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la regolazione Dell’uso Del suolo in una ProsPettiva nomocratica

Stefano Moroni

ringrazio tutti gli autori che hanno contribuito al presente libro perché mi consentono di chiarire meglio la mia posizione e, spero, di suggerire alcuni spunti di carattere più generale alla riflessione e al dibattito. cercherò, anzitutto, di evidenziare qual è la prospettiva sostantiva più generale entro la quale il mio discorso si inserisce. riba- dirò perché, assunta tale prospettiva, la pianificazione urbanistica di un certo tipo non possa che essere abbandonata e quali conseguenze derivino da ciò per le forme possibili e giustificabili di regolazione dell’uso del suolo. nel seguito, tenterò di prendere in considerazione alcune delle principali critiche rivolte alla mia posizione, per terminare con alcune osservazioni conclusive sulle alternative in campo. L’approccio nomocratico liberale

Lo Stato e la questione delle regole. inizierei osservando che, a parte gli anarchici, chiunque pensa che debba esistere uno stato che fornisce regole pubbliche come base per la convivenza: regole autoritativamente introdotte e fatte autoritativamente rispettare1. ciò,

ovviamente, anche per quanto riguarda l’uso dei suoli. dunque, tutte le posizioni non anarchiche si confrontano relativamente ai diversi compiti che assegnano allo stato, al livello centrale e ai vari livelli locali. parlare di de-regolamentazione con riferimento ad una posizione non anarchica quale quella del liberalismo (attivo) non ha perciò molto senso; come cercherò di mostrare, quello che è in gioco è, piuttosto, un modo diverso di intendere la regolazione e, ovviamente, di regolare2.

1 ossia, regole introdotte da un’autorità legittimata ad usare la coercizione

in modo vincolante per tutti (raphael 1990). È il caso di rimarcare questo punto perché ogni tanto si parla come se si potesse essere a favore di uno stato che non introduca alcuna regola vincolante.

2 la prospettiva del liberalismo attivo dunque non solo non è anarchica, ma deve

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ora, come tutti i liberali hanno da sempre sostenuto3 il mercato

esiste solo se si danno regole comuni e funziona meglio se le regole comuni sono di un certo tipo. non essendo (lo ripeto) anarchico, ritengo che alcune delle regole quadro che presiedono agli scambi di mercato debbano essere garantite dallo stato (moroni 2005 e 2007a)4. il fatto che esistano regole quadro di questo genere non

impedisce ovviamente di dire che la coordinazione delle azioni individuali in un sistema di mercato sia spontanea: le regole in questione stabiliscono infatti semplicemente la cornice entro cui l’auto-coordinazione può avere luogo5. in un ordine spontaneo

dinamico come il mercato, perciò, il sistema delle regole garantite e l’ordine delle azioni emergente non coincidono.

dano friedman 1971, rothbard 1973, taylor 1982) così come qualsiasi altra posizione che ritenga necessaria l’esistenza di uno stato. non mi occuperò della cosa estesamente, ma vorrei ricordare che l’idea liberale (ma, in questo caso, non solo liberale) è che il diritto (inteso come sistema di protezione delle sfere individuali di azione legittima) sia un “bene” diverso da tutti gli altri (che possono invece essere tranquillamente scambiati in una situazione competitiva): più che un “bene”, il diritto correttamente inteso è, infatti, la “condizione” perché tutti i beni possano essere prodotti e scambiati. come scrive anche un libertario (ossia, un liberale radicale) come machan (2006, p. 148): «quando si vive in società, possono sorgere pericoli dall’azione di altri e diventa perciò eticamente necessario considerare questi pericoli. lo stato, correttamente inteso, è l’istituzione spe- cializzata nell’appropriata protezione dei diritti individuali [da questo genere di rischi] (…). la protezione di diritti individuali non è come altre attività (ad esempio, produrre e vendere pane) poiché la sua origine non è l’interazione pacifica ma il problema della forza (…). perciò la politica non può essere ridotta, senza resto, al commercio (che è in sé pacificamente non coercitivo), contrariamente a quanto sostiene l’anarchico». certo gli anarchici replicherebbero che, in assenza di stato, potrebbero crearsi servizi di protezione a pagamento (corti e polizie private) per risolvere il problema dei possibili danni reciproci, ma a ciò è possibile replicare che si tratterebbe di un sistema privo di “ultima parola” in un caso in cui è esattamente questo ciò di cui c’è bisogno perché altre proficue interazioni (anche commerciali) possano aver luogo (p. 149). Gli anarchici potrebbero osservare che, in realtà, anche oggi esistono figure e agenzie private di arbitrato, per cui il meccanismo potrebbe essere semplicemente generalizzato; ma il punto è che tali figure o agenzie possono credibilmente operare oggi perché a loro volta soggette a regole generali – e passibili di essere esse stesse portate di fronte ad una corte pubblica in caso di illeciti (p. 153).

3 a partire da adam smith (1776).

4 a questo proposito, non capisco perché roberto camagni dica che sottovaluto

«il fatto che il mercato è un sistema che ha bisogno, per poter operare, di precise regole quadro».

5 il mercato non è qui tanto uno strumento “allocativo”, quanto, piuttosto, un processo

dinamico di scoperta continua che spinge tutti a mettere inintenzionalmente in comune la conoscenza dispersa (hayek 1948). come ha osservato buchanan (1979), l’idea sem- plicistica e riduttiva secondo cui il mercato sarebbe un mero meccanismo allocativo (un meccanismo per ripartire mezzi scarsi tra fini alternativi dati) è un’idea recente, praticamente imposta dal successo del celeberrimo libro di robbins (1932) e successivamente accolta in maniera pressoché universale nei campi più vari (si veda ad esempio parsons 1951).

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impostare la questione come se esistesse un contrasto tra Stato e Mercato – e come se dovessimo banalmente scegliere tra due semplici meccanismi “allocativi” alternativi6 – è dunque un modo

totalmente fuorviante di vedere la questione: il punto, per qualunque prospettiva non anarchica, è, semplicemente, «che tipo di stato vogliamo». allo stesso modo è totalmente fuorviante porre la que- stione come se fosse in gioco un contrasto tra interesse pubblico e interesse privato: di nuovo, quel che è in discussione è «quale tipo di interesse pubblico riteniamo lo stato debba perseguire»7.

Due prospettive sul ruolo dello Stato e delle regole. scartate le banali e fuorvianti dicotomie stato/mercato e interesse-pubblico/in- teresse-privato, il punto di partenza più interessante per avviare la riflessione è piuttosto distinguere tra due approcci diversi al ruolo dello stato come garante (indispensabile) di certe regole di base della convivenza8. chiamerò il primo approccio teleocratico e il

secondo nomocratico9. l’approccio teleocratico tende a svilupparsi

a partire dall’illuminismo e diventa dominante attraverso l’ottocento e il novecento; procede di pari passo con la convinzione che la ragione e la tecnica possano consentire all’umanità un controllo consapevole e finalizzato della realtà; pressoché tutta la teoria della pianificazione (economica, urbanistica…) novecentesca tende a svilupparsi nell’alveo di un approccio teleocratico. l’approccio nomocratico ha origini più antiche ed è stato, negli ultimi secoli, molto meno seguito; le sue radici sono piuttosto nel riconoscimento dei limiti umani a fronte della complessità del mondo.

ma vediamoli in dettaglio.

l’approccio teleocratico tende a vedere le regole come strumenti per perseguire direttamente fini sostantivi, meccanismi in grado di condurci in linea retta al risultato voluto. le regole servono per raggiungere (o, quantomeno, spingersi in direzione di) una qualche situazione sociale ideale o ottimale che altrimenti non si otterreb-

6 si veda, tra i tanti, przeworski (2003).

7 su questo punto, sia concesso rinviare a moroni (2004).

8 nel far ciò cerco di prendere in considerazione (almeno in parte) la giusta

osservazione di lottieri secondo cui qualunque posizione che accetta l’esistenza di uno stato rischia di cadere vittima di una illusione “costruttivista” (ossia, di una forma razionalista di ingegneria sociale). non posso rispondere qui in maniera esaustiva, ma spero appaia evidente, in quel che dirò tra poco, in quale direzione credo si possa trovare una riposta.

9 i termini si trovano in hayek (1982) che, a sua volta, li riprende da michael

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be10. e ciò tramite una opportuna coordinazione di contenuto di

una pluralità di attività singole. in sintesi, ogni volta che si coglie un problema particolare si immagina una regola dedicata che possa farvi direttamente fronte. in questo caso si tende a credere nella possibilità di disporre di informazioni di dettaglio sulle realtà sociali oggetto d’intervento e ad avere una certa fiducia nella capacità della nostra ragione di gestirle ed elaborarle: se vogliamo utilizzare le regole per raggiungere determinati fini dobbiamo infatti essere in grado di immaginare l’impatto concreto di regole differenti su contesti concreti e scegliere quelle che consentono di raggiungere meglio il fine specifico prescelto. le regole, in questo caso, vanno periodicamente aggiornate e modificate, perché può accadere che non consentano di raggiungere (come sperato) i fini specifici prede- finiti, o perché nuovi fini specifici assurgono all’attenzione. in sintesi, l’approccio teleocratico tende a non vedere grandi differenze tra le regole che presiedono al funzionamento di un sistema semplice e quelle che presiedono al funzionamento di un sistema complesso, tra le regole di una organizzazione e le regole della società.

l’approccio nomocratico considera invece le regole come dispo- sitivi che devono semplicemente garantire la meta-coordinazione di azioni individuali che perseguono i fini più disparati. Qui non c’è alcun fine specifico da perseguire11, né alcun ottimo o stato sociale

ideale in questione12. funzione delle regole non è ottenere risultati,

10 in tale prospettiva strumentale, il diritto viene inteso come un meccanismo per

raggiungere specifici obiettivi (quali che essi siano): il diritto diventa cioè una sorta di “materiale inerte” che può essere modellato in qualsiasi modo si ritenga a tal fine necessario (tamanaha 2006). per quest’idea strumentale delle norme, si veda ad esempio hirsch (1988, p. 4): «la formulazione delle regole cerca di massimizzare o minimizzare alcuni obiettivi specificati». Questa idea del diritto si consolidò nel periodo in cui l’illuminismo si illuse in merito al potere delle nostra ragione: «i filo- sofi illuministi ritenevano che, così come l’ordine naturale poteva essere compreso e sfruttato, allo stesso modo l’ordine sociale poteva essere controllato e guidato» (tamanaha 2006, p. 20); «la convinzione illuminista che gli uomini potessero con- sapevolmente modellare e migliorare le condizioni della loro esistenza incoraggiò una visione strumentale del diritto» (p. 23).

11 «il diritto (…) fornisce una cornice entro la quale le persone portano avanti i

loro separati propositi privati (…). secondo questa concezione, non esiste uno scopo sociale del diritto. il diritto (…) non è specificamente progettato per raggiungere fini sociali espressamente definiti (…)» (buchanan e congleton 2003, p. 13).

12 «le regole (…) non conducono ai migliori risultati in casi particolari, ma sono

al servizio di altri valori. le regole generali garantiscono le virtù della fiducia, della predicibilità e della stabilità: riducendo la variabilità nei casi particolari, consentono agli individui e alle associazioni di organizzare le loro attività (…)» (macedo 1994, pp. 154 e 156). «(…) le regole sono necessariamente subottimali (…). un sistema che si affidi ad una strategia decisionale basata su regole raggiunge i vantaggi conferiti

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ma, esattamente, regolare. le norme non risolvono direttamente problemi, ma creano le condizioni perché le soluzioni possano essere cercate. in certi casi, avere una regola può contare persino più del contenuto della regola13. in questa prospettiva, si riconosce

che le nostre capacità di raccogliere informazioni di dettaglio sulle realtà sociali sono molto limitate, soprattutto perché la conoscenza rilevante è in buona parte “disposizionale” (situata e tacita). inoltre, si dubita delle nostre capacità di trattare tali informazioni in modo completamente razionale. le regole da garantire vanno perciò scelte non tanto sulla base della nostra capacità di confrontare a tavolino tutte le diverse opzioni possibili, ma guardando attentamente e umil- mente al modo in cui alcune regole si sono evolute e sviluppate in tempi lunghi14: per il soggetto pubblico si tratta perciò più spesso di

“riconoscere” regole che hanno funzionato bene (come riferimento quadro) piuttosto che di “inventare” regole totalmente nuove (come strumenti finalizzati). in quest’ottica, le norme di condotta non possono che disciplinare tipi di azioni indipendentemente dagli effetti specifici di queste ultime in casi particolari (per la gran parte ignoti) e alla luce di ciò che una lunga esperienza passata ha mostrato più adatto a favorire una forma di meta-coordinazione tra attività individuali dai fini disparati e mutevoli. le norme non servono infatti per garantire la buona riuscita di particolari piani d’azione, ma per riconciliarne molti, profondamente differenti e in continuo cambiamento15. in questo

caso le regole del diritto vanno cambiate il meno possibile: regole che cambiano frequentemente non sono infatti, in quest’ottica, regole16.

l’approccio nomocratico implica fondamentalmente una ripresa dell’ideale della rule of law – l’ideale della “supremazia del diritto” dalle regole solo abbandonando qualsiasi aspirazione alla strategia decisionale ideale» (schauer 1991, trad. it. p. 166).

13 si pensi alla questione della circolazione stradale: possiamo decidere che

la regola sia tenere la destra o tenere la sinistra, ma la scelta dell’una soluzione o dell’altra è in sé irrilevante; quel che conta è avere una regola (semplice, uniforme e stabile).

14 la sperimentazione ha infatti spesso già avuto naturalmente luogo e per

periodo protratti di tempo, scartando regole inidonee e mantenendo in vita quelle più adatte (hayek 1988).

15 «le norme di comportamento (…) non intendono produrre benefici particolari

e prevedibili (…), ma sono strumenti per molteplici scopi, sviluppati come adeguamen- to a certi tipi di ambiente perché contribuiscono ad affrontare certi tipi di situazioni» (hayek 1982, trad. it. p. 189).

16 l’idea di fondo è che le regole (giuridiche) hanno una sorta di integrità

intrinseca e meccanismi interni di funzionamento che non consentono di usarle in qualsiasi modo vogliamo (fuller 1964).

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– nel suo senso forte e radicale: in un senso cioè che va ben oltre il semplice ideale formale dello stato di diritto (moroni 2007a, pp. 135- 149). in sintesi, l’approccio nomocratico tende a rimarcare la totale e irriducibile differenza tra le regole che presiedono al funzionamento di un sistema semplice e quelle che presiedono al funzionamento di un sistema complesso, tra le regole di una organizzazione (ossia di un ente costruito ed espressamente finalizzato: Gross e etzioni 1985) e le regole della società (ossia di una realtà dinamica inintenzionalmente emergente e caratterizzata dal pluralismo mutevole dei fini singoli: popper 1945; hayek 1982).

riassumendo, possiamo dunque dire che l’approccio teleocra- tico assume che fonte delle regole sia principalmente la ragione e che funzione delle regole sia risolvere direttamente problemi specifici, mentre l’approccio nomocratico assume che fonte delle regole siano soprattutto la sperimentazione sociale e l’esperienza e che funzione delle regole sia creare le condizioni perché svariati imprevedibili problemi possano trovare spontaneamente soluzione nel corso dell’interazione sociale17.

Utilitarismo vs. liberalismo. l’approccio teleocratico è sotteso a diverse prospettive etiche, ad esempio all’utilitarismo, ossia quella teoria etica consequenzialista18 che ritiene che tutte le regole e le

misure pubbliche debbano rispondere al criterio di massimizzazione dell’utilità collettiva, intesa come aggregazione delle soddisfazioni delle preferenze individuali toccate dagli effetti dell’intervento19. È

17 tutto ciò rende anche evidente per quale ragione l’approccio teleocratico

abbia l’inclinazione ad espandere il ruolo delle “tecniche valutative” ortodosse (intese come tecniche di stima degli impatti concreti e identificabili di qualcosa su soggetti specifici e individuabili: si pensi alle analisi costi-benefici e ai vari derivati, alle tecniche di valutazione d’impatto, ecc.) sino a ricomprendere come oggetto di stima anche norme e regole d’uso del suolo (viene qui alla mente il ruolo sempre più ampio riconosciuto a procedure valutative di questo tipo da certa letteratura di piano corrente e da certe recenti leggi urbanistiche regionali), mentre l’approccio nomocratico tenda a ridurre il ruolo di tecniche di questo tipo (ritenendole utili, al più, per giudicare progetti).

18 un’etica è consequenzialista se ritiene che la bontà di un’azione vada

definita e giudicata esclusivamente e precipuamente in termini delle conseguenze che produce.

19 non sto dicendo che solo l’utilitarismo ha alle spalle un approccio teleocra-

tico, però, sicuramente, si tratta di uno degli esempi più evidenti di accoglimento di tale approccio. lo sottolinea criticamente hayek (1982, trad. it. p. 209): «il problema dell’approccio utilitaristico è che essendo una teoria che professa di rendere conto di un fenomeno costituito da un insieme di norme, elimina completamente il fattore che rende necessarie le norme e cioè la nostra ignoranza. mi ha sempre stupito che (…) gli utilitaristi abbiano potuto non prendere in considerazione questo fatto cruciale e cioè

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appena il caso di notare che l’economia normativa dominante, in particolare l’economia del benessere di stampo neoclassico e de- rivati vari, ha una chiara matrice utilitarista20. in questo caso, i diritti

individuali vengono visti e soppesati in termini strumentali rispetto all’utilità collettiva21; come ogni altra cosa, anche i diritti individuali

possono infatti ottenere rilievo solo alla luce dei loro effetti (presunti stimabili) sull’utilità generale. l’intero armamentario tradizionale di giustificazione dell’intervento statale in termini di “fallimenti del mer- cato” e “beni pubblici” è strettamente dipendente dall’accoglimento di una prospettiva etica teleocratico-utilitarista di questo tipo.

l’approccio nomocratico è invece sotteso al liberalismo classico, ossia a quella teoria etica deontologica che ritiene che le regole pubbliche debbano anzitutto salvaguardare i diritti individuali, in maniera indipendente dalle (o, meglio, a priori rispetto alle) incono- scibili e intrattabili conseguenze minute sulle preferenze contingenti. i diritti individuali hanno in questo caso valore intrinseco e soverchian- te su questioni di utilità e di qualsiasi altro genere22; garantiscono

il quadro delle relazioni, non i loro esiti: sono vincoli collaterali alle la nostra ignoranza necessaria di molti fatti particolari. inoltre essi hanno proposto una teoria che presuppone la conoscenza di effetti particolari delle nostre azioni individuali, quando di fatto l’intera esistenza del fenomeno che vogliono afferrare, cioè un sistema di norme di condotta, è dovuto all’impossibilità di tale conoscenza. sembrerebbe che essi non colsero mai il significato delle norme come adattamento all’ignoranza innegabile ed inevitabile della maggior parte delle circostanze parti- colari che determinano gli effetti delle nostre azioni, e, quindi, tralasciarono l’intero fondamento logico dell’azione guidata dalle norme».

20 «la teoria economica delle politiche pubbliche è implacabilmente utilitarista:

le politiche sono ordinate in base alle loro conseguenze in termini di utilità» (hahn 1982, p. 187). «l’intero approccio dell’economia del benessere è fondato più o meno esplicitamente su idee utilitariste, anche quando gli economisti si occupano solo dell’idea dell’efficienza paretiana» (hammond 1982, p. 85). «la teoria del benessere neoclassica rimane una teoria utilitarista (…), una teoria teleologica votata all’idea che le giuste istituzioni o azioni sociali sono quelle che massimizzano il bene definito come somma dei benesseri individuali» (hahnel e albert 1990, p. 27). «l’analisi normativa in economia ha i suoi fondamenti nell’utilitarismo» (sugden 1994, p. 32). «l’utilitarismo è stato la teoria ufficiale dell’economia del benessere» (sen 1996, p. 50).

21 «la concezione secondo cui i diritti non possono essere intrinsecamente

importanti è alquanto radicata nella tradizione economica consolidata, e questo è in parte dovuto all’influenza dell’utilitarismo» (sen 1987, trad. it. p. 64). «i teorici neoclassici hanno messo in luce come il principio (…) che richiede di massimizzare la somma totale delle soddisfazioni non solo permette, ma richiede, (…) interferen- ze negli affari degli individui ogni qualvolta il benessere totale possa essere, così facendo, incrementato» (hahnel e albert 1990, p. 22). per un’analisi generale della questione, si veda roth (2002).

22 Qui non posso che dar ragione a carlo lottieri e al suo richiamo alla centralità

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azioni, non ingredienti del benessere complessivo. l’economia nor- mativa di matrice austriaca, ossia l’economia normativa minoritaria nel novecento, tende ad allontanarsi dall’approccio utilitarista e ad avvicinarsi ad un approccio liberale di questo tipo23.

Vari equivoci terminologici e concettuali hanno purtroppo teso a mescolare confusamente queste due differenti prospettive – utili- tarismo e liberalismo – in molta letteratura economica e non. come scrive daniel hausman (1993, p. 182) discutendo dell’economia del benessere, «non c’è alcunché di peculiarmente liberale nel preoccu- parsi del benessere delle persone. i fuochi distintivi dell’attenzione liberale sono le libertà, i diritti e l’uguaglianza [di trattamento]». e prosegue: «credo che molti economisti sarebbero sorpresi nel sentir dire che l’economia del benessere non è liberale. molti di essi, infatti, considerano il proprio punto di vista come tipicamente liberale, poiché ritengono [erroneamente] che l’identificazione del benessere con la soddisfazione delle preferenze date sia essa stessa una premessa liberale cruciale» (p. 183)24.

Regole e coesione sociale. l’approccio nomocratico spinge a criti- care l’approccio teleocratico anche perché quest’ultimo ha contribuito a svilire il concetto stesso di diritto. continuando ad intendere il diritto come strumento per qualsiasi fine – al servizio delle maggioranze di passaggio o di qualche calcolo razionale contingente – il rispetto nei suoi confronti è progressivamente diminuito. purtroppo, le forme