Paolo Rizzi
l’ordine sociale spontaneo rappresenta la visione più radicale dell’autoregolamentazione sociale grazie al mercato, che viene fatta risalire alla metafora della «mano invisibile» di adam smith1
risale alla scoperta fatta dai ricercatori sociali del XViii secolo degli “effetti in intenzionali delle azioni intenzionali”, per cui anche l’auto-interesse può portare al benessere collettivo2. costituisce il
fondamento teorico dell’approccio neoclassico marginalista che individua nell’equilibrio economico generale la soluzione ottimale ai problemi di coordinamento tra gli attori grazie ai meccanismi della concorrenza e dei prezzi. È una impostazione di analisi economica e sociale che si oppone in modo drastico all’ingerenza del pubblico nelle problematiche collettive fino a criticare lo strumento principe della politica, vale a dire la pianificazione, sia essa della città o dello sviluppo economico.
moroni (2007a) adotta questa impostazione per criticare in modo estremo la legittimità e l’efficacia dell’azione pubblica. in realtà l’autore si riconosce più espressamente in un secondo ap- proccio liberale, diverso da quello strettamente neoclassico, che fa riferimento alla scuola austriaca, in cui il mercato viene concepito come «catallassi», ovvero forma peculiare di ordine sociale sponta- neo, con attori dotati di razionalità limitata e preferenze imprevedibili e mutabili, capace di produrre non soluzioni di ottimo in termini assoluti, ma di collaborazione involontaria nella produzione di conoscenza e apprendimento collettivo dinamico “à la Hayek“.
1 secondo roncaglia (2005) il riferimento alla mano invisibile di smith sarebbe
fuorviante perché non rispondente alla visione complessiva dell’economista scozzese che non rifiuta la necessità dell’intervento pubblico e soprattutto non pone al centro del proprio pensiero l’autoregolamentazione del mercato.
2 la Favola delle api di Mandeville del 1714 rappresenta la prima formulazione
della nozione di divisione del lavoro, in cui i “vizi privati” possono portare alla felicità pubblica (antiseri, daherendorf 1994).
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la parte destruens del lavoro di moroni relativa ai mali della pianificazione e dell’intervento pubblico risulta precisa e docu- mentata: l’amministratore pubblico non riesce a disporre delle informazioni necessarie a mettere in atto piani e politiche, perché alcune informazioni non sono acquisibili di principio (preferenze e opportunità) o addirittura inconsce; soprattutto il coordinamento pubblico non riesce a portare un sistema complesso (come la società o la città) ad uno stato finale desiderato, perché nascono «catene imprevedibili di effetti inintenzionali»; ancora, la pianificazione di sistema e quindi lo strumento più alto dell’intervento pubblico rischia di ridurre le libertà individuali (negative) attraverso norme specifiche e congiunturali, e di limitare la «efficienza catallattica», cioè l’ampiezza di possibilità degli individui di perseguire il proprio piano di vita inibendo la produzione e l’utilizzo di conoscenza diffusa attivata dagli individui. Violando la rule of law con norme specifiche e particolari, l’autorità pubblica inficia il funzionamento dei sistemi di mercato, in primis il meccanismo dei prezzi, limitando la sperimentazione sociale e creando spazi per interventi non solo inefficienti ma talora ingiusti perché discriminanti.
a sostegno di questa critica, oltre a innumerevoli contributi teorici3, troviamo verifiche empiriche molto ricche (non solo sul-
l’esperienza del collettivismo sovietico), che dimostrano come i “fallimenti dello stato” abbiamo portato a situazioni di inefficienza di sistema, rallentamento della “creazione distruttrice” del mercato, indebolimento della capacità innovativa dei sistemi economici, costi macroeconomici evidenti in termini di carico fiscale, inflazione, insorgere di debito pubblico, etc. di qui la critica ormai diffusa al capitalismo temperato adottato in molti paesi europei (mercato temperato dal sistema di welfare state) rispetto al modello anglo- sassone, interprete più fedele della capacità del mercato di liberare gli animal spirits.
la parte costruens del lavoro di moroni risulta stimolante ma an- cora debole sul piano dei riscontri empirici. la proposta dell’autore è quella di una forma di liberalismo di matrice continentale, definito «attivo», che opta per un approccio di individualismo etico-politico («solo gli individui contano e ogni individuo conta»), che distingue nettamente tra sfera del giusto e sfera del bene e legittima l’intervento pubblico solo per la prima dimensione, garantisce libertà individuali di tipo negativo, attraverso sistemi di norme e regole imparziali e
3 solo per citare alcune riflessioni in tal senso si veda antiseri, dahrendorf
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impersonali, ovvero generali e astratte e soprattutto stabili e preve- dibili. l’ordine catallattico quindi non presupporrebbe il mercato come sistema privo di regole, ma si fonderebbe solo su alcune regole «di cornice» che favoriscono l’aggiustamento reciproco ed inintenzionale delle azioni degli operatori economici, attraverso una forma di competizione complessa che porta a vantaggi diffusi seppure non intenzionali.
la prospettiva del liberalismo attivo punterebbe a ridare fles- sibilità non alla pianificazione di sistema ma alla società stessa consentendole di auto-organizzarsi grazie ai suoi «margini endo- geni di elasticità»; limiterebbe il ruolo dell’intervento pubblico alla regolazione per mezzo di sistemi relazionali di norme, con una visione dello stato come garante delle regole piuttosto che fornitore di servizi. tali norme consentirebbero un’efficace coordinazione «di principio» di una pluralità di azioni indipendenti di individui indipendenti, impedendo ingiustificate forme di monopolio o van- taggio particolare. moroni propone ad esempio come modello alternativo alla pianificazione urbanistica tradizionale di natura pubblica forme di zonizzazione privata come i restrictive covenants di radice statunitense.
la visione liberale adottata non esclude quindi la possibilità che lo stato garantisca l’accesso a certi beni e servizi di base per cate- gorie deboli di popolazione, attraverso la distribuzione di buoni o risorse monetarie ove tali beni o servizi siano già forniti dal mercato, o la fornitura pubblica ove al contrario tali beni o servizi non siano prodotti dal mercato (ad esempio per certe infrastrutture).
ma l’enfasi della proposta si sposta in modo deciso sul ruolo dell’azione privata, sia nelle attività a scopo di lucro, per le quali la ricerca del profitto non solo risulta legittima ma anche colletti- vamente provvidenziale4, sia nelle attività non a scopo di lucro.
Gli esempi in questo campo sono le associazioni comunitarie o le associazioni di quartiere per fornire servizi aggiuntivi o sostitutivi di quelli pubblici o i Land Trust statunitensi a difesa di luoghi di particolare pregio ambientale. È un richiamo forte alla sussidiarietà verticale e soprattutto orizzontale, che riconosce il più ampio spazio possibile all’azione e alla sperimentazione volontaria e creativa da parte dei privati. la città risulta in tal modo un sistema formato da innumerevoli elementi che interagiscono in modo non lineare e non programmato, ma realtà in grado di evolvere progressivamente e di adattarsi al mutamento continuo delle condizioni.
4 l’autore propone il modello della comunità proprietaria per la sperimentazione
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ora la critica che rivolgiamo a questa impostazione è triplice. innanzitutto a livello teorico l’autore si dimentica quasi del tutto dei “fallimenti del mercato”, ovvero di tutti i casi in cui la presenza di esternalità negative e positive o di beni pubblici (non escludibili e non rivali) rivelano l’inefficienza del mercato stesso. dai casi di antologia dell’inquinamento e della ricerca, al disinteresse del mercato, spinto dal legittimo stimolo dell’interesse privato, alla soluzione di bisogni sociali non facilmente “internalizzabili”.
il secondo punto critico risiede nella sfiducia dell’autore in qual- siasi possibilità di “costruire” socialmente risposte ai bisogni sociali, come se la capacità pianificatoria sia solo di competenza strettamen- te privata se non individuale, e derivi in modo non intenzionale dal- l’interazione spontanea. moroni cioè rifiuta la possibilità di definire consensualmente progetti collettivi per la città, visioni condivise, ma dimentica che anche le attività associative e auto-organizzate (esal- tate quale unica soluzione percorribile all’inefficienza del pubblico) si propongono finalità collettive razionalmente pianificate, seppure in assenza di intervento pubblico. la visione moderna di governance territoriale e pianificazione strategica, a cui l’autore dedica poco spazio nel libro, in realtà si avvicina all’approccio del «volontarismo partecipativo» proposto dall’autore, in cui tuttavia lo stato partecipa non come definitore di fini e stati finali obiettivo, ma come partner e facilitatore dell’incontro dei soggetti sociali ed economici. il rifiuto di moroni per ogni forma di concertazione tra pubblico e privato su singoli progetti di trasformazione urbana, o di concertazione ”caso per caso”, perché contraria all’ideale della rule of law, sem- bra dimenticare che le diverse esperienze di auto-organizzazione proposte soffrono degli stessi limiti di imprevedibilità e difficoltà di conoscenza della pianificazione tradizionale. in fondo lo stesso paradigma degli esiti inintenzionali di azioni intenzionali, assunto dall’autore, rischia di applicarsi anche al modello di liberalismo attivo, ma in senso contrario a quello augurato dalle forme di auto- organizzazione proposte. da un lato la metafora del “condomino allargato”, citato nel testo, deve anche considerare le paradossali contraddizioni delle relazioni condominiali, che esprimono spesso la fatica del coordinamento spontaneo privato, dall’altro il dramma delle favelas indica come l’auto-organizzazione non sempre porti a soluzioni collettive e urbanistiche accettabili.
da ultimo dobbiamo sottolineare come le verifiche storiche dei tentativi di applicare il modello liberale-liberista risultino estremamen- te scarse e soprattutto sconcertanti. le sperimentazioni della scuola di chicago di friedman in alcuni paesi poveri (dal cile di pinochet
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alla bolivia, fino alle richieste del fondo monetario internazionale nel caso delle politiche di aggiustamento strutturale ed alle recenti crisi finanziarie degli anni ’90) hanno dimostrato come la volontà di liberare le forze del mercato possa portare a situazioni lontanissime dalle libertà sociali ed economiche agognate, se non addirittura a esiti di segregazione e imbarbarimento civile inaccettabili (Klein 2007).
utilizzando la massima tanto cara ai liberali contro i mali del- l’interventismo e del paternalismo sociale («di buone intenzioni è lastricato l’inferno»), la recente storia degli esperimenti liberal-liberisti a scala macroeconomica dimostra come la volontà di dare priorità alle regole del mercato e della libertà economica individuale possa semplicemente nascondere gli interessi e gli appetiti illiberali di pochi operatori o gruppi economici o comunque subordinare i diritti delle persone ad astratti schemi teorici. affinché il “liberalismo attivo” non si tramuti nel “capitalismo dei disastri” ma riesca davvero a realizzare ciò che proclama, il criterio dirimente sembra sempre quello del benessere delle persone a partire da chi ha meno diritti. perché il liberalismo sia davvero attivo, occorre che l’interesse co- mune talvolta freni l’appetito personale.