• Non ci sono risultati.

Premessa sul significato di “possibilità”

LA NECESSITÀ COME MODALITÀ ONTOLOGICA

1. Premessa sul significato di “possibilità”

Il nostro discorso sulla necessità come modalità ontologica prenderà le mosse dall’esame della figura del “possibile” e dalla sua semantizzazione, che risale, come vedremo, ad Aristotele, per continuare poi nella modernità sino ad arrivare alla filosofia contemporanea.

1.1. Referente storico principale della figura del possibile è Aristotele, il quale per primo ce ne offre una definizione: il “possibile” (dynatón) è ciò che esclude da sé soltanto l’impossibilità, laddove l’impossibilità viene indicata come la necessità del darsi del termine contraddittorio. Possiamo esprimere quanto detto mediante linguaggio formalizzato come segue: (1) ◊ α  ¬□¬α. Per Aristotele qualcosa è possibile se, assumendolo, non ne consegue nulla di impossibile. Si noti che quest’ultima definizione dà luogo a una circolarità di definiendum e definiens: il possibile verrebbe definito a partire dall’impossibile, ma quest’ultimo presuppone l’acquisizione del significato di “possibile”.

1.1.1. In alcuni luoghi aristotelici – si pensi a De interpretatione IX – l’impossibile viene fatto equivalere al “privo di luogo”, che in greco si indica con il termine átopon. Invece negli Analitici primi, l’impossibile compare nella formula “riconduzione all’impossibile” (apagoghé eis adýnaton): operazione dialettica che – com’è noto – consiste nella esplicitazione della autocontraddittorietà della tesi contraddittoria a quella che si vorrebbe sostenere.

1.1.2. Da quanto fin qui abbozzato, si evince chiaramente che i concetti modali di “possibile” e “impossibile” sono strettamente legati a condizioni logiche validanti una determinata ipotesi, eminentemente la non contraddittorietà dell’ipotesi in questione.

Possiamo sintetizzare quanto detto finora scrivendo che:

(2) ◊ α sse α ˫/  (3) ◊ α sse ¬α ˫ 

Aristotele, però, sa che l’autocontraddizione risulta impossibile in un senso ben più radicale, che è quello della impossibilità elenctica, ovvero l’impossibilità di mettere fuori gioco le strutture principiali dell’essere (come l’autore mostra nel Libro Gamma della Metafisica, nel contesto della difesa del PDNC dai suoi contestatori)58.

1.2. Se già in Aristotele era presente la consapevolezza che esiste un possibile (dynatón) smarcato dal potenziale (dýnamis), è solo nella modernità che questa consapevolezza viene confermata e sviluppata, e questo a partire già da un filosofo come Giovanni Duns Scoto (vissuto a cavallo tra il XIII e il XIV secolo). Con lo scolastico scozzese avviene il vero e proprio “salto” verso il “possibile logico”, ovvero il possibile pensato non tanto a partire dalle sue effettive condizioni di realizzabilità, bensì a partire dalla mera “non ripugnanza” dello stato di cose sulla cui possibilità o meno ci si interroga (dove con l’espressione “non ripugnanza” si vuole esprimere la non contraddittorietà fra i termini).

Intesa secondo quest’ultimo significato, quindi, anche la celebre “chimera” sarebbe qualcosa di possibile, in quanto una tale ipotesi – ma sarebbe meglio dire “virtualità” – non è, in sé, auto-contraddittoria (tantoché essa è pure pensabile), a prescindere dal darsi o non darsi effettivi delle condizioni necessarie alla sua realizzabilità.

58 Cfr. ARISTOTELE, Metafisica, IV, 4, 1005b: «Ci sono alcuni, come dicemmo, i quali affermano che la

stessa cosa può essere e non essere, e, anche, che in questo modo si può pensare. […] Noi, invece, abbiamo stabilito che è impossibile che una cosa, nello stesso tempo, sia e non sia; e, in base a questa impossibilità, abbiamo mostrato che questo è il più sicuro di tutti i principi. Ora, alcuni ritengono, per ignoranza, che anche questo principio debba essere dimostrato […] in generale, è impossibile che ci sia dimostrazione di tutto: in tal caso si procederebbe all’infinito, e in questo modo, per conseguenza, non ci sarebbe affatto dimostrazione» (trad. it. di G. Reale, Rusconi, Milano 1978).

1.2.1. Altro referente storico della figura del possibile “logico” – questa volta moderno –, è Francisco Suàrez, il quale, nelle Disputationes Metaphysicae – in particolare nella II e nella XVIII – parla dell’impossibile come dell’ambito dell’auto-contraddittorio: ad essere possibile rimane dunque soltanto l’incontraddittorio. Suàrez concepisce la ratio entis come l’existere extra nihil negativum, dove l’existere è inteso nel suo significato più proprio di ek-sistere, ovvero “sporgere” oltre quel nulla che farebbe da contenuto all’ipotesi auto-contraddittoria.

1.2.2. La concezione del possibile come il meramente incontraddittorio confluisce nella filosofia di Leibniz: il principale analogato dell’essere non è più il tode ti aristotelico, bensì il possibile, di cui la realtà rappresenta l’attualizzazione (Teodicea, II, 201): in quel luogo Leibniz scrive che

se potessimo comprendere la struttura e l’economia dell’universo, troveremmo che è fatto e governato proprio come i più saggi e i più virtuosi vorrebbero, non potendo Dio mancare di fare così. Tale necessità, tuttavia, non è che morale. […] se Dio fosse necessitato a produrre tutto ciò che produce da una necessità di tipo metafisico, o produrrebbe tutti i possibili, o non produrrebbe assolutamente nulla59.

1.2.3. Un altro filosofo scolastico moderno, Christian Wolff, afferma che «la prima cosa che si concepisce dell’ente è la sua essenza»: l’ontologia viene quindi costituita assimilando l’attuale al possibile (Ontologie).

1.2.4. Da quanto detto finora, se qualcosa è saputo come possibile, allora esso è a fortiori incontraddittorio; ma l’incontraddittorietà di una ipotesi è anche condizione sufficiente per la possibilità della stessa?

È stato Kant a evidenziare gli inconvenienti di una semantizzazione del possibile come il meramente incontraddittorio. Nella sua Dissertatio (Sezione V, § 28), il filosofo prussiano denuncia come “surrezione”60 la riduzione del possibile all’incontraddittorio.

Esiste infatti un tipo di impossibilità che non è mediata dalla contraddizione (eminentemente, la già citata impossibilità “elenctica”). Scrive Kant:

quanto poi al secondo assioma surrettizio, esso trae origine dalla conversione arbitraria del principio di non contraddizione. Ma a questo fondamentale giudizio

59 Cfr. G.W.LEIBNIZ, Saggi di Teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male, II,

201, trad. it. di M Marilli, BUR, Milano 1993.

inerisce il concetto di tempo in quanto che, dati in esso nello stesso tempo opposti contraddittori, è manifesta l’impossibilità, che è enunciata così: ciò che simultaneamente è e non è, è impossibile. Qui, essendo predicato qualcosa mediante l’intelletto in un caso che è dato in conformità alle leggi della sensibilità, il giudizio è verissimo ed evidentissimo. Se, invece, si converte così il medesimo assioma e si dice: ogni impossibile è e non è nello stesso tempo, cioè implica una contraddizione, allora si predica in modo universale mediante la conoscenza sensitiva qualcosa di un oggetto della ragione, e perciò si sottomette il concetto intellettuale di possibile e di impossibile alle condizioni della conoscenza sensitiva, ossia ai rapporti di tempo; il che è verissimo in riferimento alle leggi alle quali l’intelletto umano è vincolato e dalle quali è limitato, tuttavia non può essere in nessun modo concesso in modo oggettivo e generale. […] che quindi tutto ciò che non implica contraddizione sia appunto possibile, è una conclusione infondata, assumendosi come oggettive le condizioni soggettive del giudicare61.

Kant mette in evidenza la non liceità di una conversione del PDNC, con la quale si affermi che «ogni impossibile è e non è nello stesso tempo».