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3.1. EDUCAZIONE

3.1.2. Presupposti dell’azione educativa

I processi di educazione si realizzano nei rapporti interpersonali e sociali, all’interno di strutture e di relazioni, nella continua interazione con l’ambiente, nella dinamica dei

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Cfr. C. NANNI, “Educazione” in Carlo Nanni (a cura di), Dizionario di Scienze dell’Educazione, op. cit., p. 340-341

processi produttivi, culturali e sociali. L’azione educativa è sempre relazionale: il processo educativo suppone l’immaturità del soggetto da educare e l’aiuto e la guida dell’adulto o di più persone nei suoi confronti; l’adulto assolve funzioni che rispondono ai bisogni dell’educando, riconoscendo ed accettando incondizionatamente la persona immatura e attuando una serie di azioni finalizzate alla strutturazione e al consolidamento della personalità dell’educando e della sua vita relazionale146.

In quanto particolare relazione di aiuto, la relazione educativa non intende annullare l’asimmetria educativa tra educatore ed educando (differenti generazioni, ruoli diversi tra genitori e figli), ma vivere la relazione in senso di reciprocità: «Educatori e educandi sono insieme protagonisti nel comune impegno di crescita, di liberazione, di promozione umana, di qualificazione umana dell’esistenza, seppure con diversità di ruoli e compiti al riguardo. Gli uni hanno bisogno degli altri e possono ricevere il dono che fa crescere»147.

Inoltre la relazione educativa è sempre situata e contestualizzata, perché si inserisce in un tempo, in una storia, in una situazione concreta, quindi assume caratteri differenti a seconda dell’ambiente socio-culturale in cui viene effettuata e delle rappresentazioni mentali dell’educatore nei confronti del soggetto educando e dell’educazione stessa. Alla base dell’azione educativa, infatti, vi sono alcuni presupposti, ovvero concetti, valori, credenze, che sono impliciti, quindi scarsamente consapevoli, nell’agire dell’educatore, ma con la capacità di orientare e di condizionare l’agire educativo148. Un primo presupposto riguarda il modo di pensare e di valutare l’altro che, nel caso dell’educatore, comprende il soggetto educando, i familiari del soggetto, l’ambiente in cui vive. L’educatore agisce sulla base delle risposte ad alcune domande implicite, quali, ad esempio. “Chi è l’altro? Perché è così? Perché si comporta e ragiona in quel modo? Da che famiglia proviene?” Questi pensieri evidenziano che si tratta di riflessioni raramente elaborate in modo cosciente e che non riguardano in particolare il soggetto specifico, ma si configurano come concezioni generiche sulla natura umana.

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Cfr. C. NANNI, Antropologia della relazione e dell’educazione, in L. MEDDI (a cura di), Formazione

e comunità cristiana, Urbania University Press, Città del Vaticano 2006, p.77. 147

Ibid, p. 79.

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Cfr. L. PASQUALOTTO, I presupposti del lavoro educativo, in F. FERRARI, A. LASCIOLI (a cura di), Operativamente educativi, Franco Angeli, Milano 2005, p. 64.

Tali concezioni possono essere classificate secondo le seguenti quattro diverse concezioni antropologiche: 149

1. Determinismo biologico. La natura umana sarebbe determinata da un insieme di fattori biologici genetici innati da cui dipende la condotta dell’individuo. Tali teorie si fanno risalire agli studi ottocenteschi di fisiognomica condotti da Cesare Lombroso, agli studi scientifici di F. Galton, ma anche agli studi di neogenetica condotti nel III millennio sul genoma umano e sul DNA. La conseguenza sul lavoro educativo di una tale concezione deterministica è una pratica priva di progettualità e di speranza di cambiamento da parte del soggetto educando. 2. Determinismo culturale. Lo sviluppo della personalità dell’individuo sarebbe

determinato da innumerevoli stimoli parentali, ambientali e sociali e la soggettività sarebbe la risultante delle forme di integrazione sociale che agiscono sull’individuo nel contesto dei ruoli familiari e sociali. Gli studi che rappresentano questo tipo di teorie sono quelli effettuati agli inizi del Novecento da Watson (stimolo-risposta), da Spitz, Bowlby (attaccamento e soluzione dei conflitti), da Bandura (imitazione e modeling). Le implicazioni in abito pedagogico di questa teoria rischiano di ridurre l’educazione al tentativo di far adattare l’individuo al contesto socio-culturale in cui si trova inserito.

3. L’approccio interazionistico. Secondo questa teoria, l’individuo sarebbe la risultante di un certo programma genetico, il quale assumerebbe percorsi di sviluppo diversi in relazione alle diverse condizioni ambientali. Non esiste uno sviluppo biologico indipendente dall’ambiente, poiché la cultura è indispensabile per colmare il divario fra le informazioni dei geni e ciò che si deve sapere e fare per vivere. Su queste posizioni si esprimono autori come J. Bruner, I. Eibl-Eibesfeldt, W. Allport. Da un punto di vista educativo, concepire il percorso di sviluppo umano come condizionato da fattori evolutivi di ordine genetico implica un’azione educativa aperta alla speranza e al cambiamento. 4. L’approccio metafisico. Una posizione decisamente diversa dalle precedenti è

quella che riconosce a ciascuno un “fattore personale” a fondamento della propria unicità soggettiva, capace di oltrepassare i vincoli posti dalla natura e

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dalla cultura e assumendo a fondamento il valore della libertà e della responsabilità. Esponente di questa concezione è J. Hillman, secondo il quale è inspiegabile lo sviluppo umano senza qualche riferimento all’esistenza di fattori invisibili e non misurabili nella personalità di ciascuno150. Questa antropologia mostra punti di contatto con le teorie del personalismo religioso cristiano, secondo cui la persona si colloca oltre l’esistenza quotidiana e l’intervento educativo ha lo scopo di perfezionare il soggetto, di valorizzarlo, di realizzare in lui la propria unicità personale.

Un secondo presupposto riguarda l’idea stessa di educazione, che può essere concepita come auto-educazione oppure come etero-educazione.

Nel primo caso l’educazione viene ricondotta al filone delle pedagogie permissive (lasciar fare) e delle educazioni negative (non ostacolare, non intervenire), riconoscendo come assunto di fondo la bontà naturale dell’uomo, che va rispettata e salvaguardata. Ne consegue una pratica educativa che riconosce un valore assoluto alla libertà dell’uomo all’apertura alle novità e al cambiamento di cui ogni persona può essere portatore, anche se vi è di fondo la convinzione (a volte errata) che ciascuno sia capace di autonomia, di darsi mete e valori.

La seconda concezione, opposta alla prima, è l’educazione come etero-educazione, che richiede la presenza di un educatore che aiuti il soggetto a crescere. L’educazione diviene orientata, nel senso che l’azione educativa è scelta da un educatore sulla base del contesto socio-culturale entro cui avviene il processo educativo e si struttura sulla base di un “traguardo” di sviluppo e di maturazione personale da raggiungere.

Un terzo presupposto concerne il “potere” che viene attribuito all’educazione, che si esplica nella risposta dell’educatore alle seguenti domande: “Cosa produce l’educazione? Cosa modifica nella persona un programma educativo?”

Per rispondere a tali questioni è opportuno riflettere sulla natura del cambiamento individuale, che può essere “visibile”, osservabile, ma anche “invisibile”, ovvero agire all’interno di processi psichici. La parte visibile dell’educazione riguarderebbe gli apprendimenti, gli atteggiamenti, i comportamenti, che possono essere appresi o modificati, mentre la parte invisibile si esplica nella consapevolezza di sé,

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nell’identificazione con alcuni valori e in determinati comportamenti verso sé e il prossimo. Generalmente l’intervento dell’educatore si limita alla parte “visibile”, ma se l’educatore ipotizza l’esistenza di un livello “invisibile” dell’educazione, si assegna all’educazione il potere di smuovere le motivazioni profonde che stanno alla base di un cambiamento151.

Un quarto presupposto concerne il modo che l’educatore possiede di rappresentarsi e di interpretare il proprio ruolo educativo.

L’educatore può assumere un ruolo di spettatore, ovvero non intervenire e aspettare (pedagogia non direttiva, educazione negativa), ma una posizione di questo tipo indica una rinuncia a qualsiasi potere da parte dell’educatore; l’educatore, ancora, può stare accanto ad un soggetto impegnato nel proprio cammino di crescita (pedagogia non direttiva, permissiva) permettendo l’attualizzazione di potenzialità inibite o represse, ma anche in questo caso vi è un modo improprio di interpretare il ruolo educativo, perché se qualcosa non funziona si addosseranno tutte le colpe sul soggetto educando. Un terzo atteggiamento che può assumere l’educatore è quello di avere un ruolo asimmetrico, ovvero essere sopra il soggetto ed indicargli la via da seguire; tale modalità rischia di negare la soggettività dell’educando, rischio che però può essere allontanato a seconda dell’antropologia da cui muove l’educatore. L’educatore, infine, può assumere un ruolo quasi genitoriale, ossia sentirsi pienamente responsabile del soggetto educando, prendendosi cura di lui, compredendolo, giustificandolo, perdonandolo; interpretare il ruolo educativo in questo modo comporta per l’educando una forte limitazione152. L’adulto, dunque, compie opera educativa quando non lede l’autonomia del soggetto educando, ma quando lo aiuta a crescere in umanità, quando agisce per la sviluppo della sua persona, quando ne favorisce lo sviluppo fisico, intellettuale e morale, promuovendone le capacità fondamentali per vivere la sua vita in modo libero e responsabile, con coscienza e dominio di sé, nel mondo e con gli altri, nel fluire del tempo e delle età, nell’intreccio delle relazioni interpersonali e nella vita sociale storicamente organizzata153.

151

Cfr. F. LAROCCA, L’educazione invisibile, Trentouno, Trento 1993, pp. 143-145.

152

Cfr. L. PASQUALOTTO, I presupposti… op. cit., pp. 85-90.

153

Cfr. M. LAENG, “Educazione”… op. cit., pp. 4222-4225 e Educazione in Carlo Nanni (a cura di),

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