II: La Primavera Araba e l’istituzione della Emergenza Nord Africa (ENA)
1. La Primavera Araba e il contesto libico
Il 2011 ha rappresentato sotto tanti punti di vista un anno esplosivo: sono scoppiate in diversi Paesi del mondo numerose guerre civili e conseguenti crisi umanitarie, che sono andate a sommarsi a situazioni interne da lungo tempo instabili. In particolare i conflitti che si sono accesi nel Nord e Centro Africa come in Ciad, Sudan, Libia, Egitto,Tunisia, Somalia, e in altri territori da troppi anni sventrati da laceranti guerre civili, unitamente alle crisi umanitarie che ne sono derivate, hanno creato una marea di persone costrette a lasciare la propria casa per cercare la salvezza e la speranza di una vita migliore. Nel 2011, infatti, sono state presentate nei Paesi dell’Unione Europa circa 300.000 richieste di protezione internazionale, delle quali circa 34.000 in Italia95, un numero superiore alla media, soprattutto se confrontato con i dati degli anni appena precedenti in cui l’Italia aveva implementato la politica dei respingimenti. L’allora governo Berlusconi, in considerazione di questo aumento, nel febbraio dello stesso anno decise di istituire la cosiddetta Emergenza Nord Africa per far fronte agli arrivi
95
60
via mare di coloro che scappavano dalle guerre scoppiate durate la Primavera Araba , dalla Tunisia prima, da cui cominciarono ad arrivare profughi alla fine del
gennaio 2011, e dalla Libia poi, i cui arrivi in Italia divennero più consistenti a partire dal luglio 2011, in seguito ai bombardamenti della Nato.
La Primavera Araba, così battezzata dai media occidentali, alla quale già si è fatto cenno nel precedente capitolo, è stato l’evento geopolitico più importante del 2011; manifestatosi con una catena d’insorgenze contro i regimi dispotici o dittatoriali, esplose in Paesi riconducibili all'universo arabo, del Maghreb e del Mashrek96, “di tale dimensione e così gravida di conseguenze da essere
comparabile alla svolta epocale della decolonizzazione”97. Essa è consistita in
una serie di rivolte popolari, soprattutto giovanili, entusiasmanti e contagiose, accomunate dall'uso di tecniche di resistenza civili, quali scioperi, manifestazioni, marce e cortei, ma anche da atti estremi di autolesionismo come suicidi (definiti dai media “auto-immolazioni”), e dall'uso di social network come Facebook e Twitter per organizzare, comunicare e divulgare gli eventi a dispetto dei tentativi di repressione statale98.
96
Il Mashrek, detto anche Mashriq o Mashreq, è l'insieme dei Paesi arabi che si trovano ad est rispetto al Cairo e a nord rispetto alla penisola arabica. Si tratta della macroregione orientale del mondo arabo, in opposizione al Maghreb, e comprende anche Iraq e Kuwait. Il termine deriva dalla radice araba sh-r-q, che significa est o anche luogo dell'alba.
97In “2011, l’anno della Primavera araba”,
di Annamaria Rivera (in http://temi.repubblica.it/micromega-online/2011-lanno-della-primavera-
araba/?printpage=undefined).
98
Secondo alcuni osservatori, il vero motore della rivolta non sarebbero stati tanto Facebook e Twitter, quanto il “network della moschea, o del bazar” (cfr. "LE RIVOLTE NON SI
FERMERANNO MA I DITTATORI SARANNO SPIETATI", in «Governo Italiano
61
Alcuni di questi moti, in particolare in Tunisia ed Egitto, hanno portato ad un cambiamento di governo99, e sono stati denominati rivoluzioni100.
I fattori che portarono alle proteste furono numerosi e comprendevano, tra le maggiori cause, la corruzione, l'assenza di libertà individuali, la violazione dei diritti umani, ma anche le condizioni di vita molto dure, che in molti casi rasentavano la povertà estrema. La crisi alimentare determinata dall’aumento del prezzo dei generi di prima necessità e la fame, sono considerati da alcuni analisti la ragione principale del malcontento che poi sfociò nella protesta e nella rivoluzione101.
Le manifestazioni cominciarono il 18 dicembre 2010 in seguito alla protesta estrema dell’ambulante tunisino Mohamed Bouazizi che si diede fuoco dopo il sequestro da parte della polizia della sua merce, e il cui gesto servì da scintilla per l'intero moto di rivolta, che si tramutò poi nella cosiddetta Rivoluzione dei gelsomini e che, con effetto domino, si propagò ad altri Paesi del mondo arabo e
99
Attualmente (estate 2013) la situazione politica dell’Egitto è nuovamente precipitata, ed è quasi guerra civile. Sono in atto infatti violenti scontri, con morti e feriti, tra i sostenitori dell’ormai deposto presidente Mohammed Morsi e i suoi oppositori. Il presidente, eletto un anno fa come risultato della Primavera Araba, è stato rovesciato dai militari, appoggiati da quel popolo di piazza Tahrir che l’anno scorso li aveva combattuti a costo di molto sangue, e con una mobilitazione collettiva senza precedenti. “Un anno di governo e la mediocrità di una leadership poco carismatica […] hanno prodotto nei cittadini una sfiducia generalizzata, aggravata dalla crisi economica che dall'Europa in recessione che si abbatte con effetti moltiplicati su Paesi nei quali non esiste il cuscinetto dei risparmi e del benessere delle generazioni precedenti a fare da ammortizzatore” (da Egitto: transizione democratica o guerra civile? in http://www.unipd.it/ilbo/content/egitto-transizione-democratica-o-guerra-civile).
100
ROBERTO SANTORO, Il vecchio Egitto del golpe militare e il nuovo della rivoluzione
liberale, in “L'Occidentale”, 14 febbraio 2011.
101
Secondo Abdolreza Abbassian, capo economista alla FAO, all’origine dell’aumento dei prezzi ci furono fattori ambientali quali la siccità in Russia e Kazakistan e le inondazioni in Europa, Canada e Australia che, associate all’incertezza sulla produzione in Argentina, costrinsero i governi dei Paesi del Maghreb ad importare i generi commestibili col conseguente aumento dei prezzi dei prodotti alimentari di largo consumo.Altri analisti, invece, hanno messo in risalto il ruolo della speculazione finanziaria nel determinare la crescita del prezzo dei generi alimentari in tutto il mondo.
62
della regione del Nord Africa. Come afferma il gesuita e docente di storia araba e islamologia all’università di Beirut Samir Khalil Samir:
Tutto è partito dai giovani profondamente delusi. Delusi per la mancanza di lavoro, per la libertà limitata o inesistente. Alla base c’è un’urgenza di cambiamento, di giustizia e di libertà: in Egitto come in Marocco e altrove il 40% della popolazione è analfabeta, c’è gente che vive per anni con un dollaro al giorno, che non riesce a mangiare. In Siria un terzo della popolazione ha il compito di spiare gli altri, i telefoni sono controllati e ovunque prevale un clima di insicurezza. Quando una persona è sospettata viene presa dalla polizia e torturata … questi sono i metodi. La gente è stufa, esasperata: la rivoluzione è stata suscitata da cristiani e musulmani insieme. […]. Oggi i giovani sono stati spinti alla ribellione dall’urgenza di libertà e di giustizia: nelle manifestazioni erano insieme, non hanno utilizzato nessuno slogan anti-americano e anti-israeliano102.
Quattro capi di stato furono costretti alle dimissioni o alla fuga: in Tunisia Ben Ali che, dopo 25 anni di dittatura, dovette fuggire in Arabia Saudita; in Egitto Mubarak, che si dimise dopo trent'anni di potere; in Libia Gheddafi che, dopo una lunga fuga da Tripoli a Sirte, fu catturato e ucciso dai ribelli; e in Yemen Ali Abdullah Saleh.
La Libia in particolare, prima dello scoppio delle rivolte e dei bombardamenti, era un importante polo attrattivo, uno dei principali poli del continente africano, transitorio o definitivo, per i tanti migranti, soprattutto africani, ma anche mediorientali, che fuggivano da guerre e persecuzioni. Prima del conflitto era un territorio in forte crescita economica. È vero che non c’era
102
Da un’intervista del 19 febbraio2011 reperibile in http://www.tempi.it/samir-libia-egitto- tunisia-siria-dalla-primavera-siamo-passati-allinverno.
63
libertà, ma c’erano posti di lavoro, soprattutto in cantieri edili; si lavorava ogni giorno. L’offerta lavorativa era tale che permetteva ad un lavoratore di abbandonare un lavoro e di trovarne uno diverso il giorno dopo, come racconta Alì Doud «per tre giorni ho fatto il muratore, ma era troppo faticoso per me, e il giorno dopo ho trovato lavoro come imbianchino». La Libia era caratterizzata da
un contesto relativamente stabile in cui potersi rifugiare e in cui poter costruire il proprio futuro senza dimenticare di aiutare la famiglia che viveva ancora nel Paese d’origine. C’era chi lavorava come cuoco, chi come benzinaio, chi come cameriere, e tutti riuscivano ogni mese a mandare una parte dei propri guadagni ai familiari. La Libia non rappresentava comunque un paradiso, soprattutto per gli stranieri che giungevano sul territorio negli ultimi anni del sultanato di Gheddafi, il quale introdusse una politica di forte repressione all’immigrazione clandestina suggellata dal trattato d’amicizia col governo Berlusconi del 2009, che “trasformò di fatto Gheddafi nel vero controllore della frontiera meridionale marittima
dell’Italia e dell’Europa”103 bloccando quei migranti che tentavano di raggiungere
Lampedusa sopra le così chiamate “carrette del mare”. Racconta Azeen «quando sono entrato in Libia nel 2008 avevo due paure: la prima di essere scoperto ed
essere respinto nuovamente in Ciad, la seconda di essere scoperto e di essere
sparato o incarcerato in Libia».
Tristemente noto è diventato il video documentario “Morire nel deserto” diffuso dall’Espresso con il commento di Fabrizio Gatti, che mostra il destino di un gruppo di migranti respinti al di là del confini libici:
103
BRACCI F. (a cura di), Emergenza Nord Africa. I percorsi di accoglienza diffusa. Analisi e
64
Così muoiono gli uomini e le donne che non sbarcano a Lampedusa. Bloccati in Libia dall'accordo Roma-Tripoli e riconsegnati al deserto. Abbandonati sulla sabbia appena oltre il confine. A volte sono obbligati a proseguire a piedi, fino al fortino militare di Madama, piccolo avamposto dell'esercito del Niger, 80 chilometri più a Sud. Altre volte si perdono, cadono a faccia in giù sfiniti, affamati, assetati senza che nessuno trovi più i loro cadaveri. Questo filmato rivela una di queste stragi. Un breve video che L'Espresso è riuscito a fare uscire dalla Libia e poi dal Niger. Un'operazione di rimpatrio andata male. Undici morti. Sette uomini e quattro donne. Il video è stato girato con un telefonino da una persona in viaggio dalla Libia al Niger lungo la rotta che da Al Gatrun, ultima oasi libica, porta a Madama e a Dao Timmi, avamposti militari della Repubblica del Niger. E' la rotta degli schiavi. La stessa percorsa dal 2003 da decine di migliaia di emigranti africani. Uomini e donne in cerca di lavoro in Libia, per poi pagarsi il viaggio in barca fino a Lampedusa. Il video è stato girato il 16 marzo 2009 alle 12.31. L'ora centrale della giornata è confermata dall'assenza di ombre nelle immagini. Pochi giorni prima il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, è in Libia per siglare l'ennesimo accordo con il colonnello Muhammar Gheddafi. E' la visita in cui Berlusconi porge le scuse per l'occupazione coloniale. Quella in cui i governi di Roma e Tripoli mettono le basi per la collaborazione nei pattugliamenti sottocosta, contro le partenze verso Lampedusa. Gli immigrati espulsi vengono scaricati dai camion militari e costretti a proseguire a piedi. Oppure sono affidati ai trafficanti che spesso li abbandonano molto prima di arrivare a destinazione. Dalla linea di frontiera tratteggiata sulla carta geografica, la prima postazione militare del Niger è solo Madama, a 80 Km di colline e avvallamenti senza pozzi. Non c'è altro. 80 Km in cui, persa la rotta e abbandonato il bidone d'acqua per camminare leggeri, si è destinati a morire. Già nel 2005 L'Espresso aveva scoperto che le operazioni di rimpatrio verso il Niger, dopo il primo accordo tra Berlusconi e Gheddafi, avevano provocato 106 morti in quattro
65
mesi. Ed erano soltanto le cifre ufficiali. Come i 50 schiacciati da un camion sovraccarico che si rovescia nel deserto. Oppure il ragazzo del Ghana mai identificato, sbranato da un branco di cani selvatici durante una sosta a Madama. E le tre ragazze nigeriane morte di sete o le 15 raccolte in fin di vita con quattro uomini da un convoglio umanitario francese, dopo essere state abbandonate. Tutti condannati a morte da chi aveva organizzato il loro rimpatrio. Questi uomini e queste donne si sono raccolti vicino a una collina di rocce e sabbia. Forse speravano di avvistare da quell'altura un convoglio di passaggio e chiedere aiuto. Non ci sono strade né piste battute. E' una regione del Sahara in cui ci si orienta solo con il sole e le stelle104.
Commenta Azeen «comunque, nonostante le paure, fino allo scoppio della guerra si viveva bene, alcuni periodi meglio altri meno, ma si poteva vivere e lavorare
tranquillamente; dopo lo scoppio del conflitto, invece, la vita era diventata molto
dura, tutti avevano le armi, giovani, anziani, tutti possedevano un’arma ed era
diventato davvero pericoloso», e aggiunge «era difficile incontrare qualcuno che
non ne possedesse una e che non minacciasse di usarla al primo litigio. Era
pericolosissimo fare qualsiasi discussione con qualcuno, ho visto delle scene tristi
in cui per una piccola discussione due si dicevano, ho ragione io, no ho ragione
io e esplodeva un proiettile. La situazione era tremenda. Era facile litigare anche
perché scoppiata la guerra regnava il caos. Nei negozi, nelle strade, ovunque,
appena qualcuno pensava di aver subito un torto, che poteva essere anche
l’essere stato superato nella fila da un benzinaio, tirava fuori l’arma e sparava. Non si poteva più vivere. Io sono rimasto anche due settimane chiuso in casa
senza neppure andare a fare la spesa».
104
66
Prima dell’inizio della guerra, nel 2010, la presenza di migranti sul territorio libico, tenendo conto delle sole presenze regolari, era stimata intorno alle 632.000 unità (oltre il 10% del totale della popolazione); contando quelle irregolari si sarebbe superato probabilmente il milione105. La vita degli stranieri dopo l’inizio dei bombardamenti e lo scoppio della guerra civile in cui si contrapponevano le forze lealiste di Gheddafi e i ribelli peggiorò vertiginosamente. Racconta Mohamed Elhelou «Io vivevo a Bengasi, città in cui viveva mio fratello e in cui era stata creata la base dei ribelli. Per un periodo che sarebbe dovuto essere
breve, mi ero trasferito a Tripoli e poi sarei dovuto tornare, ma con lo scoppio
della guerra diventò impossibile. Mio fratello mi pregava sempre di tornare, ma
non potevo nel modo più assoluto. Fare il viaggio da Tripoli, sede delle forze
lealiste, a Bengasi, sede delle forze ribelli, sarebbe stato troppo pericoloso anche
perché ero nero e in quel periodo i libici non volevano vedere nessun nero. Per
questo dopo la guerra dovevo scappare perché, che io fossi straniero lo capivano
dal mio accento: io sono ciadiano e parlo l’arabo in un dialetto diverso dal loro». Aggiunge Aboubakar Alì «era difficile vivere in Libia per noi stranieri; per due settimane non ho avuto neppure la possibilità di andare al supermercato a fare la
spesa perché avevo paura che capissero che venivo dal Ciad e mi sparassero.
Tutti erano diffidenti verso di noi perché i ribelli credevano che fossimo
mercenari tra le forze lealiste, mentre le truppe di Gheddafi credevano il
contrario, che noi fossimo lì per combattere contro il governo». Racconta
Gaybouba «a Tripoli avevo conosciuto Elhelou. Quando andavamo in giro gli dicevo sempre di non parlare, di stare zitto perché altrimenti avrebbero sentito il
105
BRACCI F. (a cura di), Emergenza Nord Africa. I percorsi di accoglienza diffusa. Analisi e
67
suo accento ed essendo quello di Bengasi, città in cui vive da quando aveva nove
anni, avrebbero potuto pensare che fosse un ribelle e in quel periodo avrebbe
rischiato seriamente la vita; quindi, quando andavamo in giro, parlavo sempre e
solo io».
L’esodo degli stranieri cominciò immediatamente dopo lo scoppio delle prime bombe. Si stima che circa 300.000 stranieri abbiamo varcato i confini della Libia per cercare protezione altrove. Qualcuno fece ritorno nella propria terra d’origine, in particolare coloro che vivevano nei Paesi confinanti con la Libia, come Ciad, Niger, Egitto e Tunisia, Paesi che non solo accettarono di aprire le frontiere ai propri cittadini, ma anche di ospitare i profughi libici originari di altre nazioni. Sul totale solo una minima parte decise di partire per l’Europa, appena il 4%106. Sergio Bontempelli107 conferma «bisogna eliminare l’idea secondo cui noi siamo invasi dai popoli africani, perché il maggior peso dei rifugiati l’hanno
avuto i Paesi confinanti. Solo un numero risibile è sbarcato sulle coste maltesi e
italiane».
La presenza di un numero elevatissimo di stranieri in Libia spiega il perché abbiano fatto parte del sistema ENA persone provenienti da disparati Paesi e diversi continenti. La vita in Libia dopo lo scoppio della guerra non divenne
106
BRACCI F. (a cura di). Emergenza Nord Africa. I percorsi di accoglienza diffusa. Analisi e
monitoraggio del sistema, University Press, Pisa 2012, p. 42.
107
Presidente di Africa Insieme, un’associazione laica che si batte, sul territorio locale e regionale, per i diritti dei migranti e per una piena e universale cittadinanza. Nata nel 1987, è stata una delle prime associazioni italiane impegnate su questi temi. Attualmente l’associazione è impegnata nella promozione e nella tutela dei diritti dei migranti, attraverso il proprio sportello informativo (tutti i Martedì e Giovedì dalle 18.30 alle 20 in Via Montanelli 123 a Pisa, presso Rebeldia-Circolo ARCI Bala Laika). Promuove inoltre attività di ricerca, studio e formazione nel campo dell’immigrazione. Collabora con l’ANCI Toscana e con l’Istituzione Centro Nord
Sud della Provincia di Pisa. Africa Insieme fa parte, dal Novembre 2006, del “progetto
Rebeldia”, un cartello di associazioni e gruppi, che a partire dalla condivisione di una sede, ha maturato esperienze comuni sui temi dell’immigrazione, dei diritti civili, degli spazi sociali.
68
ovviamente difficile solo per gli stranieri, ma per tutta la popolazione. Racconta infatti Gaybouba «mia zia a me e ai miei amici diceva sempre di non uscire, di restare in casa perché era pericoloso; avremmo potuto essere colpiti da un
proiettile sparato o dall’esplosione di una bomba della NATO. Ne scoppiavamo continuamente. Un giorno le ho contate, sono scoppiate settanta bombe, non
fucilate dei soldati o dei ribelli, ma bombe della NATO. Però noi non
ascoltavamo nessuno, continuavamo ad uscire come se nulla fosse, tanto le
bombe possono cadere anche sopra casa tua, e se cade sopra casa, muori
comunque. Una sera eravamo in casa, sul balcone, stavamo fumando una
sigaretta quando abbiamo sentito lo scoppio di una bomba, e la terra tremare. Un
mio amico che stava vicino al parapetto, se un altro nostro amico non l’avesse tenuto, sarebbe caduto di sotto, e non ci sarebbe stato nulla da fare. Quando un
bomba viene sganciata si vede la scia bianca, poi senti l’esplosione e subito dopo
ti senti schiacciare dallo spostamento d’aria, sono brutte sensazioni che ti lasciano il segno». Aggiunge in proposito Aboubakar Ali «quando eri chiuso in
casa ed esplodevano le bombe, vedevi le porte che si aprivano da sole e le finestre
che si frantumavano. In quel periodo, che è durato quattro mesi, non si riusciva
neppure a dormire, perché prendevi sonno e subito dopo scoppiava una bomba,
poi quando stavi per riuscire a riaddormentarti ne scoppiava un’altra, e poi come
facevi a dormire? Avevo paura, una di quelle bombe sarebbe potuta cadere anche
su casa mia, oltre al rumore, la paura non ti abbandonava mai».
Con lo scoppio della guerra si fa sempre più impellente il bisogno di scappare dalla Libia, e nella fuga, nel viaggio, vengono investiti tutti i risparmi e spesso ceduti tutti gli “averi”. Racconta Ibrahim «Quando sali sulla barca ti
69
prendono i vestiti, il telefono, ti prendono tutto, anche i soldi. Quando, dopo aver
pagato per il viaggio, ti rimangono un pochino di soldi, alla perquisizione ti
prenderebbero anche quelli; quindi bisogna nasconderli da qualche parte. Ma
non sapevo bene dove, perché ti controllano dappertutto; ad esempio nelle tasche
li avrebbero trovati … Allora io ho pensato di metterli nelle mutande e non me li hanno trovati, solo lì non possono trovarli, così quei pochi soldi ho potuto
portarli con me». Una regola, questa, tacitamente condivisa e praticata da coloro
che al porto erano incaricati di smistare i migranti e sistemarli sulle imbarcazioni;