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Gli albori del «nuovo revisionismo»

Mark Mazower, ragionando sulle conseguenze avute dalla comparsa della Guerra fredda nell'Europa occidentale del secondo dopoguerra, ha fatto notare come i partiti di sinistra risultassero svantaggiati dal nuovo contesto internazionale. Tale debolezza sarebbe stata da ricercare nella «minaccia del comunismo» che poneva dei seri problemi anche ai partiti socialisti a causa della comune matrice ideologica marxista.1 Al di là delle differenze

con cui si attuò la presa di distanze dal marxismo, più rapida, ad esempio, quella dei socialdemocratici olandesi e tedeschi, meno quella dei socialisti italiani e, paradossalmente, quella dei laburisti inglesi, che pure marxisti non lo erano mai stati, tutti i partiti della sinistra occidentale non comunista furono costretti volenti o nolenti a riconoscere la realtà elettorale ed economica: come scrisse giustamente Mazower, «l'unico modo per evitare la graduale estinzione era uscire dal ghetto della politica classista e avviare il processo di trasformazione in un partito più generalista».2 Mentre il primo

revisionismo fu favorito da un innegabile miglioramento delle condizioni economiche che, come si è visto, aveva smentito le profezie di Marx, la modernizzazione della dottrina socialista intercorsa negli anni Cinquanta trovava la sua ragion d'essere nell'esigenza di dover e voler adeguare le chiavi di lettura all'andamento obiettivamente lusinghiero dell'economia dell'Europa occidentale nel periodo postbellico, resa possibile da diversi fattori tra cui spiccavano, secondo una puntuale riflessione di Derek Aldcroft, tassi di impiego di capitale e lavoro più elevati, il rapido progresso tecnico e l'aumentato livello della domanda.3

1 Cfr. M. Mazower, Le ombre dell'Europa (ed. or. Dark Continent. Europeʼs Twentieth Century, Penguin Books, London, 1999), Garzanti, Milano, 2005, p. 286.

2 Ivi, p. 287.

A ciò si deve aggiungere che sia in Italia, che nella Germania federale, e anche nel Regno Unito la parallela espansione del settore terziario, unitamente all'aumento della spesa pubblica in ambiti di politica sociale, crearono le premesse per una crescita significativa di «nuovi» ceti medi, come i dipendenti pubblici, il ceto impiegatizio, i tecnici, gli addetti alle vendite e alla distribuzione. Questi cambiamenti di così vasta portata, da un lato, avevano a loro volta favorito l'aumento del numero dei consumatori all'interno della società stessa, così come illustrato, seppur con un'interpretazione negativa da John Kenneth Galbraith in The Affluent Society,4 e, dall'altro, avevano portato

all'incremento del processo di ceti-medizzazione della classe operaia. Ciò, nella visione di Ralf Dahrendorf, rappresentava uno degli elementi più caratterizzanti della nuova epoca storica:

Ai tempi della morte di Marx soltanto uno su venticinque di coloro che costituivano la massa lavoratrice occupava una posizione che si potesse definire approssimativamente impiegatizia; oggi ve n'è uno su cinque, e nelle imprese terziarie addirittura uno su tre.5

Di fronte alle nuove e differenti condizioni socio-economiche qui solamente anticipate, i socialisti europei, se volevano diventare appetibili per un elettorato che prediligeva i conservatori in quanto sostenitori delle posizioni maggiormente filo-liberiste e, al tempo stesso, assicurarsi i voti dei consumatori appena investiti del nuovo potere figlio del libero mercato, non potevano né ignorare né tanto meno censurare i nuovi sviluppi della società europea. Era dunque diventato necessario, per le forze del movimento operaio continentale, privarsi di alcuni degli aspetti principali del loro passato radicalismo e accettare il sistema capitalistico degli anni Cinquanta, indipendentemente dalle terminologie adottate di «economia mista», «economia sociale di mercato» oppure «nuovo capitalismo».

Fin dall'inizio dei Fifties i primi germogli revisionisti iniziarono effettivamente a spuntare. Il nuovo corso rappresentò senz'altro la reazione ad una serie di sconfitte elettorali, cui incapparono soprattutto inglesi e tedeschi. A ben vedere, però, già durante il congresso fondativo dell'Internazionale socialista, riunitosi a Francoforte sul Meno il 30

Routledge, London-New York, 1993), Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 248.

4 Cfr. J. K. Galbraith, The Affluent Society, Houghton Mifflin Company, Boston, 1958.

5 R. Dahrendorf, Classi e conflitto di classe nella società industriale, vol. I (ed. or. Soziale Klassen und

giugno 1951, si poteva cogliere che qualcosa differente fosse ormai in circolo: leggendo la parte della dichiarazione d'intenti riservata ai principi ideologici, si può intuire come già nell'immediato secondo dopoguerra la dottrina socialista, per lo meno dai partiti della sinistra occidentale non comunista, non venisse più strettamente connessa alle teorie di ispirazione prettamente marxista:

Il socialismo democratico è un movimento internazionale che non pretende affatto una rigida uniformità di concezioni. Sia che fondino la loro convinzione sul marxismo o su altri metodi di analisi sociale, sia che si ispirino a principi religiosi o umanitari, tutti i socialisti aspirano alla stessa meta: un ordine di giustizia sociale, di maggior benessere, di libertà e di pace mondiale.6

Al di là di tali premesse, comunque non sottovalutabili, nel Labour Party la propensione verso l'aggiornamento delle basi dottrinali prese piede quale conseguenza del ritorno di Winston Churchill a Downing Street, in seguito alla vittoria dei conservatori nelle elezioni generali del 25 ottobre 1951.7 Prima di entrare nell'illustrazione vera e

propria della rotta revisionista, è necessaria una premessa: l'operazione volta a ridisegnare i tratti del laburismo britannico nel corso degli anni Cinquanta fu gestita pressoché esclusivamente dalla leadership parlamentare che, a causa della complessa strutturazione organizzativa del partito, deteneva tra le sue mani la prerogativa della formulazione politico-teorica.8 La sostanziale centralità del gruppo a Westminster fece sì che la revisione

sorgesse grazie alle produzioni intellettuali di alcuni esponenti appartenenti a questo ambito. Nel 1952, quindi neanche un anno dopo la sconfitta subita alle elezioni generali, i massimi dirigenti della destra interna, che non a caso venne ben presto riconosciuta come corrente revisionista, promossero la pubblicazione del volume Socialism: A New Statement of Principles, concepito nella redazione del periodico revisionista «Socialist Commentary» e con un proposito quanto mai evidente: «escogitare dal principio il significato di socialismo nel mondo moderno».9 Pur prescindendo dal fatto che questo pamphlet forniva

ai revisionisti le «munizioni ideologiche» nella battaglia interna che stavano combattendo

6 Questa dichiarazione adesso in L'Internazionale socialista. Storia, protagonisti, programmi, presente e

futuro, L'Unità, Roma, 1990, pp. 143-144.

7 Una panoramica sulla campagna elettorale dei Tories in J. Charmley, A History of Conservative Politics

since 1830, Palgrave Macmillan, Basingstoke, 2008, pp. 159-160.

8 Cfr. E. Shaw, op. cit., pp. 64-65.

9 Così riportato in S. Haseler, The Gaitskellites. Revisionism in the British Labour Party 1951-1964, Macmillan, London, 1969, p. 76.

contro la sinistra di Bevan, da un punto di vista teorico questo documento cercava di attaccare la matrice marxista del socialismo, proponendo sia un approccio etico alla dottrina socialista, sia un rifiuto del collettivismo economico. In altri termini, la revisione avrebbe dovuto dar vita ad un socialismo che avesse le sue fondamenta nella libertà, nell'uguaglianza e nel reciproco rispetto tra individui.10

Sarebbe però sbagliato ritenere che l'aggiornamento della dottrina laburista fosse portata avanti soltanto negli ambienti vicini a Gaitskell. Nell'aprile del 1952 venne infatti pubblicato In Place of Fear,11 il volume di Aneurin Bevan, il leader della sinistra di Transport House, che conteneva alcune riflessioni relative al rinnovamento teorico del socialismo democratico occidentale:

Il socialismo democratico è figlio della società moderna e cioè della filosofia relativistica. Cerca la verità in una data situazione, sapendo però che spingendo troppo oltre questa ricerca si cade nell'errore. Lotta contro i danni che derivano dalla proprietà privata, e tuttavia sa che non tutte le forme di proprietà privata sono necessariamente dannose. Il suo nemico principale è l'esitazione, perché esso si propone di fondere lo slancio dell'azione con il giudizio razionale. Deve saper apprestare la lotta, riconoscendo che il progresso non consiste nella eliminazione della lotta, quanto in un mutamento dei suoi termini.12

Quanto tratteggiato da Bevan era una rivisitazione «di sinistra» che trovava più seguaci all'esterno del Labour che all'interno. Per esempio, venne infatti accolta positivamente dal Psi, che, come apparve chiaramente sul numero dell'aprile 1952 di «Mondo Operaio», dimostrava di apprezzare il ragionamento bevaniano poiché, in primis, si trattava «di una posizione che non [poteva] essere confusa con quella riformista e neppure con il sinistrismo di certi gruppi anticomunisti».13 In secondo luogo, particolarmente positiva era

ritenuta la concezione bevaniana, che emergeva dalla citazione sopra-riportata, secondo cui la democrazia era uno strumento «per combattere il privilegio».14 Nella visione dei

socialisti italiani, le teorie di Bevan erano condivisibili perché rigettavano, tanto a livello

10 Cfr. Ivi, p. 77.

11 Ovvero Invece della paura. In Italia la casa editrice Einaudi, che ne pubblicò la traduzione nel 1952, scelse il titolo Il socialismo e la crisi internazionale: ciò è presumibilmente dovuto al fatto che si volle sottolineare, per mezzo del nuovo titolo, come il lavoro di Bevan si concentrasse sulle modalità di uscita dalle tensioni internazionali proposte dalla sinistra laburista che con la traduzione letterale sopra-menzionata non sarebbero state intese dal pubblico italiano.

12 A. Bevan, Il socialismo e la crisi internazionale (ed. or. In Place of Fear, William Heinemann, London, 1952), Einaudi, Torino, 1952, p. 189.

13 G. Cardona, La teoria di Bevan, in «Mondo Operaio», a. V, 5 luglio 1952, p. 22. 14Ibidem.

teorico quanto in sede di governo, «la politica del grande capitale».15

Sempre nel 1952 vide la luce un'altra opera fondamentale di questa prima ondata revisionista, l'antologia New Fabian Essays.16 Concepita all'interno degli ambienti fabiani,

che dal 1949 ricercavano le modalità con cui dare nuova linfa al laburismo britannico profondamente logorato dall'esperienza dei governi di Attlee,17 la raccolta prese le mosse

dall'interrogativo «dove andremo, ora?» e, per mezzo di questa domanda, alcune autorevoli personalità del Labour, come Clement Attlee, Richard Crossman, Anthony Crosland, Roy Jenkins, Austen Albu, Ian Mikardo, Denis Healey e John Strachey, si proponevano di «far riflettere il movimento».18 La prima questione presa in esame era l'individuazione del

«nemico della libertà umana [nel]la società burocratica».19 Sulla falsariga delle sue

annotazioni nell'Introduzione a Il dio che è fallito, la raccolta di testimonianze sul mondo comunista firmate, tra gli altri, da Arthur Koestler, André Gide e Ignazio Silone,20 nelle cui

pagine Crossman aveva evidenziato i tratti brutali riservati dal Cremlino a quegli intellettuali allontanatisi dal mondo comunista in seguito al patto Ribbentrop-Molotov,21

l'esempio negativo per il Labour era rappresentato dall'Unione Sovietica. Una posizione motivata dal rigetto, da parte dei dirigenti staliniani, del «primato della moralità sulla convenienza», poiché così facendo, a suo dire, si sarebbe distrutta l'esistenza della «coscienza sociale attiva», ovvero l'unico strumento che li avrebbe potuti salvare «dalla corruzione del potere».22 Anche gli Stati Uniti erano a rischio degenerazione burocratica,

però erano comunque da preferire alla Russia comunista poiché, secondo il laburista, «la coscienza sociale [avrebbe potuto] ancora esercitare un freno al totalitarismo e all'aggressività».23 Proprio per questi motivi non si riteneva impossibile stringere degli

15 Ivi, La Socialdemocrazia in una nuova fase, in «Mondo Operaio», a. V, 19 aprile 1952, p. 8.. Su questo aspetto si veda anche la nota del 9 aprile 1953 in P. Nenni, Tempo di guerra fredda. Diari 1943-1956, Sugarco, Milano, 1981, p. 573.

16 R. H. S. Crossman (ed.), New Fabian Essays, Turnstile Press, London, 1952. L'edizione italiana, cui si è fatto riferimento per questo lavoro, venne stampata nel 1953 presso i tipi delle Edizioni di Comunità e introdotta da una nota firmata da Leo Valiani.

17 Cfr. W. C. Wilbur, New Fabian Essays by R. H. S. Crossman; Clement Attlee: Fabianism in the Political

Life of Britain, 1919-1931 by M. Margaret Patricia McCarran, in «Political Science Quarterly», v. 68, n. 2,

giugno 1953, pp. 278-280.

18 C. Attlee, Prefazione in Nuovi saggi fabiani, Edizioni di Comunità, Milano, 1953, p. VIII. 19 R. Crossman, Verso una filosofia del socialismo, in Ivi, p. 17.

20 Gli altri erano Richard Wright, Louis Fischer e Stephen Spender.

21 Cfr. R. Crossman, Introduzione in R. Crossman (a cura di), Il dio che è fallito. Sei testimonianze sul

comunismo, (ed. or. The God that Failed: Six Studies in Communism, Hamish Hamilton, London, 1950),

Bompiani, Milano, 1980, p. 36.

22 Le citazioni sono state riprese da Nuovi saggi fabiani, cit., p. 18. 23 Ibidem.

stretti rapporti con Mosca: «Coesistenza sì. Accordi reciprocamente vantaggiosi sì. Collaborazione mai».24 In realtà, l'operazione di sottolineare le storture del sistema

sovietico corrispondevano ad una sorta di operazione preliminare che Crossman attuava per giungere al vero punto focale del suo scritto, ossia l'inconciliabilità di fondo tra socialismo democratico e comunismo. Nella sua opinione,

come il calvinista, il comunista deriva il proprio senso di sicurezza dalla convinzione che la storia è al suo fianco, e che il suo trionfo è predeterminato da forze che sfuggono in gran parte il suo controllo. Il socialismo democratico trae ispirazione dalla fede che solo la volontà umana e la coscienza sociale possano liberare l'uomo da un processo storico che […] porta alla schiavitù, allo sfruttamento e alla guerra.25

Se Crossman aveva ragionato sugli aspetti prettamente teorico-dottrinali, nel suo intervento Crosland, anticipando di qualche anno l'uscita del suo famoso The Future of Socialism, si dedicò maggiormente alle problematiche di natura socio-economica della dottrina marxista. In primis, riportando i dati sulla crescita del reddito nazionale inglese tra il 1870 e il 1938, non ebbe problemi a considerare un errore il fatto che la sinistra tradizionale avesse ritenuto corrette tanto la teoria del crollo del sistema capitalistico quanto il principio dell'impoverimento progressivo della classe operaia. Non si sarebbe dovuto parlare di crollo, bensì di trasformazione del capitalismo, tanto più dopo il 1945: nella realtà del dopoguerra, secondo Crosland, le storture del sistema, come la disoccupazione ricorrente, la mancanza di sicurezza e la diseguaglianza, furono affrontate e risolte grazie a «forti opposizioni socialiste, periodi di governi riformisti-radicali [e] la pressione continua di forti organizzazioni sindacali».26 Ciò aveva favorito una profonda

trasformazione della struttura stessa del capitalismo: non vi era più il semplice imprenditore riconoscibile, ma grandi società anonime, dove il possesso della proprietà stava decadendo «a semplice possesso di azioni», mentre chi esercitava il controllo economico era «la nuova classe dei manager, in gran parte privi di proprietà».27 Accettare

la nuova situazione significava poter passare a delineare i tratti fondamentali della dottrina socialista riformata che non poteva più trovare le sue fondamenta nella nazionalizzazione delle industrie oppure nella proliferazione dei controlli, misure concepite nell'alveo della

24 Ivi, p. 19. 25 Ivi, p. 22.

26 A. Crosland, Il passaggio al capitalismo, in Ivi, p. 48. 27 Entrambe le citazioni sono state ricavate da Ivi, p. 50.

Seconda Internazionale. Al contrario, negli anni Cinquanta del Novecento, evidenziava Crosland portando a conclusione il suo ragionamento,

il fine del socialismo è […] di sradicare [il] senso di classe per sostituirlo col senso di un interesse comune e di uno stato sociale eguale per tutti. Per raggiungerlo, occorreranno non solo nuovi provvedimenti d'ordine economico diretti a un maggior livellamento del tenor di vita e delle opportunità, ma anche provvedimenti sul piano della psicologia sociale. […] È in questa direzione che i socialisti devono guardare.28

Oltre a distanziarsi dalle posizioni di Mosca, come ribadito da Crossman, e a riconoscere l'erroneità delle teorie di Marx, come evidenziato da Crosland, la dottrina laburista, così come sosteneva Roy Jenkins nel suo saggio, trovava le sue fondamenta nell'aspirazione ad una maggiore eguaglianza, ovvero «uno dei motivi ispiratori di tutti i teorici del socialismo e di tutti i movimenti socialisti».29 Date le condizioni socio-

economiche dell'Inghilterra post-conflitto mondiale, questo obiettivo sarebbe stato raggiungibile tramite il «passaggio dalla disoccupazione in massa al pieno impiego, […] il ricorso a una pesante imposizione fiscale sui ricchi per il finanziamento di una struttura di servizi sociali»,30 così come «la realizzazione di una piena libertà di accesso a tutte le

professioni».31 Vi era, però, un ulteriore strumento che avrebbe favorito la creazione di

condizioni maggiormente ugualitarie tra cittadini di diversa estrazione sociale: nel ragionamento di Jenkins ciò poteva essere rappresentato dall'«estensione della proprietà pubblica».32 Ai delusi della nazionalizzazione il revisionista obiettava che

la proprietà pubblica è importante nel nostro caso non solo perché crea una grande perequazione di ricchezze, ma perché segue necessariamente alla creazione di una maggior eguaglianza con altri mezzi.33

Tale prospettiva non sarebbe dovuta tuttavia avvenire con le medesime modalità attuate dai governi laburisti nei confronti delle compagnie ferroviarie o delle miniere di carbone, poiché

le misure nazionalizzatrici prese fra il 1945 e il 1950 erano in gran parte

28 Ivi, p. 84.

29 R. Jenkins, Eguaglianza, in Ivi, p. 93. 30 Ivi, p. 101.

31 Ivi, p. 113. 32 Ivi, p. 108. 33 Ivi, p. 110.

misure di pianificazione, avanzate come proposte necessarie ad assicurare un adeguato controllo governativo sull'insieme dell'economia.34

Grazie anche all'esecutivo di Attlee la situazione era profondamente cambiata e, di conseguenza, i trasferimenti di proprietà da privata a pubblica, secondo Jenkins, potevano «essere misure in parte antimonopolistiche, in parte produttivistiche, ma […] in primo luogo provvedimenti a fini di perequazione e niente affatto di pianificazione».35 In

sostanza, si trattava di predisporre una politica finalizzata ad una distribuzione nelle mani pubbliche della proprietà azionarie, anche se il concetto di pubblico non doveva coincidere con quello di statale:

bisogna incoraggiare enti locali, cooperative, di consumo e di produzione e altri organismi pubblici, a partecipare in pieno alla proprietà delle aziende. Essenziale è ottenere la creazione di una rete di proprietà pubblica compatibile con l'abolizione dei grandi patrimoni.36

In sintonia con quanto fatto dai laburisti, un tentativo molto simile per modernizzare la carta dei valori fu avviato dalla Socialdemocrazia tedesca a stretto giro di posta da una sconfitta elettorale tanto netta quanto scioccante: nelle elezioni federali del 6 settembre 1953 la Spd si fermò al 28,5% dei consensi, risultando così staccata di ben diciassette punti percentuali dalla Cdu/Csu, che raggiunse quota 45,2%.37 Come scrisse

giustamente Angelo Panebianco, un risultato così negativo non poté che agire come vero e proprio «catalizzatore del cambiamento».38

Per poter tornare al potere, nel caso del Labour Party, o per potervi concretamente ambire, nel caso della Socialdemocrazia tedesca, i due partiti dovevano giocoforza aggiornare le rispettive agende programmatiche. In questa fase iniziale, che coincise con la prima metà degli anni Cinquanta, tedeschi ed inglesi agirono però in modo differente: più organica e strutturata l'azione dei primi, più individuale quella dei secondi. Il percorso intrapreso dalla Spd può essere interpretato come il risultato di una dialettica interna tra la componente più innovatrice, rappresentata da Carlo Schmid, Fritz Erler, Herbert Wehner e

34 Ivi, p. 112. 35 Ibidem. 36 Ibidem.

37 Cfr. H. A. Winkler, Grande storia della Germania. II. Dal Terzo Reich alla Repubblica di Berlino, cit., p. 185.

Ernst Reuter, e l'apparato, «das Büro»,39 più propriamente tradizionale, impersonato da

Fritz Heine, Herta Gotthelf e Alfred Nau, che subì sostanzialmente la spinta dei Reformer a causa della capacità dei primi, soprattutto dopo la sconfitta elettorale del 1957, di riuscire a dialogare con l'intera organizzazione socialdemocratica.40 Volgendo lo sguardo alle vicende

laburiste, si deve osservare fin dal principio che i più inclini alla revisione teorico-politica, ossia gli esponenti della destra vicino a Clement Attlee, l'ex primo ministro e leader storico, e a Hugh Gaitskell, l'astro nascente e futura guida, erano già parte integrante della maggioranza di Transport House. La revisione, ritenuta necessaria dagli stessi dirigenti della destra che comunque detenevano le leve del potere in seno al Labour, venne sospinta dalla produzione intellettuale dei singoli più autorevoli che, così facendo, influenzavano il dibattito teorico interno.41

Il 17 settembre 1953 la Spd riunì duecentocinquanta dirigenti, tra rappresentanti della presidenza, del comitato centrale e della commissione di controllo, per discutere delle modalità di uscita dalla crisi post-elettorale. In questa circostanza emerse la tendenza del gruppo riformista,42 soprattutto nei discorsi di Ernst Reuter, il borgomastro di Berlino

Ovest, e di Carlo Schmid, uno dei più influenti leader della corrente, volta ad indicare come erronee le previsioni relative allo scoppio di una crisi economica nella Repubblica di Bonn. L'Europa occidentale, sosteneva Reuter,

ha un così grande […] serbatoio di crescita della sua produttività che sarebbe un errore ritenere che da questa crescita, cui noi certamente ambiamo, – l’obiettivo della nostra politica dovrebbe infatti essere l’incrementare della produttività – non debba derivare l'innalzamento […] degli standard di vita degli operai, degli impiegati e dei funzionari

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