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II: La Primavera Araba e l’istituzione della Emergenza Nord Africa (ENA)

2. Il viaggio verso la speranza

Il viaggio Tripoli-Lampedusa è un vero e proprio viaggio della speranza, con modalità assai differenti rispetto ai viaggi precedenti allo scoppio della guerra; «prima il viaggio costava molto molto di più; io ho speso il corrispondente di circa 180 euro, altri 200/300 euro, prima era molto più caro.

Quando sono partito io non esisteva la figura dello scafista; chi guidava la barca

era uno come noi che cercava solamente di fuggire dal conflitto; poi, quando si

avvicinava la barca della Guardia Costiera, si sedeva tra noi per non essere

scambiato per un trafficante» racconta Mohamed.

Nell’estate 2011, a fronte di un viaggio che diventava molto più economico, la qualità delle imbarcazioni divenne al contrario molto più precaria perché, “a differenza delle mafie che gestivano le traversate prima, non era necessario che

la merce arrivasse a destinazione”108. Il viaggio aveva in media una durata di 30

ore, più un giorno trascorso nel mare, sotto il sole cocente del dì e l’umidità della notte, senza acqua né cibo, né qualsiasi altra cosa che non fossero i semplici vestiti indossati alla partenza.

Esso aveva inizio sulle banchine del porto di Tripoli dove, come già è stato detto, soldati o civili addetti ai controlli ed alla sistemazione delle persone nelle barche, sequestravano ai migranti i documenti e requisivano loro ogni bene: zaini, cinture, telefonini, soldi e qualsiasi altra cosa che non fosse l’abbigliamento che avevano indosso. Passati i controlli, a gruppi di circa duecento, essi venivano stipati in barche fatiscenti, «così vecchie che appena le vedi pensi che non riusciranno a percorrere più di due o tre metri» commenta Azeen. Arrivare a

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F. BRACCI (a cura di), Emergenza Nord Africa. I percorsi di accoglienza diffusa. Analisi e

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destinazione, nonostante la durezza del viaggio, è già una grande fortuna. Non tutti infatti riescono, una volta saliti sulla barca, a rimettere piede sulla terraferma. Sono tanti i racconti di viaggiatori riusciti nell’impresa di attraversare quella strada di onde, sale e acqua, che ci raccontano di imbarcazioni incrociate durante il viaggio, ferme in mezzo a quel deserto bagnato con dentro nessun sopravvissuto. Capita purtroppo spesso che le imbarcazioni partite da Tripoli non riescano a raggiungere la meta, per vari motivi: a qualcuna finisce la benzina, altre sono troppo vecchie e affondano, in altre ancora il motore si rifiuta di girare. Qualcuna perde la rotta, come racconta Ibrahim: «Dopo due giorni di navigazione non vedevamo nulla, solo mare, solo mare, non si arrivava più. Stavamo

sbagliando rotta, per fortuna un elicottero ci ha avvistati e ci ha guidato sulla

rotta per Lampedusa, altrimenti chissà dove saremmo andati, non saremmo

arrivati da nessuna parte probabilmente, e avremmo finito il viaggio sulla

barca».

Elhelou e Gaybouba raccontano la loro esperienza, quella di un viaggio durato oltre le solite 30 ore proprio per un problema al motore:«La barca ad un certo punto si bloccò. Il motore si era fermato, non girava più e la barca si è

fermata in mezzo al mare, in mezzo al nulla, ma non lontano da Lampedusa.

Come si è bloccata ha iniziato ad entrare l’acqua, ne entrava sempre di più. Per fortuna i ragazzi che erano seduti dietro (a poppa), da dove imbarcavamo acqua,

hanno fatto un ottimo lavoro. Con quello che avevano, hanno buttato fuori quanta

più acqua possibile, sono stati davvero grandi». Per circa due ore i migranti

rimasero in balia delle onde, in uno sconforto che col passar del tempo si fece disperazione, cosicché, al rumore sempre più flebile delle eliche, si era sostituito

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quello sempre più assordante dei pianti e delle preghiere. Non tutti reagivano nello stesso modo alla paura; e infatti Elhelou e Gaybouba l’affrontarono con altri strumenti: «noi ci siamo messi a giocare; dicevo adesso faccio un bel tuffo nel mare, mi rinfresco poi mi aiuti a tornare nuovamente sopra la barca. Lui era

preoccupato che lo facessi davvero, ma io scherzavo; poi ho preso la sua

maglietta e facevo finta di lanciarla nel mare, e ad un certo punto l’ho messa nell’acqua, solo per inzupparla e mettercela sulla testa per proteggerci dal sole e dal caldo; ma mi è caduta, era la maglietta della squadra di calcio della Spagna

di Elhelou e lui si è arrabbiato, ma per fortuna a me non avevano sequestrato tutti

i miei averi e avevo altre magliette per lui. Gli altri ci guardavano in cagnesco

perché non ci trovavano nulla di divertente, ma noi scherzavamo solo per

combattere la paura, anch’io ero molto preoccupato, però cercavo di ridere» ricorda Gaybouba.

Il viaggio della speranza è un viaggio fatto anche di illusioni momentanee, illusioni che aiutano a superare i momenti di paura che assalgono i migranti durante il viaggio, un viaggio in realtà verso l’ignoto, perché essi non sanno quante ore li aspettano in mezzo al mare, dove arriveranno e se arriveranno. Gaybuba racconta ancora, oggi col sorriso a trentadue denti: «non avevo assolutamente idea di quanto sarebbe potuto durare il viaggio, in più ogni tanto ti

addormentavi, anche solo cinque minuti, ma in mezzo a quella distesa di mare

bastano per perdere completamente l’orientamento temporale. Durante la notte

ho chiuso gli occhi e mi sono addormentato, non so quanto, e quando ho riaperto

gli occhi in lontananza Elhelou mi indica una luce e mi dice “guarda Gaybuba, quella è la terra, è la terra, stiamo per arrivare”, ma io non volevo illudermi e gli

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rispondevo “ ma no, quella è una nave non è la terra”. Però dentro di me speravo lo fosse ed ero felice. Pensavamo di essere quasi arrivati a Lampedusa. La

mattina, quando è sorto il sole e la visuale era più chiara, guardiamo indietro e

vediamo ancora il porto di Tripoli … non era una nave, non era Lampedusa, era ancora Tripoli».

Anche quando le imbarcazioni riescono a giungere a destinazione, non tutti i viaggiatori possono rispondere all’appello: alcuni sono stati gettati in mare, o perché creavano problemi durante il viaggio, magari protestando per una sistemazione sulla barca considerata inadeguata; o perché non sono riusciti a superare la durezza della prova e arrivano senza vita a quella che nel loro immaginario era la destinazione della speranza. Racconta infatti Ibrahim: «Quando qualcuno fa casino lo buttano a mare, e quando siamo arrivati vicino a

Lampedusa ed è venuta in nostro soccorso barca due109, ci siamo resi conto che

durante il viaggio erano morte venticinque persone. Altre tre durante il viaggio

erano state buttate a mare … Io tutto questo l’ho visto con i miei occhi». Sono persone che scappano dalla guerra, da emergenze umanitarie, da carestie; che fuggono per non morire e che, cercando la salvezza, finiscono invece per incontrare lo stesso destino da cui cercavano in tutti i modi di allontanarsi. Prima di partire sono ben consapevoli della difficoltà e della pericolosità del viaggio ma, come racconta Azeen, è l’unica via: «… ho pensato: in Ciad non posso ancora tornare, qui c’è guerra, li c’è il mare e so che il viaggio è molto pericoloso, cosa faccio? Ho deciso di partire, l’unica mia speranza era quella di arrivare in Europa. Ho deciso di non ascoltare più nessuno, nessuno che mi consigliasse di

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Barca due è la barca della Guardia Costiera che raggiunge le imbarcazioni in arrivo e si occupa del primo soccorso.

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non partite per la pericolosità del viaggio. Non ho altra scelta. Sono

sopravvissuto al deserto, alla guerra, se devo morire in mare morirò. Per fortuna

sono arrivato sano e salvo». Non tutti hanno la stessa fortuna di Azeen. Secondo

le stime dell’UNHCR, al 1°agosto 2011, le persone partite dalla Libia con le navi e mai arrivate erano ben 1.486110.

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MANCONI-ANASTASIA (a cura di), Lampedusa non è un’isola. Profughi e migranti alle

porte d’Italia. Rapporto sullo stato dei diritti in Italia, Roma, LarticoloTre-A Buon Diritto,

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