• Non ci sono risultati.

La pragmatica clinica

Nel documento L'autismo e il linguaggio (pagine 35-38)

CAPITOLO 2: LINGUAGGIO 2.1 L'apprendimento

2.5 Il linguaggio nei bambini con sindrome dello spettro autistico

2.5.2 La pragmatica clinica

Nell'analizzare e descrivere come il linguaggio si sviluppa nei soggetti con autismo, si inserisce anche la pragmatica clinica.

La pragmatica clinica è lo studio dei vari modi in cui l'individuo utilizza il linguaggio al fine di raggiungere uno scopo comunicativo (Pennisi, [2016]:49).

La pragmatica clinica trova in Louise Cummings la sua fondatrice. La Cummings negli anni ottanta del secolo scorso, notò come dalle sue ricerche emergessero pattern linguistici comuni nei soggetti autistici.

Attualmente, la pragmatica clinica comprende una serie di deficit linguistici che a livello pratico presentano tratti simili ma che possono avere cause neurologiche differenti. Sulla base di questa affermazione Perkins nel 2000 distingue tra disabilità pragmatiche primarie e disabilità pragmatiche secondarie. Perkins spiega questa distinzione in questo modo:

“[…] Fenomeni come gli atti linguistici, le massime conversazionali, e molto altro, non sono entità cognitive primarie in sé ma sono invece conseguenze secondarie delle interazioni tra sistemi cognitivi più fondamentali [Perkins 2000,10]” (Pennisi, [2016]:50).

Attraverso queste parole Perkins sostiene che vi sono differenti tipi di disabilità

pragmatiche, sia primarie che secondarie, a seconda del tipo di interazione e di danno che i sistemi cognitivi attuano tra loro.

Come sostiene la stessa Cummings, è difficile definire cosa sia in modo specifico la pragmatica clinica. Allo stesso modo, appare complicato elaborare un modello teorico comune e generale che possa andar bene per tutti i casi legati alla sindrome autistica perché risulta difficoltoso sostenere con certezza se il deficit sia di tipo pragmatico o di altra natura.

Secondo Perkins, la pragmatica non è uno schema rigido bensì è frutto di una interazione tra sistemi linguistici e non linguistici. A sostegno di questa idea afferma che un deficit pragmatico può avere differenti origini, siano esse di natura linguistica che non linguistica (Pennisi, [2016]:50-52).

Nello studio della pragmatica clinica vi sono persone che considerano pertinenti solo fenomeni linguistici, altri che includono anche fenomeni non linguistici. Ad esempio sia Cummings che Perkins sostengono che vi siano anche fenomeni comunicativi non linguistici, come il linguaggio del corpo, che contribuiscono alla comunicazione e al linguaggio ma non per questo sono da considerarsi ambito della pragmatica (Pennisi, [2016]:53).

Cummings, nel definire un deficit pragmatico, include alcuni concetti legati alle teorie pragmatiche quali: atti linguistici, deissi e implicature.

Considerando questi presupposti, definiamo l'atto linguistico come

“l'azione che si compie nel proferire un enunciato” (Pennisi, [2016:74]);

perciò un deficit pragmatico è il fallimento nella produzione o interpretazione di suddetto atto linguistico.

Le implicature invece sono dei significati impliciti presenti in un enunciato che l'ascoltatore deduce dal momento che sono state violate le massime conversazionali;18 anche in

questo caso si parla deficit pragmatico quando vi è un fallimento nella comprensione di tali implicature.

La deissi è una delle caratteristiche presenti all'interno di un enunciato e fa riferimento alla situazione spazio-temporale dell'enunciato stesso o alle persone coinvolte nella conversazione, ossia parlante ed intelocutore. I deittici sono

“espressioni comunicative i cui significati di referenza sono potenzialmente infiniti e la cui definizione dipende strettamente dal contesto” (Pennisi, [2016]:77).

Di conseguenza, anche una difficoltà con i deittici è considerato deficit pragmatico e i soggetti con autismo presentano dei problemi con l'uso della deissi. (Pennisi, [2016]:73- 77).

L'applicazione della pragmatica clinica si traduce nell'utilizzo di test standardizzati i quali valutano per l'appunto i deficit pragmatici. Una spiegazione dettagliata in merito ci arriva dal lavoro di Pennisi (2016), la quale evidenzia due test in particolare (Pennisi, [2016]:78- 81).

Il test più utilizzato è il CCC-2 “Children's Communication Checklist -2” di Bishop (2003). Il CCC-2 è un test di 70 item. Questi item sono divisi in 10 gruppi che contengono 7 item ciascuno. Di ogni gruppo, 5 item evidenziano i punti di forza e 2 le difficoltà del bambino. 18Le massime conversazionali sono un concetto nato con Paul Grice nel 1993. Con questo termine vengono definiti quattro principi che regolano la conversazione tra parlante ed ascoltatore; questi principi sono: massima di qualità ( le informazioni prodotte sono vere e verificabili); massima di modo ( il linguaggio usato per trasmettere le informazioni è chiaro e comprensibile, non ambiguo); massima di quantità (le informazioni date sono sufficienti alla richiesta/situazione, non ne vengono fornite di aggiuntive considerate sovrabbondanti) e massima di relazione ( ciò che viene comunicato è pertinente al contesto e all'argomento).

Al genitore vengono poste delle domande nei campi di interesse; i soggetti interessati vanno dai 6 ai 16anni.

I campi che questo test analizza sono: 1 il linguaggio, nello specifico:

- eloquio, sintassi e semantica; - coerenza;

2 la pragmatica, nel dettaglio: - inizio inappropriato;

- linguaggio stereotipato; - uso del contesto;

- comunicazione non verbale; 3 la relazione, vale a dire: - relazioni sociali;

- interessi (Pennisi, [2016]:79).

Un'alternativa valida al CCC-2 è il TOLP “Test of Pragmatic Language” di Phelps-Terasaki e Phelps-Gunn (1992). Questo test valuta le abilità inferenziali di bambini dai 5 ai 14 anni e viene somministrato da un clinico, il quale prima mostra delle immagini e legge delle vignette e poi pone delle domande sui personaggi presenti in ciò che ha mostrato (Pennisi, [2016]:80-81).

2.5.3 L'ecolalia

Un'altra caratteristica dell'autismo è l'ecolalia. Questo fenomeno linguistico è la ripetizione delle parole precedentemente dette dall'interlocutore.

Tra le teorie che cercano di spiegare questo fenomeno, la prima interpreta questo deficit come fenomeno disfunzionale legato alla rigidità dei comportamenti autistici (Carluccio, Sours e Kolb 1964). La seconda teoria, di Schuler e Prizant (1985), collega l'ecolalia alla attenzione ai dettagli e nel momento dell'enunciato, il soggetto autistico ripete solo ciò che ricorda. Questo a causa della incapacità e della difficoltà di cogliere il significato generale,. L'ultima ipotesi è di Grossi e collaboratori (2013) che spiegano il fenomeno ecolalico in termini di:

persona con autismo sta partecipando all'atto comunicativo e, avendo bloccato il controllo inibitorio, ripete ciò che ha detto l'altro piuttosto che selezionare una risposta” (Pennisi,

[2016]:89).

L'ecolalia è un fenomeno linguistico conosciuto come la meccanica ripetizione del discorso o della parola pronunciato da un'altra persona. Sebbene non sia prettamente esclusiva dell'autismo, è stata riscontrata nel linguaggio verbale degli autistici e viene considerata una caratteristica preponderante del disturbo, un comportamento stereotipato. Nonostante ciò, alcuni studiosi suggeriscono essere fondamentale per lo sviluppo del linguaggio. È stato osservato che in questa popolazione l'ecolalia viene usata per un periodo di tempo più lungo rispetto all'uso dell'imitazione da parte dei coetanei a sviluppo tipico. Per i soggetti con autismo di tipo verbale, l'uso dell'ecolalia è una strategia legata alla incapacità ad estrarre regole linguistiche dal discorso parlato. (Arciuli e Brock, [2014]:55- 57).

Questo fenomeno linguistico viene notato per la prima volta nel 1825, con gli studi di Itard riguardanti il caso di Victor di Ayeron, il ragazzo che all'età di circa dodici anni viene ritrovato nella foresta e dov'era fino a quel momento cresciuto. In seguito, è stato notato come questo 'fenomeno' appare in comorbidità con altre problematiche quali la demenza senile, alcuni tipi di afasia acquisita ma anche in soggetti con disabilità comunicativa ed intellettuale.

Al tempo di Kanner e Asperger, dominava la psicoanalisi e l'ecolalia era interpretata come un comportamento ostile che sottostava al fallimento dello sviluppo dell'ego (Bettelheim 1967). Con la teoria comportamentista invece l'ecolalia è vista come un comportamento auto-stimolante che interferisce con l'apprendimento. Successivamente,Warren e Fray (1967,1969) tentarono di spiegare il fenomeno unendo queste due ipotesi: nel caso di soggetti autistici l'ecolalia è da considerarsi un tentativo di partecipare nel discorso. Infine tra gli anni 80-90 del XX secolo il fenomeno dell'ecolalia viene visto come una strategia linguistica usata per differenti scopi comunicativi, incluse funzioni sociale e cognitive (Arciuli e Brock, [2014]:55-73).

Nel documento L'autismo e il linguaggio (pagine 35-38)