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Potere organizzativo, responsabilità di risultato e diritto privato “speciale”

SOMMARIO: 1. La dilatazione della nozione di diritto privato speciale. – 2. L’integrazio-

ne pubblicistica della disciplina sull’atto organizzativo. – 3. Segue. Critica. – 4. Le clau- sole di buona fede e l’indiretta integrazione pubblicistica della disciplina sull’atto or- ganizzativo. – 5. Segue. Critica. – 6. Diritto privato speciale e squilibrio sistematico. – 7. L’autonomia organizzativa del datore di lavoro pubblico e il “modello privatistico”.

1. La dilatazione della nozione di diritto privato speciale

L’analisi svolta evidenzia che i poteri datoriali rappresentano il princi- pale strumento giuridico per garantire al dirigente l’autonomia necessaria a implementare l’indirizzo programmatico, assicurando l’imparzialità e il buon andamento dell’azione amministrativa. Non a caso, è sul loro autonomo e- sercizio che si basa l’imputazione della responsabilità di risultato: il termi- nale conclusivo del circuito normativo diretto a modellare l’organizzazione secondo le coordinate della funzionalizzazione sintetica.

Ciò spinge ad approfondire con estrema attenzione i tentativi di incana- lare l’autonomia garantita dal diritto privato e dagli strumenti privatistici lungo percorsi esplicativi a loro estranei; ci si riferisce, in particolare, alle in- terpretazioni secondo cui “la soggezione al diritto privato senza alcun adat- tamento … non convince, atteso che si verrebbe a privare i cittadini, soprat- tutto se terzi … delle garanzie tipiche del diritto pubblico anche ricavabili dal dettato costituzionale”1. Si tratta di elaborazioni che intendono preser-

vare una dinamica formativa della volontà amministrativa rispettosa dei prin- cipi costituzionali a essa imposti, “atteso che non sempre gli effetti pratici

raggiungibili mediante un contratto corrispondono a quelli conseguibili attra- verso un provvedimento; che la tutela degli interessi implicati potrebbe ri- sultare diminuita e che permane pur sempre il limite costruito dal principio di legalità, che impedisce all’amministrazione una piena libertà di scelta”2.

Prima di esaminarne il merito, è opportuno chiarire che le ricostruzioni di cui si discorre non negano, almeno in apparenza, la rilevanza del risultato; esse, al contrario, intendono preservare l’effettiva proiezione dei poteri dato- riali verso un esito finale dell’organizzazione conforme ai principi dell’art. 97 Cost. È a tal fine che si ritiene indispensabile dilatare, rispetto ai confini tradizionalmente desunti dall’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165/2001, la disci- plina speciale sui poteri datoriali, ricorrendo a specifici istituti tratti dal di- ritto pubblico ovvero a una indiretta verifica funzionale dell’atto organiz- zativo effettuata tramite le clausole di buona fede: sono queste le tecniche per “garantire la conforme esplicazione delle competenze organizzative ai crismi dell’art. 97 Cost.”3. Ne deriva un “diritto privato speciale” che, se-

condo la letteratura in parola, non collide con le scelte sistematiche del- l’art. 5, d.lgs. n. 165/2001 e, soprattutto, con la necessità di misurare il risul- tato nelle modalità indicate dal suo terzo comma4.

2. L’integrazione pubblicistica della disciplina sull’atto organizzativo Sullo sfondo delle precedenti considerazioni, è possibile approfondire le tecniche utilizzate per dilatare il regime normativo speciale del potere orga- nizzativo, esaminando, anzitutto, le tesi che includono nell’atto amministra- tivo – configurato in termini neutri – tutte le determinazioni soggettivamen- te provenienti dalla pubblica amministrazione, pure se adottate in forma privatistica5. È il caso “degli atti organizzativi e … degli atti concernenti la

gestione del rapporto di lavoro dei dipendenti, in quanto espressione di fun- zioni aventi rilievo pubblicistico”6: una ricostruzione volta a superare il net-

2 V. ancora CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè, 2012, 13-14. 3 V. PIOGGIA, Funzione amministrativa e giudice del lavoro, in LPA, 2007, I, 395 ss. 4 Sull’art. 5, comma 3, v., più diffusamente, il par. 8 del cap. I.

5 Tra i tanti v. ROMANO TASSONE, A proposito del potere, pubblico e privato, e della sua legittimazione, in DA, 2013, 559 ss.; SCOCA, Attività amministrativa, in ED, Aggiornamen-

to, VI, 2002, 93 ss.

to confine tra gli atti di diritto privato e gli atti di diritto pubblico, esten- dendo anche ai primi istituti tipici del procedimento amministrativo.

Gli esiti più dirompenti di questa elaborazione – tutt’altro che nuova al dibattito giuridico sul lavoro pubblico – non sono stati recepiti nella prassi giurisprudenziale7; i suoi postulati teorici, però, continuano a influenzare

numerose analisi dottrinali8. Infatti, le ricostruzioni dirette a integrare ta-

luni istituti del procedimento amministrativo nella disciplina sugli atti or- ganizzativi partono dall’assunto che l’amministrazione deve perseguire, per sua stessa natura, fini pubblici di rilevanza sociale; l’ordinamento generale – si afferma – assegna all’amministrazione il ruolo di apparato servente ri- spetto allo scopo pubblico da perseguire, imprimendole il carattere della doverosa funzionalità del suo essere e del suo complessivo agire: è tale connotato che, imponendosi sulla natura privatistica dell’atto, ne giustifica la regolamentazione speciale9.

In particolare, se “i soggetti privati preposti all’esercizio di attività am- ministrative assicurano il rispetto dei criteri e dei principi di cui al comma 1

[dell’art. 1 l. 241/90] con un livello di garanzia non inferiore a quello cui

sono tenute le pubbliche amministrazioni in forza delle disposizioni di cui alla presente legge”10 e se “l’amministrazione persegue i fini determinati

dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla presente leg- ge [l. 240/10]”11, l’attività amministrativa svolta dai privati non può che

essere soggetta ai principi da ultimo indicati. Tuttavia – si osserva – “sarebbe davvero insostenibile ritenere che questi principi vincolino l’attività ammini-

dulcorato dalla giurisprudenza successiva, per la cui analisi si rinvia a MONDA, La giuri-

sprudenza in tema di dirigenza pubblica, in AA.VV., La Dirigenza, in QDLRI, 2009, 327 ss. 7 Tra le sentenze che, sul finire degli anni ’90, assunsero posizioni molto critiche sulle

più rigide ricostruzioni richiamate nel testo v.: Cass. 24 febbraio 2000, n. 41; Cass., Sez. Un., 5 aprile 2000, n. 107; Cass. 16 maggio 2003, n. 7704; Cass., Sez. Un., 28 luglio 2004, n. 14177; Cass. 15 marzo 2004, n. 5565; Cass. 20 marzo 2004, n. 5659.

8 V. SCOCA, Attività amministrativa, in ED, Aggiornamento, VI, 2002, 93 ss.

9 Al riguardo, v. MATTARELLA, L’imperatività del provvedimento amministrativo. Saggio critico, Cedam, 2000, 427 e 428, il quale, dopo aver considerato come “anche gli atti con i

quali l’amministrazione conclude contratti, mette in mora i propri debitori ed esercita i pote- ri del privato datore di lavoro sono posti in essere nello svolgimento di funzioni amministra- tive ...”, sostiene che “la procedimentalizzazione è una componente della nozione di fun- zione: quindi tutti gli atti di svolgimento di funzioni sono emanati a seguito di un proce- dimento”.

10 V. art. 1, comma 1-ter, legge n. 241/1990. 11 V. art. 1, comma 1, legge n. 241/1990.

strativa ove svolta dai privati e non quella, in qualunque forma essa si rea-

lizzi, dell’amministrazione” (mio il corsivo)12.

Seguendo tale interpretazione, l’attività organizzativa privatistica, pur non confluendo del tutto in un modulo esplicativo di stampo pubblicisti- co, viene assoggettata ai principi di obbligatorietà, trasparenza e pubblicità come regolamentati dalla legge sul procedimento amministrativo. Una del- le possibili conseguenze che ne derivano è resa evidente dalla tesi secondo cui “l’esercizio del potere disciplinare nel pubblico impiego non risponde solo a interessi aziendalistici, ma anche a interessi generali, di natura pub- blica, riconducibili al concetto di buon andamento della pubblica ammini- strazione”13. Il che permette sia di estendere – soprattutto dopo il nuovo

art. 55-sexies, comma 3, d.lgs. n. 165/2001 – il principio di obbligatorietà dell’attività amministrativa all’azione disciplinare14 sia di riconoscere al

giudice ordinario la competenza nel verificare la coerenza funzionale del- l’atto e nel sindacarne i contenuti di merito15.

3. Segue. Critica

Le posizioni richiamate derivano da un unico assioma teorico: la mutata veste giuridica dell’atto organizzativo non esclude il ricorso a istituti pub- blicistici.

Tuttavia, è stato evidenziato che l’estensione di cui si parla, pur essendo giustificabile per specifiche materie, non può operare in modo generalizza- to e, soprattutto, non deve essere ineluttabilmente praticata per gli atti or- ganizzativi16. L’ambito applicativo delle regole sul procedimento ammini-

strativo, diversamente, finirebbe con il dipendere da un criterio esclusiva-

12 V. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè, 2012, 13.

13 In tali termini si esprime MATTARELLA, La «Riforma Brunetta» del lavoro pubblico, in GDA, 2010, 38. E analogamente v. URSI, Alcune considerazioni sul nuovo regime delle san-

zioni disciplinari dopo il Decreto Brunetta, in LPA, 2009, I, 759 ss.; RAVELLI, Sanzioni disci-

plinari e responsabilità dei dipendenti pubblici, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT –

122/2011, 24-27.

14 V. MATTARELLA, La «Riforma Brunetta» del lavoro pubblico, in GDA, 2010, 38. 15 Sul punto v. SCOCA, Attività amministrativa, in ED, Aggiornamento, VI, 2002, 97. 16 Il riferimento è a CERBO, Potere organizzativo e modello imprenditoriale nella pubblica amministrazione, Cedam, 2007, 267 e 268, che annovera gli appalti tra le materie alle quali

mente soggettivo, prescindendo dal tipo di atto, come, invece, emerge dal- l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità. Secondo la Cassazione, infatti, “le tendenze attuali dell’ordinamento privilegiano la so- stanza a scapito della forma, consentendo di qualificare come atti (oggetti- vamente) amministrativi, in ragione di tratti intrinseci, anche quelli prove- nienti da soggetti privati; all’opposto, di attrarre nell’orbita del diritto priva- to atti delle pubbliche amministrazioni. È dunque la natura dell’atto, non quella del soggetto che ne è autore, a determinarne il regime giuridico”17.

Tra l’altro, gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità sono con- fermati da espliciti dati normativi: significativo è il rinnovato art. 1, comma 1-bis, legge n. 241/1990, modificato dalla legge n. 15/200518, e l’art. 2, com-

ma 2, d.lgs. n. 165/2001.

La prima disposizione, secondo la “piana interpretazione” affermatasi in letteratura19, esclude la necessità di una specifica legittimazione normativa a

utilizzare gli strumenti del diritto privato, che sono adoperabili per tutta l’area dell’amministrazione non “autoritativa”. Tale conclusione, per un verso, sostanzia l’esito di una declinazione del principio di legalità nella sua costruzione più tradizionale20 e, per altro verso, ribadisce la capacità di di-

17 In tal senso, v. Cass. 15 marzo 2004, n. 5565, in FI, 2004, I, 2431 ss. e Cass. 20 marzo

2004, n. 5659, in DLM, 2004, 337 ss. poi riprese nella successiva giurisprudenza di legitti- mità come dimostra, da ultimo, Cass. 26 marzo 2014, n. 7107 e Cass. 30 ottobre 2014, n. 23062.

18 L’art. 1, comma 1-bis, legge n. 241/1990 dispone che “la pubblica amministrazione,

nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”.

19 In tali termini v. NAPOLITANO, L’attività amministrativa e il diritto privato, in GDA,

2005, 481 ss.

20 Il riferimento è al principio di legalità inteso come fondamento dell’attività provve-

dimentale e, quindi, dei limiti entro cui può esplicarsi l’azione autoritativa. Sullo sfondo di questa lettura, l’art. 1, comma 1-bis, l. n. 241/1990 si limiterebbe ad affermare che: a) il ricorso agli atti autoritativi, sottoposti a regime amministrativo, è consentito soltanto in presenza di una previsione legislativa che conferisce all’amministrazione il relativo potere; b) non occorre alcuna specifica legittimazione normativa all’utilizzo degli strumenti del diritto privato, che si estenderebbe a tutta l’area dell’amministrazione non autoritativa. Tra i tanti che propendono per tale interpretazione, v. CERULLI IRELLI, Osservazioni generali

sulla legge di modifica della l. n. 241/90, in www.giust.amm.it, 2005; DE PRETIS, L’attività

contrattuale della pubblica amministrazione e l’art. 1 bis l. n. 241 del 1990: l’attività non au- toritativa secondo le regole del diritto privato e il principio di specialità, in GA, 2006, 1133

ss.; MANFREDI, La difficile attuazione del 1º comma bis dell’art. 1 l. n. 241 del 1990, in DPA,

2010, 185 ss.; SATTA, Accordi, in EG, Giuffrè, 2007, I, 89 ss.; TRIMARCHI BANFI, L’art. 1, 1º

comma bis, l. n. 241 del 1990, in FA CDS, 2005, 947 ss. Sulla capacità di diritto privato del-

ritto privato della pubblica amministrazione, rafforzando la tesi secondo cui solo un’espressa previsione di legge può negarla21. Tuttavia, se è la legge a

individuare il regime giuridico dell’attività amministrativa, il decreto legisla- tivo n. 165/2001 è, al riguardo, molto chiaro: il dirigente è investito della “capacità e dei poteri del privato datore di lavoro” regolamentati “dalle di- sposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposi- zioni contenute nel presente decreto”. Il perimetro della specialità normati- va, quindi, è delimitato dal solo d.lgs. n. 165/2001, che non contempla af- fatto l’estensione di istituti pubblicistici alle prerogative dirigenziali: la spe- cialità introdotta dal citato decreto legislativo si esprime, piuttosto, in una serie di vincoli e limiti esterni all’esercizio dei poteri datoriali22.

Senza poi contare, infine, che un diritto privato “speciale”, contaminato da istituti pubblicistici, finirebbe con il vanificare gli obiettivi complessivi della riforma sul lavoro pubblico, consentendo al giudice ordinario di oc- cupare gli spazi sottratti al giudice amministrativo23. Un rischio derivante

dalla possibilità di controllare, mediante il filtro delle regole pubblicistiche, quanto l’amministrazione pone in essere con la capacità del datore di lavo- ro, ossia tramite categorie distanti da quelle privatistiche: disattendendo, anche da questa prospettiva, l’indicazione sistematica dell’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165/2001. Tale aspetto non può essere sottovalutato; il regime pri- vatistico degli atti di direzione e la loro conseguente natura paritetica – te- stimoniata dalla scelta di condurre le posizioni soggettive dei dipendenti pubblici nell’ampia categoria dei diritti soggettivi di cui all’art. 2907 c.c. – impongono di sindacare i poteri organizzativo-gestionali con le modalità tipiche del diritto civile, limitando, così, la rilevanza dei motivi soggettivi ai soli casi di illiceità come disposto dagli artt. 1418 e 1345 c.c.24.

Note critiche in tema di attività amministrativa secondo modalità negoziali, in DA, 2003, 217

ss.; CIVITARESE, MATTEUCCI, Regime giuridico dell’attività` amministrativa e diritto privato,

in DP, 2003, 405 ss.; TRIMARCHI BANFI, Il diritto privato dell’amministrazione pubblica, in

DA, 2004, 661 ss.

21 Sul punto, v. ancora NAPOLITANO, L’attività amministrativa e il diritto privato, in GDA,

2005, 482.

22 È questa un’opinione consolidata in letteratura: da ultimo, per una ricostruzione del

dibattito, v. SPINELLI, Il datore di lavoro pubblico. Autonomia organizzativa e poteri del diri-

gente, Cacucci, 2012, 183 ss.

23 V. Corte costituzionale 23 luglio 2001, n. 275 in FI, 2002, I, 2965 ss. con nota di

D’Auria e in RCDL, 2001, 895 ss. con nota di Martignoni.

24 Non è marginale sottolineare il ridotto rilievo che i motivi soggettivi assumono nel-

4. Le clausole di buona fede e l’indiretta integrazione pubblicistica del- la disciplina sull’atto organizzativo

Non diversi sono gli esiti delle tesi che, per garantire la proiezione del potere organizzativo verso il buon andamento, recuperano logiche e principi pubblicistici tramite le clausole di buona fede. Con l’effetto di ammettere una verifica sulla rispondenza della singola decisione organizzativa al pub- blico interesse ritenuta equiparabile al controllo che le clausole generali permettono di realizzare sulle decisioni del datore di lavoro privato25.

Alla base di tali interpretazioni si colloca un duplice assunto: le clausole generali contribuiscono a delimitare i poteri del datore di lavoro privato in termini di “ragionevolezza” delle decisioni; il parametro impiegato per ri- levare l’eventuale violazione della buona fede è la “normalità” tecnico-or- ganizzativa, attraverso cui determinare quando, secondo un’ordinaria gestio- ne dell’azienda, da alcune premesse il lavoratore possa “ragionevolmente” attendersi talune modalità esplicative del potere26. Sulla scia di tali con-

siderazioni, si ritiene che le clausole di buona fede consentirebbero ai prin- cipi dell’art. 97 Cost. di plasmare “il comportamento che ragionevolmente ci si può attendere da parte dell’amministrazione datore di lavoro”, definen- do “la ‘normalità organizzativa’ di un datore di lavoro particolare qual è la pubblica amministrazione”. Pertanto, mediante la loro intermediazione, il

sentenza 20 marzo 2004, n. 5659, in DLM, 2004, 337) desume che l’atto datoriale ha natu- ra paritetica e, soprattutto, è privo dell’efficacia autoritativa propria del provvedimento amministrativo, in quanto strutturalmente incompatibile con l’introduzione di un vincolo funzionale al conseguimento di interessi pubblici.

25 A sostegno di tali ricostruzioni, v. PIOGGIA,Giudice e funzione amministrativa. Giu- dice ordinario e potere privato dell’amministrazione datore di lavoro, Giuffrè, 2004, 228-

236; EAD., L’amministrazione pubblica in forma privata. Un confronto con la Francia e una domanda: che fine ha fatto il “pubblico servizio” in Italia?, in DA, 2014, 481 ss. Secondo

l’A., in particolare, nel lavoro privato con le clausole generali si è consentito l’ingresso in giudizio di valori e principi, che hanno contribuito a delimitare la potestà del datore di la- voro in termini di ragionevolezza delle decisioni. Un processo avvenuto senza che alla vo- lontà dello stesso datore di lavoro “venisse mai riconosciuta una valenza funzionale, anzi l’impiego delle clausole generali è valso proprio a segnare il definitivo abbandono di quello schema parapubblicistico che pure alla fine degli anni settanta era sembrato affascinare il giudice del lavoro”: il riferimento è agli interessi legittimi di diritto privato dei lavoratori, su cui, per tutti, v. DI MAJO, La tutela civile dei diritti, Giuffrè, 2004, specialmente cap. V.

Sulle clausole di buona fede, quali fonti degli obblighi di motivazione, v. MEZZACAPO, Di-

rigenza pubblica, determinazioni organizzative e tecniche di tutela, Jovene, 2007, 101-143. 26 V. PIOGGIA, Funzione amministrativa e giudice del lavoro, in LPA, 2007, I, 395 ss.

buon andamento e l’imparzialità finirebbero con l’imprimere al potere or- ganizzativo non il suo “‘dover essere’ … ma le linee del suo peculiare ‘mo- do di essere’, in quanto potere privato esercitato da una pubblica ammini- strazione”.

Ne deriva che le clausole di buona fede permettono di ricorrere alle re- gole che orientano l’attività amministrativa verso i fini generali; un’apertu- ra realizzata indirettamente, essendo fondata sui parametri di correttezza e non di legittimità, ma che, in ogni caso, avrebbe l’effetto di integrare le pre- dette regole nel regime giuridico destinato all’esercizio del potere organiz- zativo27. Tra l’altro – si aggiunge – è proprio questo il presupposto che

giustifica la devoluzione al giudice ordinario delle controversie relative al rapporto di lavoro con le amministrazioni pubbliche: la possibilità, cioè, di avvalersi delle clausole di correttezza e buona fede, per garantire intrinse- camente l’interesse pubblico28.

Gli orientamenti menzionati sono stati avallati in più occasioni dalla giurisprudenza di legittimità, che, nel tracciare il perimetro del sindacato giudiziario sull’esercizio dei poteri datoriali, adopera, attraverso il filtro delle regole di correttezza e buona fede, i “principi di imparzialità e buon an- damento”. A ciò si collega una conseguenza molto rilevante, anche se non sempre adeguatamente approfondita, che riguarda le dinamiche esplicative del potere organizzativo; in particolare, la Cassazione – per usare una for- mula frequente nelle sue pronunce – lo “procedimentalizza” in modo del tutto peculiare: le clausole di correttezza, infatti, consentono di estendere al suddetto potere i principi del contraddittorio, della motivazione e della trasparenza come regolamentati dalla legge n. 241/1990. Il giudice di legit- timità, in alcune sentenze, si spinge fino a ricavare da tali clausole: l’obbli- go di svolgere valutazioni comparative29; il dovere di garantire forme ade-

guate di partecipazione ai processi decisionali30; l’obbligo di esternare le

ragioni che giustificano una determinata scelta organizzativa31. Senza trala-

sciare, poi, che molteplici sono stati gli interventi secondo cui ogni caso di mancato rispetto dell’imparzialità e del buon andamento, declinato tramite

27 V. PIOGGIA, Giudice e funzione amministrativa. Giudice ordinario e potere privato del- l’amministrazione datore di lavoro, Giuffrè, 2004, 274.

28 V. LOLLI, L’atto amministrativo nell’ordinamento democratico, Giuffrè, 2000, 231. 29 Significativo è l’ipotesi sia degli incarichi conferiti ai sensi dell’art. 19, d.lgs. n. 165/2001

(da ultimo, v. Cass. 14 aprile 2015, n. 7495) sia delle posizioni organizzative (v., tra le numerose pronunce, Cass. 16 luglio 2014, n. 16247).

30 V. Cass. 7 agosto 2013, n. 18836.

le regole sul procedimento, dimostra la contestuale violazione del dovere di correttezza imposto all’attività negoziale32.

5. Segue. Critica

Le interpretazioni richiamate sollevano non poche perplessità riconduci- bili a un uso “eccessivo”33 e “improprio”34 della clausola di buona fede; per-

plessità rese evidenti dal consolidato dibattito sui limiti entro cui le stesse clausole possono condizionare le modalità esplicative dei poteri datoriali.

Procedendo con ordine, è opportuno, anzitutto, osservare che un paci- fico orientamento giurisprudenziale e dottrinale rinviene nella buona fede, letta attraverso il filtro dei doveri di solidarietà sociale dell’art. 2 Cost., una regola di condotta, con la quale imporre a ogni parte del contratto di con- siderare e salvaguardare gli interessi della controparte, purché i propri non siano apprezzabilmente sacrificati. Ciò consente di annoverare la buona fede tra le fonti di integrazione del contratto, riconoscendole, a prescinde- re dal regolamento negoziale, la capacità di determinare obblighi giuridici in senso proprio diretti a preservare l’utilità di ciascuna delle parti35.

Questa ricostruzione del principio di buona fede è stata pacificamente estesa anche alle competenze organizzative del datore di lavoro e, soprat-

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