• Non ci sono risultati.

2. Reductio ad unum: tempo sociale, tempo indivi duale:

2.2. Il primato del tempo vissuto

Se il tema della temporalità occupa uno spazio tutto sommato mar- ginale nell’ambito della tradizione sociologica durkheimiana, lo stesso non si può dire con riferimento alla scuola del cosiddetto interazioni- smo simbolico, definizione che sottende, in realtà, un insieme alquanto eterogeneo di autori. Il filosofo Edmund Husserl può essere conside- rato il loro padre putativo; egli, attraverso la fenomenologia, pone le basi per una trasformazione radicale del processo di conoscenza della realtà, rivalutando fortemente il contributo dell’individuo nella produ- zione e ri-produzione della struttura sociale della vita quotidiana.

In estrema sintesi, «il principio fondamentale della fenomenologia dice che è possibile raggiungere l’essenza reale delle cose senza che ci si debba basare affatto sui dati empirici» (Collins, 1994, p. 195). Con ciò, emerge subito l’enorme distanza rispetto alla prospettiva di Durkheim: se prima l’indagine scientifica doveva muovere dai fatti sociali, liberati dalle scorie della soggettività, con il metodo di Husserl è necessario recuperare la visione soggettiva che, operando nel mondo dalla vita, è in grado di cogliere la realtà nella sua forma più pura. Infatti, nella prospettiva del filosofo tedesco, le scienze positive elimi- nano i «fondamentali problemi dell’uomo che, bollati come metafisici, vengono trascurati e infine ridotti all’irrilevanza, considerati senza senso. […] La scienza diventa così una scienza di meri fatti» (Ventu- rini, 2017, p. 145, corsivo aggiunto).

Pertanto, alla deriva del metodo naturalistico Husserl contrappone quello fenomenologico, che è possibile descrivere come una sorta di procedura eidetica – o anche archetipica – vòlta alla comprensione delle cose nella loro “essenza” originaria. Tuttavia, queste caratteristi- che essenziali non intrattengono un rapporto biunivoco con le pro- prietà degli oggetti – fisici e non – che dovrebbero descrivere, bensì

34

emergono da un procedimento mnestico che lavora con gli oggetti per come si presentano alla coscienza. In altri termini:

l’analisi fenomenologica mira alla costituzione di una scienza eidetica degli elementi invarianti che non ha a che fare con gli oggetti in sé, ma si riferisce ai significati degli oggetti nel mondo così come si costituiscono nella mente degli esseri umani. La forma di questi significati è costituita da elementi strutturali, eidetici o essenziali. (Venturini, 2017, p. 33).

Ma come dovrebbe configurarsi l’applicazione pratica di un simile approccio? Con tale domanda si mette in discussione la possibilità che i presupposti filosofici della fenomenologia possano tradursi operati- vamente. In effetti, è un problema piuttosto complesso da affrontare; nondimeno, Schütz, noto allievo di Husserl, accetta la sfida, cercando di elaborare un approccio fenomenologico nell’ambito delle scienze sociali. Egli, dunque, «comincia con l’indagare quale essenza si possa riscontrare in un tipo particolare di esperienza, quella che hanno gli individui del mondo sociale» (Collins, 1994, p. 196). A questo punto, un esempio può essere d’aiuto.

Prendiamo un tipo di interazione molto generale, praticata nella stragrande maggioranza delle culture: lo scambio. L’economia è senz’altro un ambito privilegiato dei rapporti di scambio, i quali si pre- sentano in svariate fattispecie. Ad un primo livello, troviamo il baratto, fondato sulla circolazione diretta dei beni. Successivamente, attra- verso il denaro, si introduce un dispositivo di mediazione che permette il differimento dello scambio reciproco dei prodotti, cui viene attri- buito un corrispettivo valore monetario. Inoltre, gli oggetti dello scam- bio possono essere sia materiali sia immateriali, come la forza lavoro o il tempo stesso. Altri tipi di scambio si consumano fuori dal circuito del mercato e coinvolgono la dimensione relazionale e affettiva: do un passaggio a un amico perché mi sta aiutando con il trasloco, aiuto i bisognosi per sentirmi utile, faccio una sorpresa a mia moglie perché la sua gioia mi riempie il cuore, e così via. Infine, vi sono degli scambi che non giungono a compimento, rimanendo, in un certo senso, ine- spressi. È il caso dello stagista che resta in ufficio ben oltre l’orario di lavoro, sperando così di farsi assumere. Anche immaginando che lo stagista non riesca nel suo intento, tale situazione rientra comunque nel novero dei rapporti di scambio, poiché egli accetta di partecipare

35

alla relazione investendo le proprie risorse con lo scopo di acquisire un incremento di potenzialità, nello specifico, la probabilità di ottenere un contratto di lavoro stabile.

Posto che si potrebbe continuare a lungo nell’elencazione di tutti i casi possibili, il compito successivo richiede, al contrario, un esercizio mentale di distacco dalle forme osservative dello scambio. Sostanzial- mente, l’obiettivo consiste nel mettere da parte – si direbbe mettere “tra parentesi” nel linguaggio husserliano – tutte queste rappresenta- zioni sui generis dello scambio, e provare a vedere cosa ne rimane. In primo luogo, è agevole constatare che qualsiasi rapporto di scambio implica la presenza di due beni – nell’accezione più ampia possibile del termine – e di due contraenti che gli riconoscono un valore. Poi, in presenza di un accordo tacito o palese, consapevole o inconsapevole, essi entrano in possesso ognuno del bene dell’altro, designando un per- corso ideale per cui il soggetto X ottiene il “bene 1” da Y che, a sua volta, acquisisce il “bene 2” da X in virtù di un valore V posseduto da entrambi i beni. Ricapitolando, è impossibile pensare a uno scambio privo di:

• due o più beni;

• due o più soggetti che detengono i beni; • l’attribuzione di un valore ai beni;

• un reciproco trasferimento di beni tra soggetti.

In definitiva, il risultato del procedimento è un insieme di qualità che costituisce l’eidos dello scambio, ossia, appunto, la sua forma ei- detica12. Ovviamente, nella realtà empirica non è dato osservare alcun

rapporto di scambio in tale veste, che per converso può essere afferrato solo mediante esercizi di raffigurazione mentale come quello appena illustrato.

Alla luce di quanto detto, occorre ora focalizzare l’attenzione su ciò che accade operando allo stesso modo con il concetto di tempo.

12 Si tratta di un esempio che ho mutuato da Schütz (1962, pp. 113-114) e che, per comple-

36

Fenomenologicamente […], anche il tempo subisce una riduzione, imponendo di mettere fra parentesi l’evidenza delle rappresentazioni temporali oggettive, l’orolo- gio che scandisce lo scorrere del tempo, per giungere a un tempo proprio della cor- rente del vissuto di ciascun io (Taroni, 2012, p. 475).

Ecco un primo segnale di contrapposizione fra tempo sociale e tempo individuale: l’orologio, simbolo di un tempo mistificatorio, ar- tefatto e inessenziale, rappresenta il primo elemento di cui disfarsi. In sua assenza, le prescrizioni obbliganti di una temporalità fittizia ven- gono meno, aprendo all’autentica comprensione del tempo basata sulla purezza del suo manifestarsi alla coscienza interna del soggetto. Ma c’è di più: è la soggettività stessa che, nell’atto analitico rivolto all’og- getto tempo, intuisce di riflesso la propria struttura essenzialmente temporale. In altre parole, il tempo è parte costituente della soggetti- vità, della costruzione identitaria e dell’attribuzione di significato.

Ma in che modo avviene tutto questo? Secondo Schütz la coscienza può essere distinta in due dimensioni che pertengono alle diverse mo- dalità attraverso cui l’uomo entra in contatto con la realtà e la elabora. Da un lato si trova la sfera pre-riflessiva (o pre-predicativa), luogo di una percezione immediata. Ciò significa, etimologicamente, che non subentra alcuna mediazione tra il vivificarsi del mondo ai nostri sensi e il suo attingimento. Dall’altro lato, vi è la dimensione riflessiva (o predicativa) dove il flusso, per così dire, “grezzo” percepito dalla co- scienza viene colto tramite il richiamo attenzionale al “vissuto di cia- scun io”.

Ora, si noti come la relazione con il vissuto abbia una duplice va- lenza temporale. Innanzitutto, il passaggio dalla dimensione pre-rifles- siva a quella riflessiva fa sì che il rivolgimento all’una e all’altra non possa essere simultaneo, in quanto la prima precede sempre la se- conda. Esiste dunque un temps perdu tra l’accadere intrinseco alla realtà e le nostre percezioni sensibili13 In secondo luogo, designando

un coacervo di tutte le esperienze precedenti, il vissuto trova necessa- riamente realizzazione nel tempo. Si tratta, però, di un tempo estraneo

13 Tra l’altro, l’intuizione della struttura temporale della coscienza trova sostegno anche in

ambito scientifico, allorché gli esiti degli esperimenti neurobiologici condotti da Herman von Helmholtz, prima, e Benjamin Libet, poi, rivelano la presenza di un tempo di latenza – deno- minato “temps perdu” – fra uno stimolo indotto e la successiva reazione dell’organismo. Ne consegue che «il tempo per attivare la coscienza non dipende dalla frequenza o dal numero degli impulsi elettrici, ma dalla loro durata» (Benini, 2017, p. 30).

37

al ritmo regolare e asettico dell’orologio, il quale, diversamente, espri- mendosi nei termini della durata si attesta come elemento essenziale alla coscienza14.

Pertanto, considerando l’intero processo, si può dire che è nella di- mensione riflessiva della coscienza che si determina l’attribuzione di significato, giacché, «essendo il senso un fenomeno temporale, non è riducibile al vissuto immediato, bensì emerge dalla riflessione che è una interpretazione a posteriori» (Venturini, 2017, p. 38).

Anche per l’identità è possibile individuare un iter analogo: essa si sviluppa dapprima, in modo pre-riflessivo, a partire dal tempo interno, per poi delinearsi compiutamente nella sfera riflessiva, in cui la durata interviene come elemento soggiacente imprescindibile ai fini della sua costruzione. Perciò, è lecito affermare che «gli esseri umani nascono e vivono sempre nei ritmi del tempo interno» e che «è questo il fonda- mento dell’identità» (ivi, p. 120).

Volendo compendiare le concettualizzazioni di Schütz in una defi- nizione, ha senso ritenere che

il tempo si costruisce attraverso un processo pre-predicativo di ritenzione e proten- sione. Questo corso di coscienza è però un tempo interno, o un “vivere nei propri atti”, solo intuito, senza alcun significato; l’attribuzione di significato implica un rivolgimento sulla durée, una riflessione, che porta a un’uscita dalla coscienza irri- flessa (ivi, p. 38).

Con tutta evidenza, i meccanismi generativi chiamati in causa co- stituiscono una serie di abilità che pertengono esclusivamente all’in- dividuo, unico depositario di un tempo particolare atto all’interpreta- zione e alla comprensione del mondo circostante. Inoltre, poiché ognuno di noi è foriero di un vissuto irripetibile e senza eguali, si può dire che esistono tanti tempi quanti sono gli individui. Ed è proprio sulla comunione intersoggettiva di questi tempi che si fonda l’inesau- sto strutturarsi della società. In ultima istanza, «il tempo è nella socio-

14 Qui si evince tutto il debito intellettuale di Schütz nei confronti del pensiero di Bergson, con

particolare riferimento al concetto di “durée”. Per il filosofo francese, infatti, «durata implica dunque coscienza; e noi poniamo la coscienza al fondo delle cose, così come a queste attri- buiamo un tempo che dura» (Bergson, 1922, p. 49).

38

logia schutziana luogo delle relazioni sociali e cioè la dimensione sog- gettivamente interpretata ove avvengono incontri sensati tra i compo- nenti la società» (Pardi, 1984, p. 108).

Dove ci troviamo, quindi, rispetto al punto in cui avevamo lasciato Durkheim? Grosso modo all’opposto. Infatti, se per il sociologo fran- cese – come abbiamo avuto modo di constatare – il tempo assurge a categoria dell’intelletto, nella prospettiva di Schütz «il tempo […] non è una categoria, ma luogo di incontri soggettivi» (ivi, p. 109). Si apre così una voragine epistemologica tra le due visioni: quella durkhei- miana, imperniata sulla ricerca di fatti sociali la cui esistenza è reale e per giunta indifferente all’attività umana, pretende di mettere da parte la soggettività e indagare il senso del tempo al di fuori di essa, “fuori di noi”; mentre, nell’approccio fenomenologico, «il senso della realtà è sempre una costruzione soggettiva, è un’interpretazione che deve ve- nire a patti con le contingenze che caratterizzano la coscienza interna del tempo». Perciò, «nessuno può uscire dalla propria esperienza per afferrare il mondo “in sé”» (Venturini, 2017, p. 74).