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La presidenza Alfonsín

Memoria, verità e giustizia furono da subito, all’indomani della caduta della dittatura, al centro del dibattito pubblico: ne fu una dimostrazione la campagna elettorale del 1983 che legò, in campo politico, la neonata

democrazia al rispetto dei diritti umani334. I candidati alla

Presidenza, ben consapevoli del fatto che tanto più la società reclamava di far luce sui passati abusi quanto più i militari

propendevano invece per l’oblio, condannarono

immediatamente l’autoamnistia. Tuttavia, il candidato della Unión Cívica Radical, Raul Alfonsín, membro tra l’altro

dell’Asamblea Permanente por los Derechos Umanos

(APDH) fu meno ambiguo del suo principale avversario, il peronista Italo Luder: mentre il primo, all’inizio promise di derogare tale legge e successivamente aggiunse che avrebbe cercato di annullarla per incostituzionalità, il secondo, pur condannandola, affermava che comunque anche derogandola avrebbe avuto effetto vincolante per via del principio della

legge più benigna (art. 2 del Codice Penale argentino)335.

Il 30 ottobre del 1983 Raul Alfonsín vinse a sorpresa le elezioni, nonostante il partito peronista apparisse favorito,

334

Cfr. E.L.DUHALDE, El estado terrorista argentino, El caballito, Buenos Aires, 1983, p. 143.

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ed il 10 dicembre entrò in carica il nuovo governo democratico: secondo molti osservatori il soprendente risultato elettorale era da attribuire alla posizione più decisa dell’esponente radicale, ossia alla manifestata intenzione di processare i militari responsabili dei crimini contro la dignità

della persona umana336. Nella sua campagna presidenziale,

lo stesso Alfonsìn, in una lettera pubblicata il 2 maggio 1983, aveva infatti dichiarato di voler punire gli ufficiali militari che si erano macchiati di gravi violazioni dei diritti umani durante la dittatura. Mostrava, però, l’intenzione di sottoporre a giudizio soltanto i membri delle giunte militari e non le forze armate nel loro complesso: da un lato sembrava non voler inimicarsi i militari, che ancora avevano un notevole peso politico nel Paese e che avrebbero potuto mettere in pericolo la transizione democratica, dall’altro cercava di non scontentare l’opinione pubblica.

Alfonsín, che legò senz’altro il suo successo elettorale alla volontà di fare finalmente giustizia, non deluse le aspettative: il 13 dicembre del 1983 emise due importanti decreti, il n. 157/83 “Juicio a las Juntas y cúpulas guerilleras” e il n. 158/83 “Orden presidencial de procesar a las juntas militares”. Quest’ultimo in particolare disponeva il

giudizio di nove membri delle prime tre giunte militari337, da

parte del tribunale militare, il Consejo Supremo de las Fuerzas Armadas; in alternativa, la magistratura ordinaria avrebbe potuto assumere la conduzione del processo, se il rinvio a giudizio non fosse stato disposto entro sei mesi dalla

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Cfr. J. MALAMUD GOTI, Terror y justicia; E.F. MIGNONE, Derechos umanos y sociedad; NINO, Juicio al mal absoluto, Emecé Editores, Buenos Aires, 1997; H. VERBITSKY, Civiles y militares, H. VEZZETTI, Pasado y presente, Siglo XXI, Buenos Aires, 2002.

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Cfr. art. 1 del decreto 158/83: “Sométase a juicio somario ante el Consejo Supremo de las Fuerzas Armadas a los integrantes de la Junta militar que usurpó el gobierno de la Nación el 24 de marzo de 1976 y a los integrantes de las dos juntas militares subsiguientes, Teniente General Jorge R. Videla, Brigadier General Orlando R. Agosti, Almirante Emilio A. Massera, Teniente General Roberto E. Viola, Brigadier General Omar D. R. Graffigna, Almirante Armando J. Lambruschini, Teniente General Leopoldo F. Galtieri, Brigadier General Basilio Lami Dozo y Almirante Jorge I. Anaya”.

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data del decreto. Erano stati esclusi dal giudizio per direttissima i membri della quarta giunta, presieduta da Bignone: si trattava di una scelta ambigua che prestava il fianco a numerose critiche. Infatti, sebbene avessero avviato il processo di transizione, i militari in questione cercarono di garantire a sé e agli altri l’impunità attraverso l’approvazione della Legge di Pacificazione Nazionale.

Il 25 settembre del 1984, di fronte alla dichiarata impossibilità del Tribunale Militare di decidere entro i termini previsti, la causa venne trasmessa alla Camera Federale d’appello di Buenos Aires.

Il 22 aprile del 1985 iniziò così il c.d. “processo del

secolo”338, conclusosi alcuni mesi dopo con una storica

sentenza339 che riconobbe la colpevolezza degli accusati, con

gradi di responsabilità diversi, e condannò all’ergastolo Videla e Massera, presidenti rispettivamente dell’Esercito e

della Marina340.

Alfonsìn si mostrò da subito molto attento alla questione dei diritti umani, tant’è vero che, con il decreto n. 187 del 15 dicembre 1983, istituì la Comisión nacional sobre la Desaparición de Personas (Conadep), con l’obiettivo di chiarire i fatti occorsi durante la dittatura militare e di dare risposte ai parenti delle persone scomparse. Il rapporto finale della commissione, noto come Nunca Más, pubblicato nel settembre del 1984, documentò la sparizione forzata di quasi 9000 persone per mano del governo militare: la Conadep trasmise i risultati delle sue inchieste ai tribunali argentini, i quali, grazie alle informazioni raccolte dalla Commissione si accinsero a incriminare i vertici delle giunte militari responsabili degli abusi. Inoltre, con la legge n. 23.040, approvata il 22 dicembre del 1983, venne dichiarata

338

A. DI GREGORIO, Epurazioni e protezione della democrazia. Esperienze e modelli di “giustizia post-autoritaria”, cit., p. 141.

339

Il testo integrale della sentenza è consultabile sul sito http://derechos.org/nikzor/arg/causa13/index.html

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incostituzionale ed irrevocabilmente nulla la legge di pacificazione nazionale: essa divenne priva di qualsiasi effetto legale anche nei confronti di coloro ai quali fosse già stata applicata nel breve tempo intercorso dalla sua entrata in vigore, con effetto ex tunc, allo scopo di evitare che potesse essere invocato il principio di ultrattività della legge penale più favorevole al reo. La strategia della repressione penale messa in atto dal governo Alfonsín aveva due direttrici

principali: l’idea dell’auto-epurazione - mediante

l’assegnazione dei processi alla stessa giustizia militare - e in secondo luogo, l’individuazione di tre livelli di responsabilità521. Già durante la campagna elettorale, infatti, Alfonsín aveva distinto: gli artefici della macchina repressiva, ossia coloro che erano in grado di prendere decisioni e impartivano ordini esecutivi sul piano della repressione illegale; i colpevoli di atti gravi commessi, per crudeltà o perversione, al di fuori degli ordini ricevuti; coloro che avevano semplicemente obbedito ad ordini superiori. Si riteneva che solo gli appartenenti alle prime due categorie dovessero essere sottoposti a giudizio, mentre gli altri erano esclusi in quanto meri esecutori di ordini ritenuti legittimi. Con la legge 23.049 del 1984 il Congresso Nazionale ratificò questa visione, con la riserva che la presunzione di legittimità degli ordini ricevuti cadeva se in

esecuzione di essi fossero stati commessi atti

particolarmente atroci. Su queste basi, iniziò il primo processo ai membri di un governo militare di tutta la storia sudamericana, secondo per importanza solo a Norimberga. Finalmente il Paese riuscì a confrontarsi con il proprio passato: per la prima volta i terribili eventi della repressione vennero presentati e apertamente additati agli occhi dell’opinione pubblica. Tuttavia, quando il governo tentò di estendere i processi agli ufficiali di grado più basso, questi reagirono organizzando rivolte in diverse parti del paese. Le

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pressioni militari continuavano, infatti, ad avere un grosso peso nella politica argentina: l’amministrazione, non potendo rischiare uno scontro aperto con l’esercito che desse luogo ad un nuovo golpe, si piegò alle richieste dei militari ed emanò, in tempi molto rapidi, prima la c.d. Ley de Punto Final, n. 23.492 del 23 dicembre 1986 (legge del punto finale), poi pochi mesi di distanza la c.d. Ley de Obediencia Debida, n. 23.521 del 4 giugno 1987 (legge dell’obbedienza dovuta). Così si istituzionalizzava l’impunità. In particolare, pur non essendo un provvedimento di amnistia generale come desiderato dalle forze armate, la Ley de Punto Final, considerava estinti tutti i reati di tipo politico commessi da militari e poliziotti nel periodo compreso tra il 24 marzo 1976 ed il 10 dicembre 1983 non ancora incriminati fino a quel momento, e fissava il limite di 60 giorni dalla promulgazione della legge, per la presentazione di denunce contro i responsabili di crimini del terrorismo di Stato. La legge non raggiunse, però, lo scopo desiderato, ossia di limitare la punizione degli ufficiali, e paradossalmente produsse l’effetto opposto: nell’arco dei 60 giorni indicati furono presentate centinaia di denunce contro militari e membri della polizia, che contribuirono ad alimentare le tensioni con i militari stessi, tant’è che nell’aprile del 1987, nella settimana di Pasqua, numerosi ufficiali di livello

intermedio, chiamati carapintadas524, avviarono

un’insurrezione, guidata dal colonnello Aldo Rico e occuparono la più grande guarnigione militare di Buenos Aires. La democrazia, a seguito di questo sollevamento militare, sembrava essere di nuovo in pericolo, motivo che indusse il presidente Alfonsín a cambiare rotta, a scendere a patti con i militari ed accettare le richieste che questi avanzarono: la debole neodemocrazia scelse di dare alla sicurezza la priorità sulla giustizia. Il presidente fece approvare la Ley de Obediencia Debida, che stabiliva la

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presunzione, senza possibilità di prova contraria, in favore della maggior parte dei membri delle forze armate e delle forze di polizia argentine, di aver agito, in caso di crimini riguardanti violazioni di diritti umani, in stato di coercizione sulla base di ordini superiori, senza possibilità di opporvi alcuna forma di resistenza o di contestazione. Anche in questo caso non si trattava di un’amnistia: infatti, la legge in questione non estingueva la responsabilità delle violazioni ma, basandosi sulla tripartizione dei casi prevista dalla menzionata legge 23.049, lasciava spazio ad un potere discrezionale dei giudici delle corti nazionali, ancora fortemente conservatrici, nell’individuazione delle ipotesi in cui gli ufficiali avevano legittimamente eseguito quegli ordini. Nemmeno questo provvedimento, che consentiva agli ufficiali di grado inferiore di invocare a propria difesa il fatto che stessero eseguendo degli ordini, pose fine al passato, in quanto era stato sottovalutato il grado di autonomia del potere giudiziario. Al termine del mandato di Alfonsín, nel maggio 1989, erano ancora in corso circa 200 procedimenti, che avanzavano molto lentamente. Alfonsín non aveva mantenuto le promesse di giustizia formulate ai suoi elettori prima di ottenere il mandato e l’impunità dilagante aveva causato un grave senso di sconforto nei familiari delle vittime e nei sopravvissuti ai centri di detenzione.

105 2. La presidenza Menem

Ad Alfonsín succedette nel 1989 Carlos Menem, convinto sostenitore di una politica della riconciliazione. Il secondo periodo della transizione argentina, in netta frattura con il precedente, è riconducibile alla presiden. Mentre la politica di Alfonsín può essere definita “politica della verità”, in quanto volta a far luce sugli orrori del passato, attraverso la punizione dei colpevoli, (anche se fu costretta a far retromarcia difronte alla minaccia di un possibile ritorno del regime militare), la politica del presidente Menem può essere definita “politica del perdono”. Menem riteneva, infatti, che era venuto il momento di chiudere le ferite aperte nella società argentina dalla dittatura e patrocinò una politica di riconciliazione nazionale. L’amministrazione Menem puntò ad attuare forme di riparazione economica, formalizzate con il decreto n. 70/1991, trasformato in legge n. 24.043/1991 e con la legge n. 24.411/1994, indennizzando con risarcimenti i familiari dei desaparecidos e coloro che erano stati ingiustamente detenuti per ragioni politiche. Anch’egli, però, doveva fare i conti con i militari del vecchio regime, che cercò di “ingraziarsi”, affinché non destabilizzassero il suo Governo, alle prese con una difficile situazione economica e con tante riforme istituzionali da realizzare. Menem eliminò, quindi, ciò che essi percepivano come una minaccia: le sanzioni penali, concedendo loro indulti mirati. Il Presidente non optò per l’adozione di un

provvedimento generale di amnistia, ma preferì

l’emanazione di singoli decreti presidenziali volti alla risoluzione di specifiche situazioni. Il primo decreto di indulto, il n. 1002 del 7 ottobre 1989, che stabiliva venissero “perdonati” gli imputati (oltre 50 alti ufficiali) di 32 processi in corso, fu giustificato da Menem con la necessità di voltare pagina e dimenticare una volta per tutte gli orrori del

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passato. Lo stesso giorno erano stati emessi i decreti di indulto 1003, 1004, 1005/89, cui fecero seguito altri tre decreti il 30 dicembre del 1990, che condonarono anche la pena dei condannati Videla, Massera, Viola. In altre parole, il “perdono” consisteva nel blocco dell’attività investigativa per i fatti riguardanti imputati per i quali erano già in corso processi e nella scarcerazione degli alti comandanti fino ad allora in prigione. È evidente la perdita della rilevanza del diritto penale a seguito dell’adozione di questi provvedimenti, tant’è che “a metà degli anni Novanta nessun militare coinvolto nella dittatura si trovò più a dover rispondere alla giustizia per crimini commessi”529. Stesso tipo di atteggiamento hanno assunto i successori di Menem, Fernando de la Rua, eletto nel 1999, e Eduardo Duhalde, eletto nel 2002: benché contrario alle punizioni, il governo si è sempre mostrato disponibile ad una politica di risarcimenti ed ha anche sostenuto il “diritto di sapere”.