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Predicar figurando o immaginar predicando? Parola, immagine e immaginazione

PARTE II LEONARDO CORONA E LA CHIESA DI SAN ZULIAN

C) I dipinti

V. LE STORIE DELLA PASSIONE DI CRISTO PER LA CHIESA DI SAN ZULIAN:

V.2 Predicar figurando o immaginar predicando? Parola, immagine e immaginazione

Negli ultimi trent'anni del Cinquecento si moltiplicano a dismisura a Venezia le imprese decorative dedicate al tema della Passione di Cristo. Oltre ai numerosi dipinti che decorano gli altari delle scuole (quelle del Sacramento, innanzitutto), delle confraternite e dei privati, e lasciando da parte pure la Scuola Grande di San Rocco che costituisce un luogo a sé per i motivi che mi è parso altrove di aver messo in luce499, un ciclo dedicato al martirio del figlio di Dio viene collocato sopra le

arcate della navata centrale della chiesa di San Nicolò de' Mendicoli a opera di Alvise Benfatto del Friso, Palma il Giovane e qualche altro ignoto pittore. Un

497 La presenza dei Profeti (pur senza le Sibille) nel ciclo della Passione di Cristo di San Zulian costituisce un

elemento ulteriore che ci obbliga a volgere lo sguardo anche altrove per questa impresa: mi riferisco naturalmente al ciclo di affreschi dedicati allo stesso tema e realizzati con ogni probabilità tra il 1569 e il 1575 per l'oratorio del Gonfalone in Roma. Molti sono gli artefici che cooperano all'impresa: Jacopo Bertoja (Entrata di Cristo a

Gerusalemme), Marco Pino (Resurrezione), Livio Agresti (Ultima cena, Andata al Calvario), Raffaellino da Reggio (Cristo dinanzi a Caifa), Federico Zuccari (Flagellazione) e Cesare Nebbia (Ecce homo, Coronazione di spine). La coincidenza del numero di scene (dodici come a San Zulian), la già menzionata presenza dei Profeti, l'omaggio a Michelangelo nella Crocifissione, il fatto che si faccia appello a un artista che a Roma si era formato mentre l'Oratorio veniva compiuto - mancavano forse le due scene conclusive del Nebbia, terminate entro il 1575 ca. - sono indizi importanti che varrà la pena non dimenticare. C'è da chiedersi anche se il desiderio di rievocare una simile impresa non fu la ragione principale che spinse i committenti a scegliere Palma quale possibile "direttore dei lavori" per il ciclo della Passione di San Zulian. Del resto è certamente il Negretti ad aprire le danze con la Resurrezione sulla cappella del Sacramento, citata da Borghini ne Il Riposo. Sull'oratorio del Gonfalone vedi di recente M. G. Bernardini, L'oratorio del Gonfalone a Roma. Il ciclo cinquecentesco della Passione di Cristo, Cinisello Balsamo (Milano), Silvana Editoriale, 2002

498 Il titolo di questo paragrafo rievoca di proposito quello dell'interessante saggio di Giovanna Sarti, "«Figurar

nell'imaginatione»: la cappella del Sacramento e il ciclo cristologico", in Venezia Cinquecento, VIII (1998), 16, pp. 81-103. Un saggio che riassume in maniera esemplare i nodi problematici dell'immagine controriformata e che riutilizzeremo in lungo e in largo nel corso di questo paragrafo, nella speranza di apportare qualche elemento per una riflessione ulteriore.

499 V. Sapienza, "Miti, metafore e profezie. Le Storie di Maria di Jacopo Tintoretto nella sala terrena della Scuola

Grande di San Rocco", in Venezia Cinquecento, XVII (genn.-giugno 2007), 33, pp. 49-140; I nomi e i volti. Ipotesi e interpretazioni per alcuni dipinti di Jacopo Tintoretto nella Scuola Grande di San Rocco in Venezia, tesi di Specializzazione in Storia dell'Arte medievale e moderna, Roma, Università "La Sapienza", 2003-2004.

progetto decorativo simile, mai portato a compimento, viene intrapreso pure nella chiesa di San Giovanni in Bragora e ne avrebbero fatto parte anche i due straordinari dipinti di Corona raffiguranti la Flagellazione e l'Incoronazione di spine. Ancora un'altra serie di dipinti con Storie della Passione decora i muri dell'oratorio della Scuola de' Picai a San Fantin - ambiente che per certi versi possiamo assimilare a quello di una chiesa, per la presenza dell'altare e per la celebrazione di funzioni religiose - con protagonista assoluto, in questo caso, il nostro Leonardo. In questa chiave può essere interpretata perfino la campagna di abbellimento di uno fra i templi più rappresentativi della devozione veneziana di fine secolo: la nuovissima chiesa dei Cappuccini dedicata al Redentore.

La presenza di un ciclo cristologico inserito lungo pareti dell'aula sacra, e dunque offerto di proposito all'intera platea dei fedeli, costiuisce secondo Giovanna Sarti500

un prezioso strumento per stimolare la devozione collettiva intorno al tema della Passione negli anni post-conciliari, quando cioè si diffonde l'esigenza di una coralità dell'esperienza religiosa che trova il suo riflesso immediato nell'istituzione

dell'Orazione delle Quarantore e più tardi nel rinnovamento del culto dei Sacri

Monti. L'immagine, che gioca da sempre un ruolo determinante in termini di ritualità, sembra godere di uno statuto ancor più privilegiato, ergendosi quale tramite

imprescindibile fra parola (scritta e parlata), liturgia e devozione popolare. Essa pare finalmente svincolarsi da quello statuto, subdolo in un certo senso, entro cui gli antichi teologi l'avevano confinata - quello di "idiotarum libri", per dirla con Gregorio Magno - e acquistare una dignità tutta nuova. La lotta era stata lunga e faticosa ma la pittura era uscita vittoriosa dal lungo conflitto che aveva persino messo in discussione la legittimità della sua stessa esistenza con Carlostadio e Butzer prima, e con Zwingli dopo501. Per di più, un ritorno alla centralità del tema della

Passione di Cristo sembra accogliere, a distanza di decenni, le critiche già sollevate da Erasmo contro la superstizione provocata dal culto delle immagini dei santi, che distraeva il fedele dall'unica autentica mediazione e garanzia di salvezza: l'imago

Christi.

Sulla centralità dell'immagine (ma soprattutto dell'immaginazione, ci torneremo) insistono le opere devozionali dell'epoca: meditare sul mistero del rito eucaristico

500 G. Sarti, "«Figurar nell'imaginatione»", cit., in particolare pp. 94-99.

501 Si veda in proposito A. Prosperi, "Teologi e pittura: la questione delle immagini nel Cinquecento italiano", in La

significa anzitutto vedere la Passione, almeno con gli occhi della mente e dell'anima. Riesplode di conseguenza la produzione di trattati dedicati alla cosiddetta orazione mentale, e vengono stampati a decine i compendi di meditazioni sacre dedicati anzitutto al tema del sacrificio di Cristo. I predicatori, dal canto loro, non trascurano di utilizzare la Passione quale fulcro tematico privilegiato per combattere l'eresia, ribadendo con forza i dogmi post-tridentini della transustanziazione, della necessità delle buone opere e del culto dei santi, tanto per ricordarne qualcuno. All'aria nuova che sembrava soffiare fra i pergami all'inizio della Riforma, quando i cavillosi ragionamenti di Scoto e Tommaso avevano lasciato il posto almeno in qualche occasione alla pietas cristiana delle origini, si oppone in epoca post-conciliare una predicazione più prudente, tesa soprattutto ad arginare la deriva verso terreni

scottanti e ribadire le regole del gioco. A questo nuovo tipo di predicazione dovettero adeguarsi innanzitutto i Cappuccini, grandi protagonisti insieme ai gesuiti della stagione predicatoria del Cinquecento. Perché era ancora sulla bocca di tutti il tradimento del loro generale: Bernardino Ochino, l'agitatore di folle, che parlava al popolo e per il popolo usando la sua stessa lingua, aveva infine scelto Ginevra502.

Il ciclo della Passione della chiesa di San Zulian, come ha già dimostrato Giovanna Sarti503, si iscrive dunque in un contesto preciso e in un certo senso non

avrebbe bisogno di spiegazioni ulteriori. Potremmo evocare le opere devote del periodo e dire con Cornelio Musso che "mirando fisso in una immagine di Christo in Croce, cavarà più frutto senza dubbio un divoto contadino a una occhiata sola di contrizione, di comparatione, di divotione, che non faranno per aventura molti huomini dotti, ma freddi, o forse tiepidi, volgendo e rivolgendo le loro copiosissime Librarie"504; o ancora unirci all'esortazione di Francesco Panigarola che consiglia al

fedele di lasciar perder la semplice historia e preferire altri mezzi per aumentare la

502 È difficile tuttavia individuare una predicazione cappuccina anche dopo il Concilio di Trento. A dire il vero tra i

frati che avevano auspicato un ritorno alla vera regola - quella di Francesco - tanto da fondare un nuovo ordine creando l'ennesima spaccatura fra i francescani, si incontrano predicatori molto diversi fra loro. E non mancano neppure nel tardo Cinquecento, figure di grande carisma come il predicatore-filosofo Mattia Bellintani da Salò, sapiente, accuratissimo, straordinario nel dosare i precetti della retorica, spaziando dal timor di Dio alla pietas; o ancora il meno noto ma interessante Cristoforo Facciardi da Verrucchio detto il Verrucchino, predicatore colto ma lontano dall'approccio intellettualizzante, capace di rivolgersi alle masse con semplicità ma anche con finezza e grande coinvolgimento pietistico.

503 G. Sarti, "«Figurar nell'imaginatione»", cit.

504 C. Musso, Prediche quadragesimali, Venezia, Stamperia dei Giunti, 1586, I, p. 228. Cit. in G. Sarti, "«Figurar

sua compassione: "rimedio è il considerare quadri, et imagini ben fatte della Passione"505 di Gesù.

Ma il problema è che le Storie della Passione di Cristo di San Zulian sono quadri "invisibili". Pur ammettendo che l'assetto urbano abbia subito notevoli

trasformazioni, pur ammettendo che l'oscurità della sala sia aumentata per via di qualche palazzo che si è addossato al campo (quale poi? se almeno sul lato sinistro il campiello di fianco alla chiesa è rimasto sgombro...) e che i colori delle tele abbiano perso lo splendore originario, pur ammettendo che i vetri di un tempo più trasparenti e leggeri lasciassero filtrare maggior luce, i dipinti sopra gli altari non si vedono, al limite si intravedono. Possiamo appena discernere, se sappiamo dove cercarla, la sagoma di Cristo in croce o quella di Cristo davanti a Caifa. Possiamo intuire la presenza della pesante croce sulle spalle del Redentore, e la compassione di Veronica che si precipita al cospetto del figlio di Dio, porgendogli un panno per asciugarsi il volto. In questo caso le immagini non possono sostituirsi e neppure gareggiare con la parola, con il rito o la predica - ne costituiscono semmai una naturale estensione - e tanto meno funzionare come "idiotarum libri". Sembra mancar loro - e questo è certamente l'aspetto più sorprendente e problematico - quello statuto di autonomia che fa dell'immagine un codice linguistico a sè stante, statuto che non può innescarsi senza l'accesso alla visione.

Forse proprio tenendo conto delle particolari condizioni della sala e dei limiti materiali imposti alla fruizione delle immagini, i dipinti non presentano ambizioni contenutistiche particolari. Essi non dibattono, né denunciano, non discutono, né concludono, semmai figurano l'historia nel senso più tradizionale del termine, con l'unica preoccupazione, in più di qualche caso, di designare un luogo, una porta attraverso cui lo sguardo dello spettatore potrà farsi strada e insinuarsi a fatica. Si veda ad esempio la coppia con il San Pietro e l'ancella a braccia levate a indicare un dialogo fra i due personaggi, nel Cristo davanti a Caifa (fig. 66) in basso a sinistra, una formula che torna prepotente in tanti dipinti di Palma; o la figura maschile seminuda seduta ai piedi della colonna ma con il capo rivolto a Cristo, di nuovo in basso a sinistra, nella Flagellazione (fig. 67). Nell'Ingresso di Cristo a Gerusalemme (fig. 65), dove la visione è frontale essendo il dipinto posizionato sopra la cappella

505 F. Panigarola, Cento ragionamenti sopra la Passione di Nostro Signore, Venezia, Giovanni Antonio Rampazzetto,

Negroni, a destra dell'altar maggiore, gli effetti sono raddoppiati per non dire triplicati: c'è la solita figura maschile a torso nudo di spalle verso cui il Redentore sembra addirittura avanzare, come avanza verso il fedele; c'è il solito gruppo di donne immediatamente a seguire ancora sulla destra; e c'è infine un bambino sul margine sinistro del dipinto con il braccio levato che indica verso Cristo. Potrebbe essere interpretato in questi termini anche il gruppetto in basso a destra dell'Ecce

homo composto da una donna con un bambino, affiancata da due figure maschili a

colloquio tra loro, e l'altra figura maschile, di nuovo a torso nudo (non sarà poi una coincidenza), che indica l'apparizione di Cristo sulla platea. Nella Salita al Calvario (fig. 76), Veronica col suo velo bianco un tempo probabilmente luminosissimo avanza verso Gesù, configurandosi quale alter ego del fedele che entrando in chiesa e percorrendo l'aula va incontro a Cristo. Di nuovo, possiamo sperare, avrà catturato lo sguardo affaticato dello spettatore.

Basterà un confronto con l'altro ciclo della Passione realizzato per la sala terrena della Scuola de' Picai per cui Corona esegue ben otto tele - praticamente la totalità, se si escludono gli episodi aggiunti a posteriori da Antonio Zanchi - per notare lo scarto enorme in termini di finezza pittorica, pathos e ancor di più di invenzione fra queste storie e quelle di San Zulian. Si veda ad esempio la straordinaria formula per cui, in luogo di una tradizionale Crocifissione, il pittore mette in scena il momento più atroce del supplizio di Cristo: quello in cui i chiodi gli trapassano le carni e il figlio di Dio non può che abbandonarsi all'insopportabile dolore (fig. 98). Non solo: nel

Cristo inchiodato sulla croce accadono molte cose. C'è un turco che a braccia

spalancate si ribella contro uno degli sgherri con un pugnale in mano, e grida un "no" (o un perché?) che pare di sentire (e dietro di lui Longino nello stesso gesto di

condonna?); c'è poi un altro turco inturbantato a cavallo che pare proprio un ritratto, la cui presenza un giorno sarà utile spiegare. Lo stesso può dirsi per la splendida

Salita al Calvario (fig. 99), in cui Veronica che asciuga il volto del Redentore è

aggredita da un manigoldo che con una mano afferra il velo della pia donna e con l'altra solleva prepotentemente il bastone come a voler sferrare un colpo. Nella

Deposizione (fig. 100) c'è Giovanni che prende il posto di Nicodemo ai piedi di

Cristo, mentre il discepolo segreto trasporta il vaso di aloe con cui si profumerà il corpo del Signore. E c'è la Vergine svenuta con il braccio che pare senza vita, gli occhi chiusi e i piedi appoggiati sul sudario, letteralmente abbracciata da una delle

Marie, mentre la bella Maddalena spalanca le braccia in forma di croce per sottolineare l'atroce doppio martirio di cui anche la madre del salvatore reca segni visibilissimi.Nel Cristo davanti a Caifa (fig. 101), per cui probabilmente deve

chiamarsi in causa l'intervento di un collaboratore, il figlio di Dio ha il braccio levato contro il sommo sacerdote, cancellando ogni traccia di quella rassegnazione che si vede in San Zulian, tanto che le guardie sembrano faticare a trattenerlo. E potremmo ancora continuare a lungo: ma ciò che ci preme sottolineare è che questo ciclo reclama la partecipazione attiva dello spettatore che di fronte alle immagini

compatisce, si istruisce, si avvilisce edificandosi, ma è pure costretto a interrogarsi se vuole oltrepassare la soglia della percezione più immediata. Inutile supporre

l'esistenza di un rapporto simile nei dipinti a San Zulian, dove le tele non possono innescare lo stesso tipo di dialogo con il fruitore, mancando le possibilità materiali per un simile incontro.

Ma allora che tipo di funzione può attribuirsi a queste opere? Per quale ragione il pievano, i parrocchiani e qualche privato, che addirittura si fa immortalare in dipinti che non si vedono, decidono di finanziare una simile impresa? Attraverso quali meccanismi la pietas del buon cristiano viene sollecitata?

Credo che la risposta più appropriata stia nella citazione conclusiva del saggio di Giovanna Sarti506: le tele di San Zulian figurano nell'immaginazione, innescando

nello spettatore quel processo evocato in tante fonti che sembra indispensabile per accedere a una partecipazione profonda dei misteri della fede. E lo fanno molto più autorevolmente della parola perché sono già figura.

Sarà allora il caso di riprendere per intero il brano con cui Luis de Granada spiega al suo lettore come si procede a un'appropriata meditazione sui temi sacri:

"Dopo la lettione, immediate segue la meditazione sopra di quel passo della scrittura, che s'è letto. Laonde debbiamo sapere che questa meditatione alcuna volta

s'intende farsi di cose che si pon figurar nell'immaginatione, si come è sopra di tutti i passi della vita, et passione di Christo, et alcuna altra di cosa ch'appartengono

all'intelletto [...]. Di queste due maniere adunque di meditatione, l'una si chiama imaginatoria, et l'altra intellettuale, et di ciascuna ci potiamo servire secondo i luoghi

che leggiamo, overo che pensiamo. Per questa cagione, adunque, quando il misterio

sopra di cui habbiamo da pensare è della vita, o della passione di Christo o d'altre cose che si possono figurare con l'imaginativa [...] debbiamo nella mente nostra

figurare ciascuna di queste cose di quella istessa maniera che sono, o che furono, facendo conto che allora in quel medesimo punto il tutto si vegga dinanzi alla presenza nostra, a fine che con questa rappresentatione divenga la consideratione nostra più viva, et piena di più sentimento delle cose dette; né vi paia difficile di poter fare questa consideratione così perfettamente come se vedessimo le dette cose presenti a noi"507.

Per meditare sulla Passione di Cristo non occorre, secondo il domenicano spagnolo, far ricorso alla dimensione intellettuale della meditazione. Basterà

immaginare convenientemente fatti, luoghi, persone e azioni per render "la

considerazione nostra più viva, et piena più di sentimento"508. Ma la meditazione è

un atto assolutamente privato che il buon cristiano compie prevalentemente tra le mura domestiche, ove non sempre avrà a disposizione immagini di supporto.

L'immaginazione pura costituisce allora l'unica strada percorribile. In chiesa, mentre si celebra la messa o si ascolta un predicatore, l'immagine torna prepotentemente a riconquistare un ruolo di primaria importanza che a San Zulian ha una declinazione specialissima. È la presenza, l'esistenza stessa di un "teatro della Passione"509 fatto

immagine, con la sua tradizione secolare di rappresentazione che quasi come un engramma e al di là dell'accessibilità alla figura, stimola la virtus imaginativa del fedele in un'interazione che coinvolge rito, parola scritta e parlata e pietas cristiana. Di fatto, le tele di San Zulian assolvono appieno la loro funzione, acquistando uno statuto ancor più straordinario della consueta fruizione dello sguardo, specie se accompagnate dalle parole di un abile predicatore, del pievano o più generalmente del celebrante. Il rapporto del predicatore con l'immagine gode in un contesto simile di almeno un paio di privilegi piuttosto inconsueti: intanto dall'alto del pulpito egli è probabilmente l'unico a intrattenere un rapporto visivo autentico con le scene della

507 Louis de Granada, Trattato dell'oratione, et della meditatione: nel quale si tratta de principali misteri della fede

nostra. Con altre cose di molto profitto al christiano, Venezia, Giolito de' Ferrari, 1586, pp 37-38. Il passo è citato in G. Sarti, "«Figurar nell'imaginatione»", cit., p. 92.

508 Ivi, p. 38.

509 L'espressione utilizzata da Giovanna Sarti e desunta da una fonte antica calza a pennello anche per il nostro ciclo.

Passione, rapporto che in un certo senso legittima ulteriormente agli occhi dei fedeli la parola professata; in secondo luogo dispone di una libertà particolarissima, quella di "far vedere", nell'esercizio della predica, ciò che la parola veicola e non ciò che si vede (perché appunto invisibile), in una dimensione ancor più "controriformata" che non risparmia neppure la manipolazione del fedele. I confini dell'invisibile vengono allora valicati dalla parola che si appoggia sulla tela come il pennello del pittore, disegnando emozioni, sguardi, dettagli e forse persino qualche azione secondaria sullo sfondo, contribuendo così a costruire l'immaginario dello spettatore

/ascoltatore.

Il ciclo della Passione di San Zulian non è certo un caso unico. Centinaia di dipinti sono collocati in luoghi impossibili per l'occhio, e soprattutto centinaia di migliaia di dettagli giacciono in un angolo nascosto di tele gigantesche, e solo chi li ha voluti o chi li ha inventati - e chi si ostina oggi a guardare le immagini - ne

conosce l'esistenza. Mi piace allora chiudere questo paragrafo con un omaggio al mio maestro Augusto Gentili, a Jacopo Tintoretto e all'"invisibile" bilancia dell'arcangelo senza piatti del Giudizio Universale alla Madonna dell'Orto510.