica, intendo dire, perché mi pare che veramente i trenta/ quarantenni siano quasi invisibili da queste parti: anche se appunto scodellano bambini, che poi vociano per i campi. Ma i padri lavorano insieme con le madri in terraferma, a Marghera, magari più lontano, e tornano a notte fonda. I bambini diventano degli scout della città, guer- reggiano con i turisti, spalleggiati da vecchi esasperati e vergognosi

della loro condizione di emarginati.12

Nella sua replica Fellini non esita a definire «affascinante»13 l’ipotesi di

«fantascienza sociologica» avanzata dall’amico, come pure riterrà «sem- pre affascinanti» gli spunti inviatigli in seguito, capaci di riproporgli «l’i-

nalterata seduzione dell’antico progetto veneziano»;14 se è vero che, dirà,

11 Carlo della Corte a Federico Fellini, 5 giugno 1987 (CISVe, Fondo «Carlo della Corte», Serie «Corrispondenza», UA 210, n. 11).

12 Carlo della Corte a Federico Fellini, 15 febbraio 1984 (CISVe, Fondo «Carlo della Corte», Serie «Corrispondenza», UA 210, n. 4).

13 Federico Fellini a Carlo della Corte, 23 febbraio 1984 (CISVe, Fondo «Carlo della Corte», Serie «Corrispondenza», UA 210, n. 5).

14 Federico Fellini a Carlo della Corte, 10 giugno 1987 (CISVe, Fondo «Carlo della Corte», Serie «Corrispondenza», UA 210, n. 12).

riguardando nei cassetti della scrivania, fra i vari progetti inattuati, «que-

sto su Venezia mi sembra ancora il più tentante»,15 è altrettanto vero che

l’anno successivo, un «ultimo tentativo (che poi sarebbe il primo)» an- nunciato a della Corte, «cioè quello di mettermi tranquillo in un alberguc-

cio […], e passeggiare con te in cerca del filo del gomitolo»,16 è destinato a

rimanere anch’esso lettera morta. E nondimeno le sue parole annunciano, con una certa efficace lucidità, la questione fondamentale per ricostruire le vicende del progetto veneziano: la scoperta del «filo del gomitolo», ovvero la difficoltà oggettiva di unificare i singoli episodi in una visione coeren- te, la consapevolezza di fondo che fare un film su Venezia «è un’impresa

che non può riuscire perché pretende di esprimere l’inesprimibile»17 (e il

soggetto, con la sua insistenza sulla figura di un regista americano che soccombe all’impraticabilità dell’idea di dirigere un film veneziano, pare fissare e reduplicare, con un chiaro valore metanarrativo, la coscienza, da parte di Fellini, dell’impossibilità di racchiudere Venezia in una forma filmica compiuta: «Forse la chiave, l’idea di base, il sentimento del film potrebbe essere il tentativo inane, la difficoltà insuperabile, l’assurdità di pretendere di raccontare con mezzi appartenenti allo spettacolo, e quindi scenografie, riferimenti pittorici, […] procedimenti allusivi, suggestioni immateriali, seduzioni oniriche, una città, appunto Venezia, che appare, si esprime, è un’invenzione teatrale, il prodotto di una fantasia, un sogno» – Fellini 1995, p. 65).

Nonostante ciò, l’impresa che sembrava essere irrimediabilmente nau- fragata riceve nuovi impulsi, nella visione pessimistica di Fellini continua

a lampeggiare «un filo esilissimo»,18 nuove congiunture produttive condu-

cono a reputare imminente la realizzazione del film veneziano, nell’ambito di un accordo di esclusiva con Raiuno Cinema (cfr. Tornabuoni 1988; Anon. 1988). Ma, fatto salvo un «sussulto di vita» che proverrà, nel maggio del

’91, dal ventilato interessamento da parte di finanziatori giapponesi,19 agli

occhi di Fellini il progetto finisce con l’assumere contorni simili a quelli

15 Federico Fellini a Carlo della Corte, 18 aprile 1986 (CISVe, Fondo «Carlo della Corte»,

Serie «Corrispondenza», UA 210, n. 7).

16 Federico Fellini a Carlo della Corte, 10 giugno 1987 (CISVe, Fondo «Carlo della Corte»,

Serie «Corrispondenza», UA 210, n. 12).

17 Sono parole dello stesso Fellini, citate in Tornabuoni 1995.

18 «Rimango unito proprio per un filo esilissimo al nostro antico progetto, e quindi le tue lettere, la tua voce, sono l’unico contatto che a tratti mi riporta immagini, frammenti intenzioni che adesso per forza di cose devo supplicare di avere pazienza e aspettare ancora un po’, il tempo di finire questo film [La voce della luna], e poi finalmente…», Federico Fellini a Carlo della Corte, 14 novembre 1988 (CISVe, Fondo «Carlo della Corte», Serie «Corrispondenza», UA 210, n. 18).

19 Federico Fellini a Carlo della Corte, datata genericamente «maggio 1991» (CISVe, Fondo «Carlo della Corte», Serie «Corrispondenza», UA 210, n. 30).

dell’ossessione-Mastorna, film ‘maledetto’, sceneggiato e mai realizzato («mi sembra che il ritrattone su Venezia rischi di andare a far compagnia

a Mastorna, altra vecchia chimera impolverata e ormai al tramonto»);20 si

è detto del sapore rinunciatario e vagamente conclusivo del telegramma inviato dal regista nell’ottobre di quell’anno.

Rimane, del dialogo intorno alla chimerica Venezia, l’immagine persi- stente di uno scambio creativo sempre nutrito della vicendevole capacità di immedesimarsi nell’immaginazione narrativa dell’altro. Non svarierò eccessivamente, spero, in questo senz’altro indotto dal tema veneziano, nel sovrapporre alle figure dello scrittore e del regista i tratti di Marco Polo e del Kan, nelle Città invisibili, immaginando il dialogo a distanza intorno al film come una protratta, fantasiosa invenzione-catasto di Ve- nezie infinite e inafferrabili, affidata alla collaudata visione narrativa di della Corte, ed entusiasticamente condivisa da Fellini, che ne apprezza e auspica la costante e ferma guida – metaforica e non – per le calli, sino ad affermare quanto segue:

E adesso, che altro aggiungo? Che spesso mi auguro, desidero sempre farlo [scil. il film]? Ma sì, è anche vero e tu ne sei la conferma, tu sei ormai Fellini o almeno quel Fellini che da tempo immemorabile voleva,

vuole fare «Venezia».21