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Risultato, responsabilità dirigenziale e potere organizzativo

SOMMARIO: 1. Gli elementi normativi per la valutazione del risultato: il ruolo degli stan-

dard. – 2. Standard, interessi diffusi e tecniche legislative di determinazione. – 3. Le deli- bere CiViT sull’elaborazione degli standard. – 4. La responsabilità nel conseguire il risul- tato: titolarità dirigenziale e riflessi sull’autonomia organizzativa. – 5. La natura oggettiva della responsabilità di risultato e la sua difficile coesistenza con la responsabilità discipli- nare. – 6. Segue. L’incidenza del d.lgs. n. 150/2009 sulla responsabilità dirigenziale. – 7. I confini della responsabilità dirigenziale. – 8. Gli esiti del risultato parziale sulla respon- sabilità dirigenziale. – 9. Segue. Le tecniche di integrazione funzionale. – 10. La rela- zione tra potere organizzativo e rischio di gestione: l’essenza della riforma sul lavoro pubblico. – 11. Segue. I riflessi del risultato sull’attività macro-organizzativa. – 12. Risulta- to e obbligo di lavoro del dirigente. – 13. Risultato, interessi organizzativi e tecniche in- centivanti. – 14. Dalla performance organizzativa alla performance individuale.

1. Gli elementi normativi per la valutazione del risultato: il ruolo degli standard

La centralità sistematica del risultato suggerisce di avviare il confronto con le dinamiche organizzative di cui esso costituisce un elemento cruciale, partendo da una questione teorica molto discussa in letteratura: l’indivi- duazione dei parametri mediante cui realizzarne la valutazione1. Un pro-

blema tutt’altro che marginale, poiché, se attraverso il risultato va appurato lo svolgimento efficace ed efficiente dell’azione amministrativa, i parametri per effettuare tale verifica devono consentire ai principi dell’art. 97 Cost. di esprimere tutta la loro rilevanza e di permeare i complessivi circuiti or- ganizzativi orientati al risultato stesso. La loro configurazione giuridica, quin-

1 Tra i tanti, v. CAMMELLI, Amministrazione di risultato, in Annuario dell’Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo, Giuffrè, 2002, 107 ss.

di, non può che riflettere i contenuti dalla richiamata disposizione costitu- zionale, poiché solo così ai vincoli da essa derivanti è possibile garantire un canale esplicativo adatto ad assicurarne gli effetti2.

Certo, è stato già osservato come l’art. 97 Cost. non sia l’unica disposi- zione destinata all’organizzazione, che, al contrario, deve anche realizzare l’indirizzo politico. A tal fine, gli artt. 4 e 5, d.lgs. n. 150/2009 conferiscono all’obiettivo un ruolo di primo piano nel complessivo funzionamento del ciclo di gestione delle performance, facendone il principale snodo tra l’atti- vità di programmazione e l’attività direttiva. Non è un caso, del resto, che l’art. 4, d.lgs. n. 165/2001 rinviene nell’obiettivo il momento culminante della “funzione di indirizzo”: la massima sintesi, cioè, delle “priorità, piani, programmi e direttive generali per l’azione amministrativa” destinate dalla politica alla gestione3.

Ne deriva un’intensa relazione tra l’obiettivo e la verifica del risultato;

2 Quanto detto nel testo rende opportuno richiamare le considerazioni, già formulate

nel cap. I, sulla necessità di non valutare il risultato con criteri tipicamente aziendali. L’effi- cacia, l’efficienza e l’economicità dell’amministrazione assumono un contenuto giuridico ben definito, che le affranca totalmente dalle elaborazioni destinate all’azienda privata. È stato già chiarito, ma sul tema si tornerà anche in seguito, che i parametri per realizzare le misure in questione vanno calibrati sulle specificità del servizio erogato, in modo da dare il giusto rilievo alle sue peculiarità intrinseche.

3 Numerosi sono gli autori che hanno approfondito la dialettica tra obiettivo e indirizzo

politico, evidenziandone il ruolo determinante in un modello di amministrazione basato sulla separazione di competenze tra politica e dirigenza. Tra i tanti v. ALES, Contratti di lavoro e

pubbliche amministrazioni, Utet, 2007, 209-221; BELLAVISTA, La figura del datore di lavoro

pubblico, in DLRI, 2010, 87 ss.; BOSCATI, Il dirigente dello Stato. Contratto di lavoro e organiz-

zazione, Giuffrè, 2006, 222; F. CARINCI, Il secondo tempo della riforma Brunetta: il d.leg. 27 ot-

tobre 2009 n. 150, in LPA, 2010, I, 1025 ss.; CASSESE, Il rapporto tra politica e amministrazione

e la disciplina della dirigenza, in LPA, 2003, I, 231 ss.; D’ALESSIO (a cura di), L’amministrazione

come professione. I dirigenti pubblici tra spoils system e servizio ai cittadini, il Mulino, 2008, in

particolare 159-178; FORTE, Il principio di distinzione tra politica e amministrazione, Giappi-

chelli, 2005, 131-133; GARDINI, L’imparzialità amministrativa tra indirizzo e gestione. Organiz-

zazione e ruolo della dirigenza pubblica nell’amministrazione contemporanea, Giuffrè, 2003,

109-120; NICOSIA, Dirigenze responsabili e responsabilità dirigenziali pubbliche, Giappichelli,

2011, 149-153; RUSCIANO, Spunti su rapporto di lavoro e responsabilità “di risultato” del dirigen-

te pubblico, in RTDPC, 1998, 398 ss.; SAITTA, Burocrazia e indirizzo politico: il modello della

Corte costituzionale, Relazione al Convegno su Il diritto amministrativo nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Bologna, 27-28 settembre 2007, in www.diritto-amministrativo. org,

2007, 16-30 del dattiloscritto; SGROI, Dalla contrattualizzazione dell’impiego all’organizzazione

privatistica dei pubblici uffici, Giappichelli, 2006, 111-205; SPINELLI, Il datore di lavoro pubbli-

co. Autonomia organizzativa e poteri del dirigente, Cacucci, 2012, 52-55; A. ZOPPOLI, Dirigenza,

contratto di lavoro e organizzazione, Esi, 2000, 278-284; L. ZOPPOLI, La valutazione delle pre-

stazioni della dirigenza pubblica: nuovi scenari, vecchi problemi, percorsi di “apprendimento isti- tuzionale”, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 63/2008, 3-9.

un rapporto in cui si esprime una dinamica cruciale per le amministrazioni: il risultato rappresenta, anzitutto, la traduzione empirica del progetto di at- tività che, in funzione di una data scelta programmatica, l’obiettivo indivi- dua e questo, inevitabilmente, si riflette sulla sua valutazione. Ciò con l’ef- fetto di ancorare la misura dell’efficacia alla capacità di raggiungere l’obiet- tivo stesso. Del resto, gli esiti finali dell’organizzazione sostanziano il mo- mento conclusivo di una sequenza interna all’amministrazione, che non può prescindere dall’apporto politico: la funzione di indirizzo, diversa- mente, perderebbe ogni significato con gravi derive istituzionali4.

Tuttavia, se i criteri di verifica del risultato devono riflettere i vincoli co- stituzionali destinati all’organizzazione, occorre approfondirne ulteriormen- te l’indagine, al fine di individuare le opzioni legislative mediante cui con- ferire alla valutazione in parola il ruolo riconosciutole dal modello di fun- zionalizzazione adottato dalla legislazione sul lavoro pubblico. Attraverso il suo apporto – si badi – va appurato se l’organizzazione, nell’attuare l’indi- rizzo politico, “assicuri” il buon andamento e l’imparzialità; un controllo che, in base a quanto già chiarito, impone di accertare l’idoneità dell’orga- nizzazione nell’“assicurare” un’erogazione dei servizi rispondente a ogget- tivi criteri di efficacia, efficienza ed economicità: i requisiti che devono qua- lificare l’esito ultimo della sua azione e che i parametri giuridici per valuta- re il risultato devono rilevare.

Le considerazioni esposte sono alla base della scelta legislativa di asso- ciare al tradizionale impiego degli obiettivi gli standard, che, in relazione al tipo di servizio erogato, individuano la soglia qualitativa o quantitativa cui l’amministrazione dovrà allinearsi, per esplicare la propria missione in mo- do oggettivamente efficace. Sicché sia la progettazione dell’obiettivo sia la verifica del suo conseguimento vanno collegate ai valori espressi dai mede- simi standard: questi ultimi, dunque, fungono da riferimento sul quale tara- re, nel rispetto dei dovuti spazi di autonomia, la pianificazione degli obiet- tivi e consentono, altresì, di misurarne il grado di realizzazione. In tal senso è significativo l’art. 5, comma 2, lett. e), d.lgs. n. 150/2009, secondo cui gli obiettivi vanno “commisurati a valori di riferimento derivanti da standard definiti a livello nazionale e internazionale, nonché da comparazioni con amministrazioni omologhe”. La scelta legislativa di qualificare la predetta disposizione come attuativa dell’art. 97 Cost.5 permette di leggerne il signi-

4 Ne deriverebbe, infatti, la grave lesione del principio di democraticità già evidenziata

nel par. 14 del cap. I.

ficato tramite la lente del vincolo teleologico imposto dalla disposizione co- stituzionale. In particolare, se l’adesione legislativa alla funzionalizzazione sintetica impone di appurare il buon andamento della gestione amministra- tiva tramite la valutazione dei risultati prodotti6, il comma 2 dell’art. 5 – di

cui fa parte pure la lett. e) – contribuisce a implementare l’art. 97 Cost., specificando i requisiti necessari a garantire la funzione istituzionale della richiamata valutazione7.

Pertanto, considerata la ricostruzione non più autoreferenziale della no- zione di efficacia, gli obiettivi devono essere, tra l’altro secondo un pacifico orientamento della giurisprudenza contabile8, correlati a parametri ogget-

tivi; parametri, cioè, idonei a esprimere l’oggettiva capacità dell’organizza- zione nel conferire allo svolgimento dei propri compiti istituzionali un con- creto radicamento sociale e lo strumento giuridicamente abilitato a operare in tal senso è lo standard.

Naturalmente, l’efficacia non è il solo criterio attuativo del buon anda- mento, che, nella sua moderna accezione, include anche l’efficienza e l’eco- nomicità, da accertare mediante parametri egualmente oggettivi: diversa- mente, si approderebbe a un’indagine sul buon andamento del risultato limitata solo a una delle sue accezioni. Ciò rende la valutazione del risulta- to strutturalmente complessa: un tipico giudizio sintetico destinato ad ac- corpare le molteplici declinazioni del buon andamento9. A tal fine, l’art. 8,

6 Più approfonditamente, v. il par. 8 del cap. I.

7 L’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 150/2009 è stato considerato unicamente per la sua capa-

cità di contribuire ad attuare l’art. 97 Cost. Tuttavia, ci si dovrà confrontare nuovamente con tale disposizione, essendo numerosi i vincoli da essa imposti agli obiettivi, tra cui, sin da ora, è opportuno segnalare: la pertinenza ai bisogni della collettività, che, per effetto del- l’art. 1, d.lgs. n. 198/2009, si traduce nell’osservanza degli “standard qualitativi ed econo- mici … [definiti] per le pubbliche amministrazioni in conformità alle disposizioni in mate- ria di performance contenute nel decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150”; la correlazione alla quantità e alla qualità delle risorse disponibili (al riguardo, v. anche l’art. 5, d.l. n. 95/2012 conv. con modifiche da legge n. 135/2012, valorizzato da NICOSIA, Valutare per ri-

sparmiare: strategie e best practices per una effettiva spending review nel settore pubblico,

in LPA, 2013, I, 351); la necessaria specificità e misurabilità.

8 Le pronunce della Corte dei Conti alle quali ci si riferisce, sono state già esaminate

nel par. 12 del cap. I: in questa sede, è sufficiente ricordare la sentenza del 14 gennaio 2014, n. 9.

9 La complessità strutturale della verifica sul risultato lascia comprendere il senso del-

l’auspicio di Cassese (Che cosa vuol dire «Amministrazione di risultati»?, in GDA, 941) a “moltiplicare gli sforzi iniziati un quarto di secolo fa per ristabilire i rapporti tra diritto am- ministrativo e statistica, [al fine di] sviluppare la statistica amministrativa …”. Non si può dubitare, infatti, che la statistica applicata all’amministrazione offre un contributo impor- tante nel conseguire la sintesi indicata nel testo, poiché fornisce gli strumenti empirici per

d.lgs. n. 150/2009 incrocia questo giudizio con quello sulla performance organizzativa, che, non a caso, si basa anche “sull’attuazione dei piani di lavoro nel rispetto dei tempi previsti, di appositi standard qualitativi e quan-

titativi e in conformità al livello di assorbimento delle risorse”. E che l’art.

8, comma 1, sia il fulcro di una verifica diretta a misurare gli esiti ultimi dell’azione organizzativa, è ulteriormente dimostrato dagli artt. 3 e 4, d.lgs. n. 150/2009, i quali rendono la valutazione della performance organizzati- va lo strumento per monitorare la qualità dei servizi.

Il richiamato art. 8, d.lgs. n. 150/2009, inoltre, dedica particolare atten- zione alle tecniche, da modulare in rapporto alle specificità del servizio, per giungere a una misura oggettiva “degli esiti organizzativi”. L’indagine sull’efficacia, quindi, potrà implicare un’analisi incentrata sul grado di sod- disfazione dei destinatari delle attività e dei servizi o sull’attitudine a svi- luppare le relazioni con i cittadini, i soggetti interessati, gli utenti e i desti- natari dei servizi. Mentre l’esame sul livello di ottimizzazione delle risorse potrà realizzarsi verificando il contenimento e la riduzione dei costi o il miglioramento della durata dei procedimenti amministrativi. Trattandosi di tecniche utilizzate dal legislatore per accertare l’efficacia e l’efficienza degli esiti organizzativi, la scelta sulla loro adozione non può che essere ri- messa al medesimo soggetto competente a elaborare gli standard. La ragio- ne è evidente: le tecniche menzionate, essendo destinate a rilevare il buon andamento, contribuiscono ad appurare il conseguimento degli stessi stan- dard e ne condizionano profondamente la funzione.

aggregare i molteplici e variegati elementi a essa funzionali. Naturalmente, questo non signi- fica astenersi dal considerare – come invita a fare SUPIOT, La gouvernance par les nombres.

Cours au Collège de France (2012-2014), Fayard, 2015, 141 ss. ripreso in BONACCORSI, La

valutazione possibile, il Mulino, 2015, 39 – che “la statistica suppone una operazione logica

di qualificazione simile a quella giuridica, ma mentre quest’ultima è pubblica e può essere oggetto di controversia, la prima resta opaca, affidata alla tecnocrazia degli esperti. Ma, quello che è più inquietante, una volta che la realtà ha preso la forma del numero, si sot- trae alla riflessività del linguaggio ordinario, e assume una ‘potenza dogmatica particolare’, una ‘universalità senza pari’. Spetta al diritto, e in generale alle attività che non si basano sulla quantificazione, stabilire i principi di base, gli assiomi o, usando il linguaggio della filosofia del diritto, la dogmatica su cui impostare i calcoli. All’evidenza del numero ci si deve arrendere, ma solo in quanto fin dall’inizio si siano accettate le premesse che rendono legittimo l’uso del numero”.

2. Standard, interessi diffusi e tecniche legislative di determinazione È evidente come la valutazione del risultato sia interamente polarizzata sulla capacità dell’organizzazione di assicurare un livello oggettivo di buon andamento. Con l’effetto che, se tale verifica impone di accertare il tangi- bile soddisfacimento dei bisogni particolari corrispondenti a interessi ge- nerali, non stupisce affatto la scelta legislativa di fondare sugli standard l’interesse dell’utenza, esterno all’amministrazione e qualificato da una di- mensione “superindividuale”, a che la missione pubblica sia efficace ed ef- ficiente.

A dimostrarlo è l’art. 1, d.lgs. n. 198/2009, che, nel caso di violazione degli standard di valutazione, consente ai soggetti “titolari di interessi giu- ridicamente rilevanti e omogenei per una pluralità di utenti” di ricorrere a una peculiare azione collettiva, volta a “ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio”. Tale opzione pro- cessuale ha un importante risvolto sostanziale10: il riconoscimento di un

interesse dai connotati alquanto peculiari, non potendo essere ricostruito, secondo consolidati orientamenti giurisprudenziali, né come diritto sogget- tivo né come interesse legittimo11. La situazione giuridica in esame, al con-

trario, viene qualificata come interesse diffuso  di cui il singolo è “ por- tatore ”12 e il cui contenuto si sostanzia nell’aspirazione a che l’amministra-

zione consegua gli standard.

Certo, il dibattito sugli interessi diffusi è ampio, articolato e travalica i

10 È noto, infatti, che l’interesse ad agire presuppone la titolarità dell’interesse sostan-

ziale a ottenere un dato bene. Tra i tanti v. CONSOLO, L’interesse ad agire, in ID., Spiegazio-

ni di diritto processuale civile, I, Le tutele (di merito, sommarie ed esecutive) e il rapporto giuridico processuale, Giappichelli, 2014, 559 ss.

11 Tra le pronunce più recenti v. T.A.R. Roma (Lazio), Sez. III, 26 settembre 2012, n.

8142; T.A.R. Roma (Lazio), Sez. I, 1° ottobre 2012, n. 8231; T.A.R. Roma (Lazio), Sez. II, 6 settembre 2013, n. 8154; T.A.R. Salerno (Campania), Sez. I, 16 ottobre 2013, n. 2054; T.A.R. Cagliari (Sardegna), Sez. I, 25 ottobre 2013, n. 672; T.A.R. Firenze (Toscana), Sez. II, 20 gennaio 2014, n. 108; T.A.R. Parma (Emilia-Romagna), Sez. I, 11 febbraio 2014, n. 37; TA.R. Palermo (Sicilia), Sez. III, 29 maggio 2014, n. 1359; Cass., Sez. Un., 30 settem- bre 2015, n. 19453.

12 Con riferimento all’art. 1, d.lgs. n. 198/2009, è stato evidenziato (v. CREPALDI, Il ri- corso per l’efficienza delle pubbliche amministrazioni: ipotesi ricostruttive e criticità, in RCP,

2012, 1454) che “… di assoluta rilevanza è il riferimento all’omogeneità della posizione. Con ciò si esclude che il singolo possa agire qualora la posizione giuridica non sia condivi- sa con altri soggetti e, in secondo luogo, si esclude che si possa agire per la tutela di posi- zioni condivise con altri soggetti ma non omogenee perché differenziante o addirittura confliggenti”.

confini di quest’indagine13. Ma un elemento emerge con chiarezza: gli stan-

dard rappresentano il baricentro di un complesso equilibrio tra scelte or- ganizzative interne, appannaggio della politica e della dirigenza, e legittime attese dell’utenza. Un equilibrio mediato da un oggettivo livello di buon an- damento, che funge da baluardo contro patologiche derive autoreferenziali nella gestione organizzativa.

Quanto detto, pertanto, induce a prestare particolare attenzione alla de- finizione degli standard: un aspetto cruciale per la complessiva tenuta delle attese a essi correlate.

Al riguardo, una tenue indicazione proviene dall’art. 5, comma 2, lett. e), d.lgs. n. 150/2009, che impone di commisurare gli obiettivi “a valori di riferimento derivanti da standard definiti a livello nazionale e internaziona-

le, nonché da comparazioni tra amministrazioni omologhe” (mio il corsivo).

Tuttavia, la disposizione non chiarisce le modalità operative di tali tecni- che, generando incertezze particolarmente gravi: eloquente è la problema- tica individuazione dell’ambito entro il quale ricorrere agli standard defini- ti in ambito nazionale o internazionale e la difficoltà di specificare la no- zione di “amministrazioni omologhe”.

Nel tentare di chiarire i contenuti del dettato normativo, un riferimento utile deriva dalla necessità di preservarne la ragionevolezza interna: se lo standard rappresenta lo strumento impiegato dal legislatore per equilibrare l’istanza oggettiva di buon andamento e le aspettative dell’utenza, l’art. 5, comma 2, lett. e), d.lgs. n. 150/2009 non può che essere interpretato nel senso di garantire sia la “connessione razionale tra i mezzi predisposti dal legislatore e i fini che questi intende perseguire”14 sia la “proporzionalità

degli effetti” scaturenti dalle scelte legislative, “mettendo a raffronto e sop- pesando i benefici che derivano dal perseguimento dell’obiettivo cui il legi- slatore mira e i sacrifici che esso impone ad altri interessi in gioco”15.

13 Per ulteriori approfondimenti v. CREPALDI, Il ricorso per l’efficienza delle pubbliche am- ministrazioni: ipotesi ricostruttive e criticità, in RCVP, 2012, 1454 ss.; LOPOMO, La tutela degli

interessi diffusi nella più recente evoluzione normativa e giurisprudenziale con particolare rife- rimento alle associazioni di consumatori, in FA TAR, 2010, 1511 ss.; MARCIANÒ, La class ac-

tion pubblicistica e gli orientamenti desumibili dalle prime applicazioni giurisprudenziali, in

LPA, 2012, I, 145 ss.; PORRECA, Ambito soggettivo e oggettivo dell’azione di classe, in EDP, 2010, 541 ss.; DONZELLI, Interessi collettivi e diffusi, in EGT, XVI, 2010.

14 Quella indicata nel testo rappresenta una delle principali accezioni del principio di

ragionevolezza su cui v. CARTABIA, I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giuri-

sprudenza costituzionale italiana, Roma, Palazzo della Consulta 24-26 ottobre 2013 Confe-

renza trilaterale delle Corti costituzionali italiana, portoghese e spagnola, in www.corte co-

stituzionale.it, 5.

Leggere la citata disposizione attraverso la lente del principio di ragio- nevolezza aiuta a delimitare meglio il riferimento alla comparazione tra “am- ministrazioni omologhe”. Considerata la funzione degli standard, la pro- porzionalità tra mezzo e fine conseguito spinge a valorizzare il riferimento al tipo di servizio, includendo, nel novero delle “amministrazioni omolo- ghe”, quantomeno gli enti che svolgono i medesimi servizi e a condizioni omogenee: sono questi i criteri minimi, tra l’altro consolidati nella prassi e diffusi nella letteratura socio-economica16, che permettono allo standard di

esplicare il proprio compito, creando il virtuoso equilibrio prima richiamato. Ammettendo la possibilità di polarizzare la nozione di “amministrazione omologhe” su parametri diversi da quelli indicati, l’aspettativa di ciascun utente a ottenere un servizio di qualità potrebbe essere soddisfatta diver- samente, pur in presenza di servizi identici ed erogati alle medesime condi- zioni. Il che finirebbe con il vanificare in apicibus l’attitudine dello stan- dard a creare, per ciascun servizio, un virtuoso equilibrio tra l’istanza ogget- tiva di buon andamento e le aspettative dell’utenza. Infine, nemmeno po- trebbe obiettarsi che, incentrando il raffronto tra amministrazioni sul tipo di servizio, si finirebbe con il restringere eccessivamente la loro autonomia organizzativa: un suo ipotetico sacrificio è scongiurato dall’inclusione tra le amministrazioni da comparare dei soli enti che somministrano analoghi servizi e, soprattutto, che vi provvedono a condizioni equivalenti. Ciò signi- fica valorizzare le peculiarità correlate all’erogazione del servizio stesso, fa- cendone il fulcro del menzionato raffronto.

Analogamente, anche l’opportunità di utilizzare standard internazionali non può che dipendere dal tipo di servizio. La dimensione e le caratteristiche di quest’ultimo si rifletteranno, dunque, sulla possibilità di ricorrere agli standard in questione, consentendogli di esplicare appieno i propri compi- ti: circostanza che difficilmente potrebbe aver luogo nel caso di servizi con una forte vocazionale nazionale o, addirittura, subnazionale.

tuzionale italiana, Roma, Palazzo della Consulta 24-26 ottobre 2013, Conferenza trilaterale

delle Corti costituzionali italiana, portoghese e spagnola, in www.cortecostituzionale.it, 4-5, che richiama i noti studi di Alexy tra cui v. Teoria dell’argomentazione giuridica. La teoria del

discorso razionale come teoria della motivazione giuridica, Giuffrè, 1998 e Teoria dei diritti fondamentali, il Mulino, 2012.

3. Le delibere CiViT sull’elaborazione degli standard

La disciplina sulla formazione degli standard non è affidata al solo art. 5, comma 2, lett. e), d.lgs. n. 150/2009; i suoi contenuti, al contrario, sono stati ulteriormente sviluppati da numerose delibere CiViT, abilitate a imple- mentare le scelte metodologiche espresse dal legislatore: le lett. h) e f) del-

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