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Per le "Storie" senza storia: ragionando senza i documenti

PARTE II LEONARDO CORONA E LA CHIESA DI SAN ZULIAN

C) I dipinti

V. LE STORIE DELLA PASSIONE DI CRISTO PER LA CHIESA DI SAN ZULIAN:

V.1 Per le "Storie" senza storia: ragionando senza i documenti

Di tutte le imprese decorative della chiesa di san Zulian quella delle Storie della

Passione di Cristo che corrono tutt'intorno all'aula basilicale, nella parte superiore

dei muri - sopra gli altari, per intenderci - è forse la più complessa e la meno studiata467. La ricerca documentaria che ho condotto sui fondi di San Zulian non ha

dato alcun esito in proposito: non sappiamo in quale momento cronologico debba situarsi esattamente l'esecuzione delle tele, a chi si debba la commissione e la responsabilità intellettuale del progetto. A dire il vero, non sappiamo neppure con certezza chi siano gli esecutori dei dipinti.

Le opere dal canto loro appaiono molto diverse per linguaggio, qualità e soluzioni iconografiche. A una corretta valutazione linguistica non giovano però il pessimo stato di conservazione di alcune di esse - e soprattutto il pessimo stato in cui

versavano al momento del fortunoso rinvenimento delle tele all'inizio del secolo XX: ne parleremo - la collocazione altissima per gli occhi, le condizioni di illuminazione della sala468, e lo scarsità di materiale fotografico disponibile, tutto rigorosamente in

bianco e nero.

Se ci affidiamo alle fonti, gli artisti chiamati in causa sono numerosi e alcuni addirittura sconosciuti. Constatiamo poi una certa diversità e discontinuità nelle

467 Ne parla naturalmente E. Manzato, "Leonardo Corona", cit., in particolare pp. 130-135. Prima di lui alcuni dei

dipinti del ciclo della Passione vengono discussi da Vittorio Moschini nell'articolo "Inediti di Palma il Giovane e compagni", in Arte veneta, 1958, pp. 97-110, in particolare pp. 100 (per il soffitto di San Zulian), 105-107. Sui dipinti attribuiti a Palma nella chiesa di San Zulian: S. Mason, Palma il Giovane, cit., pp. 134-135, nn. 495-500. Da allora, se si eccettua il tentativo di attribuzione della Flagellazione a Carletto Caliari da parte di Alessandro

Ballarin, di cui si riferisce alla nota seguente , nessuno se n'è più occupato.

468 Proprio mentre stampo questo lavoro, ripassando per l'ennesima volta per la chiesa di San Zulian, scopro che il

parrocco ha provveduto all'installazione di un nuovo sistema di illuminazione che finalmente ci permette di VEDERE almeno da lontano i dipinti. Peccato che per un minuto solo di luce che non basta neppure a percorrere velocemente con lo sguardo tutti i teleri ci voglia un euro...

proposte attributive, per cui è davvero faticoso orientarsi. Un piccolo schema sarà utile per mettere a fuoco la questione:

Non resta dunque che affidarsi alle opere, pur precisando che i tentativi di attribuzione qui proposti sono del tutto ipotetici e che occorrerebbe una valutazione approfondita (magari con l'aiuto di un restauratore competente) per stimare cosa appartenga realmente alle opere e cosa agli interventi di restauro cui esse sono state sottoposte intorno al 1957469.

Possiamo assegnare alla mano di Leonardo Corona l'Ingresso di Cristo a

Gerusalemme (fig. 65), il Cristo davanti a Caifa (fig. 66) e la bella Flagellazione

(fig. 67)470. Più dubbia resta l'attribuzione del Cristo dinanzi a Pilato (fig. 68), che

comunque gravita nell'ambito coroniano ma per cui bisognerebbe forse scomodare l'intervento di un collaboratore. La prudenza è obbligatoria, specie considerando il

469 Ho potuto visionare solo di recente le relazioni di restauro relative al ciclo della Passione di San Zulian. E

soprattutto mi è stata consentita la consultazione delle foto delle tele prima del restauro. Bisogna ammettere che per alcune di esse, la situazione era alquanto disastrosa. Mi riservo di ritornare con più precisione sull'argomento in una prossima occasione.

470 Alessandro Ballarin nel suo Jacopo Bassano Scritti 1964-1995, Cittadella (PD), Bertoncello Artigrafiche, 1995, II,

figg. 358-359 attribuisce la Flagellazione a Carletto Caliari sulla scorta del disegno raffigurante alcuni Studi di gambe e di braccia, conservato a New York (Collezione di Stephan Spector). Un'attribuzione che non condivido, perché tanto il Cristo, quanto il manigoldo sulla sinistra, l'armigero sulla destra e perfino la figura di mendicante nella parte inferiore per cui il disegno è chiamato in causa sono figure innegabilmente coroniane. Sarebbe stato più corretto da parte dello studioso pubblicare l'intero dell'immagine. Se poi il Cristo davanti a Pilato deve attribuirsi a Corona e collaboratori, la figurina (qui più definita e meno sciatta) che da dietro la colonna stringe la corda legata ai polpacci di Cristo della Flagellazione, torna identica nel servo che sostiene il catino d'acqua mentre Pilato si lava le mani. - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - ? ? - - ? ? - -

Borghini 1584 (1582) Sansovino-Stringa 1604 Ridolfi 1648 Sansovino-Martinioni 1663 Ingresso di Cristo a Gerusalemme Leonardo Corona Leonardo Corona Leonardo Corona

Lavanda dei piedi Giovanni Fiammingo

Orazione nell'orto Giovanni Fiammingo

Cristo davanti a Caifa Leonardo Corona Leonardo Corona Leonardo Corona

Flagellazione Leonardo Corona

Incoronazione di spine Leonardo Corona

Cristo davanti a Pilato

Ecce homo Palma il Giovane Palma il Giovane

Cristo e la Veronica Jacopo Tintoretto

Crocifissione Deposizione

Resurrezione Palma il Giovane Palma il Giovane Palma il Giovane

Annunciazione

Boschini 1664 Boschini 1674 Zanetti 1733 Zanetti 1771 Ingresso di Cristo a Gerusalemme Leonardo Corona Leonardo Corona Leonardo Corona Leonardo Corona

Lavanda dei piedi Giovanni Fiammingo Giovanni Fiammingo Leonardo Corona Leonardo Corona

Orazione nell'orto Giovanni Fiammingo Giovanni Fiammingo Giovanni Fiammingo

Cristo davanti a Caifa Leonardo Corona Leonardo Corona Leonardo Corona Leonardo Corona

Flagellazione Incoronazione di spine

Cristo davanti a Pilato Leonardo Corona Leonardo Corona Leonardo Corona Leonardo Corona

Ecce homo Palma il Giovane Palma il Giovane Palma il Giovane Palma il Giovane

Cristo e la Veronica Leonardo Corona Leonardo Corona Leonardo Corona Leonardo Corona

Crocifissione Leonardo Corona Leonardo Corona Leonardo Corona Leonardo Corona

Deposizione Leonardo Corona Leonardo Corona Leonardo Corona Leonardo Corona

Resurrezione Palma il Giovane Palma il Giovane Palma il Giovane Palma il Giovane

pessimo stato in cui versa il dipinto. La tela sembra aver perso molto del suo vigore: la pellicola pittorica è fortemente abrasa e gli effetti volumetrici in parte perduti. Ma, pur mettendo da parte le considerazioni di ordine materiale, decisamente mediocre risulta l'organizzazione spaziale della scena, con quella sorta di balaustra-separé creata appositamente per inserire la presenza del committente; non si può non far caso inoltre alla sproporzione fra le figure in primissimo piano - gigantesco

l'armigero, piccolo e in un angolino il devoto committente - e a quei gradini che solo con molta immaginazione potrebbero davvero condurre Cristo al cospetto di Pilato.

Decisamente poco riuscita è anche l'Orazione nell'Orto (fig. 69) che presenta un

ductus duro, quasi aspro e per certi versi grossolano - lo ritroviamo praticamente

identico, e così possiamo farci anche un'idea di quanto il nostro pittore sia poco dotato anche come colorista (perché in questo caso disponiamo di immagini a colori), in alcuni dei Profeti che un tempo completavano il ciclo, dei quali riparleremo fra breve. Il dipinto si ispira alla scena di identico soggetto eseguita da Alvise del Friso per la chiesa di San Nicolò de' Mendicoli (fig. 70). Ma il pittore di San Zulian commette errori imperdonabili. Non c'è neppure un minimo di coerenza

nell'organizzazione spaziale dei tre fulcri dell'immagine, rappresentati dal Cristo con l'apparizione angelica (quasi identica a quella del dal Friso ai Mendicoli), gli apostoli dormienti in primo piano e il corteo guardie sullo sfondo. Tutto sembra ammassato, senza riguardo alcuno per le più elementari regole prospettiche. I nessi spazio- temporali o gli elementi di separazione appaiono a dir poco ingenui: è il caso del gradino naturale su cui è inginocchiato Cristo che dovrebbe separarlo dagli apostoli dormienti in primo piano, ma non ci riesce; o ancora dell'arco in rovina sullo sfondo, che apparterrebbe allo spazio di Cristo ma che poi finisce appoggiato al tronco coperto di foglie sul margine destro della tela, su cui anche Giovanni appoggia la schiena; o ancora il gesto della guardia che dovrebbe indicare lontano ma che è quasi a ridosso di Cristo. Le fonti vorrebbero assegnare questa strampalata Orazione al misconosciuto Giovanni Fiammingo, altrimenti noto come Zuanne della Salamandra, iscritto alla Fraglia dei pittori veneziani dal 1581 al 1600471, e a cui dovrebbe

competere secondo la maggior parte degli autori antichi anche la straordinaria

Lavanda dei piedi (fig. 71). Eppure un abisso separa questi due dipinti: l'autore della Lavanda è un pittore di grande pregio, con un'ottima cultura figurativa, capace non

solo di mettere in opera una perfetta organizzazione spaziale, ma perfino di costruirci sopra un'invenzione di tutto rispetto. Conosce i prototipi veneti e veneziani e li usa con intelligenza, tanto che, pur suggerendo allo spettatore l'immagine da cui ha attinto, il confronto diretto con la "fonte" obbliga lo specialista a riconoscere anzitutto l'apporto personale dell'invenzione. Per la sua Lavanda si rifà ad esempio all'Ultima cena (fig. 72) di Tintoretto nella sala capitolare della Scuola Grande di San Rocco - e sarà utile tenere a mente questo dato anche per la cronologia. Al posto della cucina, sullo sfondo c'è la servitù, tutta rigorosamente inturbantata, che si dà un gran da fare per allestire la zona presso cui si consumerà l'ultima cena (e non è un caso visto che questo soggetto non compare nel ciclo, essendo già stato raffigurato nella cappella del Santissimo). La tavola è sistemata in un ambiente sopraelevato, una sorta di palcoscenico, cui si accede montando alcuni gradini. La stanza è

illuminata a giorno da due grandi finestre, e grazie a tanta luce risplendono le caraffe cristalline provvisoriamente posate in terra. Come a teatro, una tenda separa lo sfondo dal primo piano ove si consuma quell'umilissimo atto che tanto metterà in imbarazzo il povero Pietro. Bellissima la figura di Cristo dal volto soavissimo, umilmente inginocchiato di fronte al catino di rame, mentre lava i piedi dell'apostolo a cui affiderà le chiavi della sua nuova chiesa. Quest'ultimo, accomodato su una bassa seggiola di paglia che sembra fatta apposta per l'occasione, alza la mano in un'attitudine a metà tra la ritrosia e la difficile accettazione. Il compagno dietro di lui, con il dito puntato verso l'alto, indica a un altro apostolo che in quel momento si sta compiendo la volontà di Dio. Straordinaria ancora la testa dell'apostolo (il conto altrimenti non tornerebbe, ma nulla impedisce che possa trattarsi anche di un ritratto, magari quello del pittore...) che fa capolino da dietro la tenda, nonché la figura dell'altro seguace di Cristo rappresentato di schiena, con il piede appoggiato sullo sgabello, mentre si toglie i calzari. Torna alla mente l'apostolo che compie la stessa operazione nella Lavanda (fig. 73) di Tintoretto al museo del Prado, ma anche qui l'immagine è reinventata e non c'è una corrispondenza diretta. Resta da stabilire se vogliamo davvero etichettare questo trascurato capolavoro sotto il nome di Giovanni Fiammingo, un artista che non avrebbe (o quasi) lasciato altra traccia di sé - e a questo punto, ma va da sé, saremmo obbligati a cercare un altro nome per l'Orazione; oppure conservarlo senza nome, concludendo semplicemente che l'autore di questo straordinario dipinto è con ogni probabilità un artista veneto o veneziano giunto alla piena maturità artistica, che conosce e frequenta alcuni degli atelier più importanti

del suo tempo e ha forse avuto occasione di collaborare oltre che con Tintoretto anche con Giuseppe Salviati: penso alla bella Lavanda dei piedi della chiesa di San Polo.

Non pone grandi problemi di attribuzione la Resurrezione (fig. 74), collocata sopra la cappella del Santissimo Sacramento, da ascriversi senza dubbio a Palma il Giovane. Lo diceva già Borghini che l'ammirava in situ al più tardi nell'estate del 1582; e lo ribadisce ai nostri tempi la Mason472. Sulla scorta di Moschini e Ivanoff, e

concordemente con qualche fonte antica, la studiosa menziona pure quale opera del Palma l'Ecce homo (fig. 75) con la croce già pronta per cominciare l'amara salita verso il Golgota473.

La scena con la Salita al Calvario e l'incontro con la Veronica (fig. 76) dovrebbe invece attribuirsi a Domenico Tintoretto474, assistito dal padre Jacopo. Il dipinto,

equilibrato in ogni sua parte e con qualche brano poetico (si vedano in particolare l'incontro tra Cristo e la Veronica o la posa del Cireneo), supera di gran lunga per qualità la Salita al Calvario - anche qui con la Veronica che avvicina il panno al volto di Cristo per asciugargli la fronte - della collezione E. G. Bührle di Zurigo (fig. 77), assegnata da Paola Rossi a Jacopo Robusti con la collaborazione del figlio Domenico475. Un confronto con la bella Incoronazione di spine di una collezione

privata londinese476 (fig. 78) e ancora con la Circoncisione della sala terrena della

Scuola Grande di San Rocco (fig. 79) o con l'estrema Deposizione di San Giorgio Maggiore477(fig. 80), imprese cui certamente Domenico prese parte, possono tornare

utili a sostegno della nostra ipotesi. Ma forse ancor più esplicite per il riferimento a Domenico sono le affinità con l'Adorazione dei Magi della chiesa di Santa Maria delle Vergini di Macerata (fig. 81)478. Si vedano in particolari i numerosi personaggio

ritratti con il capo abbassato, quasi a nascondere il volto, e la preziosità di alcuni tessuti che ritorna negli abiti del Cireneo del nostro dipinto.

472 S. Mason Rinaldi, Palma il Giovane, cit., p. 134, n. 495.

473 Stupisce però che nel catalogo la Mason non includa la foto del dipinto. Ivi, p. 134, n. 496 (con bibl.). 474 Già attribuita al Tintoretto da Vittorio Moschini nell'articolo "Inediti di Palma il Giovane e compagni, in Arte

veneta, 1958, pp. 97-110, in particolare pp. 109-110, nota 14. L'opera viene tuttavia esclusa dal catalogo di Tintoretto di Rossi-Pallucchini.

475 R. Pallucchini, P. Rossi, Tintoretto. Le opere sacre e profane, Milano, Electa, 1982 (II ed. 1994), I, cat. 449, p. 229;

II, fig. 574, p. 593.

476 Ivi, I, cat. 457, pp. 230-231; II, fig. 582, p. 599. Attribuita dalla Rossi a Jacopo ma per cui è plausibile l'intervento

di Domenico.

477 Ivi, I, cat. 468, p. 234; II, fig. 600, p. 610.

Abbiamo già discusso della Crocifissione e della Deposizione (figg. 50-48), forse i due casi più problematici del ciclo. Resta invece da prendere in considerazione l'Incoronazione di spine (fig. 82), un quadro tutto sommato buono, ma con qualche caduta. L'ombra di Veronese troneggia pesantemente sulla tela, forse ancor più che sulla Cena del Sacramento. Dovremo accontentarci però di ascriverla cautamente a un pittore di ambito veronesiano ed evocare a confronto l'Incoronazione di spine del De Young Memorial Museum di San Francisco (fig. 83; in deposito dalla Stauffer- Sigall Fondation), ascritta dalla maggior parte della critica all'ultimissima attività del Caliari, ma che dovrebbe piuttosto far pensare a un intervento della bottega479.

Nonostante l'assoluta assenza di testimonianze documentarie dirette, disponiamo di qualche elemento per tentare di ragionare su una cronologia più precisa per le

Storie della Passione di Cristo. Sappiamo che al più tardi nell'estate del 1582 almeno

la Resurrezione di Cristo (fig. 74) di Palma faceva bella mostra di sé in chiesa. Ce lo dice, come si è già accennato, Raffaele Borghini nel suo Riposo480. Non credo

tuttavia si possa dar credito all'ipotesi di Manzato481 che fa coincidere l'esecuzione

dei dipinti di Corona per San Zulian con gli esordi veneziani di Leonardo, datando le tele ai primissimi anni Ottanta del Cinquecento. La motivazione addotta dallo

studioso è del resto più che discutibile: se Corona, precisa lo specialista, riesce ad approdare al Maggior Consiglio di Palazzo Ducale all'inizio degli anni Ottanta, deve aver già dato prova di sé altrove in Venezia. San Zulian viene così a "riempire" gli anni giovanili di Leonardo, e forse per questo gli si può perdonare una certa discontinuità e varietà di linguaggio, e attribuirgli opere tanto distanti tra loro. Ma ormai lo sappiamo: nel 1580 Leonardo non era proprio giovanissimo, aveva già ventotto anni.

Numerosi indizi lasciano inoltre supporre che il ciclo sia stato compiuto piuttosto nel corso della prima metà del nono decennio, con qualche strascico probabile fino al 1587-88, e che dunque sia plausibilmente coevo rispetto alle imprese di Palazzo Ducale.

Abbiamo già accennato al fatto che alcune delle tele di San Zulian chiamano in causa dipinti realizzati con ogni probabilità nel primo lustro degli anni Ottanta. È il

479 Per la Crosato-Larcher si tratterebbe di una collaborazione fra Carletto, Gabriele e Benedetto. Vedi T. Pignatti, F.

Pedrocco, Veronese, cit., n. 398, pp. 496-497.

480 R. Borghini, Il Riposo, Firenze, Appresso Giorgio Marescotti, 1584, p. 560.

481 E. Manzato, "Leonardo Corona da Murano", cit., in particolare pp. 130-132. Tanto più se si evoca l'influenza di

Zuccari come fa giustamente Vittorio Moschini ("Inediti di Palma il Giovane", cit., p. 110, nota 31) per alcune figure di soldati!

caso della Lavanda dei piedi (fig. 71) che rielabora con estro ingegnoso l'impianto dell'Ultima cena di Tintoretto nella sala capitolare della scuola di San Rocco (fig. 72). Allo stesso modo (ma senza l'estro ingegnoso), il pittore dell'Orazione nell'orto (fig. 69) si rifà alla scena di identico soggetto che apre il ciclo dedicato alla Passione di Cristo nella navata sinistra della chiesa di San Nicolò de' Mendicoli (fig. 70)482. E

ancora: la Flagellazione (fig. 67) di Leonardo Corona sembra quasi una variante semplificata del dipinto anche in questo caso di identico soggetto realizzato da Domenico Tintoretto per uno degli altari della chiesa del Redentore (fig. 84): lo dimostra la posizione di Cristo che sembra farsi avanti alla ricerca dell'apparizione angelica, presente al Redentore ma assente a San Zulian. Come al Redentore, inoltre, una figura maschile seminuda siede ai piedi degli scalini che portano alla colonna e osserva la scena dal basso, a far da ponte per lo spettatore.

A ciò dobbiamo aggiungere un altro elemento cronologicamente determinante: l'avvio dei lavori per il soffitto intorno al 1587. Se si aspettò due anni prima di dar attuazione alle volontà testamentarie di Gerolamo Vignola è probabilmente perché nel biennio 1585-87 i pittori del ciclo della Passione stanno ancora ultimando le tele che verranno ben presto collocate sulle pareti. La parrocchia avrebbe faticato

enormemente a procacciarsi nel contempo i fondi necessari per finanziare i dipinti del soffitto. Nonostante alcuni dei teleri cristologici vengano sovvenzionati dalle tasche di qualche generoso parrocchiano - si vedano in proposito i ritratti inseriti nel

Cristo davanti a Pilato (fig. 68) e nella Deposizione (fig. 48) - il resto delle imprese

pittoriche richiede con ogni probabilità un nuovo sforzo collettivo, sollecitando in prima istanza le scuole.

La confraternita del Santissimo Sacramento, ad esempio, potrebbe aver

contribuito con una sostanziosa offerta per coprire le spese della realizzazione della

Resurrezione di Palma. Il 30 agosto 1773 l'ispettore Anton Maria Zanetti si reca a

San Zulian per stilare una sorta di inventario delle opere pittoriche più pregevoli custodite in chiesa e rimettere nelle mani dei legittimi proprietari la responsabilità della loro conservazione. L'atto rientra nell'attuazione delle nuove disposizioni

482 Il caso delle Storie della Passione di Cristo per la chiesa di San Nicolò dei Mendicoli presenta molti aspetti in

comune con quello di San Zulian. Non si aveva fino a questo momento una datazione precisa ma una nuova testimonianza documentaria lascia supporre che l'impresa venne compiuta come in San Zulian nel corso degli anni Ottanta del Cinquecento. Mi riferisco a un documento rinvenuto presso l'Archivio del Patriarcato di Venezia: nel Registro di cassa della fabbrica della chiesa che comincia l'anno 1587 (e prosegue poi con carte più antiche) si legge: “20 ditto [novembre 1589] [...] Contadi al marangon per metter il pillastro, et capitello alli quadri sopra le soaze s 8 [...]". Segno che i dipinti erano stati da poco collocati e si procede alla risistemazione della navata. ASPV, San Nicolò dei Mendicoli, Scritture spettanti alla chiesa, Capitolo e fabrica, b. 15, c. 23.

inerenti alla tutela del patrimonio storico-artistico che prevedono l'elezione di una Deputazione straordinaria alla Regolazione delle Arti (12 marzo 1773) e la redazione del primo catalogo di "pubbliche pitture" (20 aprile 1773). In base alla nuova

normativa, se l'opera fosse misteriosamente sparita o fosse stata danneggiata per negligenza, il proprietario ne avrebbe dovuto rispondere in prima persona. Dopo aver diligentemente compilato l'elenco delle opere più pregevoli presenti in chiesa,

l'ispettore pretende che i guardiani delle scuole cui il parroco ha rimesso la custodia dei dipinti di rispettiva competenza annotino l'avvenuta consegna dei beni. Il primo a registrare il passaggio è il guardiano della Scuola del Sacramento:

“Adì 2 settembre 1773 Venezia / Ho ricevuto dal Reverendissimo Signor Pievano della Chiesa di San Giuliano io Domenico Sala Guardian attuale della Scola del Santissimo Sacramento l’ordine di registrare ne Libri della nostra Scola cioè Due quadri esistenti nella cappella, l’uno rappresentante la Cena, l’altro la Manna, come

pure la Resurrezione sopra la detta Cappella, e ciò per ordine ricevuto dalli Capi

dell’Eccelso Consiglio dei X: il Reverendissimo Signor Pievano suddetto"483.