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Principio di eguaglianza e divieto di discriminazione

Nel documento Il rifiuto abusivo di contrarre (pagine 50-56)

CAPITOLO I: PRINCIPIO DI EGUAGLIANZA E DIVIETO D

2. Evoluzione normativa e dottrinaria

2.2. Principio di eguaglianza e divieto di discriminazione

Il primo comma dell’art. 3 della Costituzione, come già rilevato, non si limita ad affermare l’eguaglianza di tutti davanti alle legge, ma sancisce altresì la pari dignità sociale dei cittadini ed elenca una serie di motivi che non possono essere posti a fondamento di distinzioni, a fronte dei quali cioè deve essere considerata intollerabile qualsiasi differenziazione legislativa che li ponga alle proprie basi93. È questa l’eguaglianza cosiddetta “formale”, in quanto monito astratto per il legislatore, chiamato a trattare in modo uguale situazioni uguali e in modo diverso situazioni diverse, nel rispetto del criterio di ragionevolezza.

Su questo piano, il principio in esame comporta l’eguaglianza nei confronti delle leggi e della giurisdizione, il pari accesso ai diritti, ma non necessariamente anche l’effettivo godimento degli stessi e la medesima soggezione ai doveri pubblici94

. Almeno apparentemente più penetrante è l’eguaglianza cosiddetta sostanziale, prevista al secondo comma dell’art. 3. Se quella formale, tipica dello Stato di diritto, prescrive misure negative, quest’ultima, tipica dello Stato sociale, richiede

92

Cfr. A. Celotto, R. Bifulco, M. Olivetti, Commentario alla Costituzione, Torino, Utet Giuridica, 2006.

93

Cfr. M. Olivetti, Uguaglianza (voce), in M. Flores D’Arcais (a cura di), Dizionario dei diritti

umani, Torino, Utet, 2007.

94

Cfr. P. Biscaretti Di Ruffia, Uguaglianza (principio di), in Nss. Dig. It., vol. XIX, Torino, 1973, 1089 ss.

50 invece un intervento positivo, imponendo allo Stato il perseguimento di una parità effettiva, attraverso la rimozione degli “ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.

Nell’ampio dibattito dottrinario e giurisprudenziale concernente i due commi di tale disposizione, può considerarsi ormai raggiunto un consenso diffuso sul carattere precettivo e quindi direttamente azionabile in giudizio almeno del primo, mentre risulta ancora prevalente la tesi di un rilievo meramente programmatico del secondo.

Ciò significa che in relazione a quest’ultimo il legislatore è chiamato ad adottare determinati provvedimenti ma, in caso di sua inerzia, pur sussistendo una violazione del secondo comma dell’art. 3, il giudice costituzionale non potrà intervenire in sua sostituzione, ma potrà al più indirizzare appositi moniti. Il comportamento del legislatore sarà sindacabile allora solo in presenza di un intervento positivo, del quale dovrà verificarsi la conformità al principio di uguaglianza formale, cui rimane quindi strettamente collegato.

L’applicazione del secondo comma può però giustificare anche una deroga del primo; l’attuazione dello stesso, infatti, “non può non richiedere interventi derogatori della parità di trattamento di alcune situazioni … elencate (nel c. 1), specie per quanto riguarda le condizioni personali e sociali (…) un contrasto fra i due commi non dovrebbe prospettarsi perché il secondo, lungi dal contraddire il primo, ne precisa la portata indirizzando il legislatore ad indagare quali siano le situazioni di fatto che abbisognano di un regolamentazione speciale”95

.

Si può affermare che la ragionevolezza che il giudice è chiamato a verificare nel suo sindacato costituzionale sia la risultante del bilanciamento tra l’uguaglianza formale, che impone di non distinguere situazioni omologhe, e l’uguaglianza sostanziale, che richiede al contrario di dare rilievo ad elementi di fatto o a

95

C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, CEDAM, Padova, 1975, 1033, cit. in A. Celotto, R. Bifulco, M. Olivetti, Commentario alla Costituzione, cit.

51 condizioni personali, al fine di rispondere all’imperativo costituzionale di rimuovere le disuguaglianze96.

Attraverso il principio di ragionevolezza si realizzerebbe una continuità tra i due commi, tale per cui il primo si riempirebbe di contenuto attraverso il secondo, “sì che la ragionevolezza delle distinzioni va valutata anche in base all’esigenza di realizzare l’eguaglianza sostanziale”97.

Alla luce di tali considerazioni, occorre analizzare il rapporto del divieto di discriminazione con i due commi.

Fino a tempi recenti, il divieto era venuto espressamente in rilievo solo in ambito penalistico98, rivelandosi tuttavia inidoneo in tale sede a superare il problema che si andava diffondendo soprattutto con riferimento alla razza. Nel 1998 si sono susseguiti le legge n. 40, “Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, e il d. lgs. n. 286, T.U. sull’immigrazione. Tale disciplina, seguita da quella di derivazione comunitaria, ha colmato la lacuna allora esistente e, in particolare, ha fornito una precisa definizione di discriminazione, declinata con riferimento a diversi fattori. L’art. 43 del T.U. riconduce al concetto in esame “ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza o l'origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”.

Almeno nelle sue prime formulazioni, il divieto di discriminazione si è posto come specificazione e rafforzamento del principio di eguaglianza formale, al

96

Cfr. G. Guiglia, Non discriminazione ed uguaglianza: unite nella diversità, Gruppo di Pisa, 2012.

97

F. Sorrentino, Eguaglianza, Torino, Giappichelli, 2011, 211.

98

Il riferimento è alla legge n. 654 del 1975, che configurava la discriminazione come aggravante rispetto ad ipotesi di reato, e alla legge n. 205 del 1993, di conversione del d.l. 26 aprile 1993, n. 122. L’una e l’altra hanno avuto scarsa applicazione pratica, confermando l’opinione per cui la disciplina penalistica dovrebbe assumere una funzione sussidiaria rispetto alle misure civilistiche. Cfr. B. Troisi, Profili civilistici del divieto di discriminazione, cit.

52 quale avrebbe assicurato quel carattere di praticità e concretezza di cui lo stesso sembrerebbe stato altrimenti mancante99.

Tuttavia, a seguito della normativa richiamata e dell’attuale strategia europea, il principio di non discriminazione si è progressivamente affrancato da quello di eguaglianza, manifestando autonomia concettuale e giuridica ed assumendo un ruolo più definito anche nelle relazioni private.

In relazione a questi ultimi profili, come si vedrà più avanti, è significativo rilevare che nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea il divieto è stato collocato in una norma distinta da quella che sancisce l’eguaglianza formale, scindendolo così da ogni riferimento alla legge e rendendone almeno astrattamente possibile l’operatività anche nei rapporti interindividuali e non solo nei confronti del legislatore100.

Già Paladin, del resto, aveva sostenuto che i divieti di discriminazione elencati al primo comma dell’art. 3 non dovessero essere considerati una mera specificazione del principio di eguaglianza, ma “norme a se stanti, che si sovrappongono al principio d’uguaglianza formale ed in tal senso vi apportano una deroga, sebbene allo scopo d’una più radicale parificazione giuridica”101.

Solo in tali termini emerge la tensione latente tra eguaglianza formale e divieto di discriminazione. La prima è qualificata come formale proprio perché si caratterizza per l’astrazione, manifesta indifferenza nei confronti delle caratteristiche dei soggetti concreti, cui non riconosce rilevanza giuridica102. Volendo esemplificare il senso di tale assunto, tutti devono avere accesso ai diritti in virtù di leggi generali ed astratte, senza che il legislatore possa introdurre differenziazioni. Il divieto di discriminazione, invece, è volto a valorizzare determinate caratteristiche personali affinché non siano causa di discriminazione. Tale divieto non impone quindi che nessuna differenziazione sia operata in presenza di determinati fattori, ma è anzi essenziale talvolta che delle previsioni

99

Cfr. D. La Rocca, Eguaglianza e libertà contrattuale nel diritto europeo. Le discriminazioni

nei rapporti di consumo, cit. 47 ss.

100

Ibidem.

101

L. Paladin, Eguaglianza (dir. cost.), in Enc. Dir., vol. XIV, Milano, 1965.

102

Cfr. D. La Rocca, Eguaglianza e libertà contrattuale nel diritto europeo. Le

53 specifiche siano introdotte affinché quelle stesse caratteristiche personali non divengano di ostacolo all’eguale accesso ai diritti.

La ratio della norma deve essere allora individuata nel divieto di porre tali qualità personali a fondamento di discriminazioni nel godimento dei diritti. Una previsione normativa può introdurre un trattamento disuguale senza per questo essere discriminatoria, purché non sia irragionevole, ciò che viene richiesto è il rispetto di un canone generale di ragionevolezza nell’adozione delle scelte legislative e di una coerenza interna all’ordinamento103.

Dietro l’apparente gioco di parole si cela il nodo della distinzione tra parità di trattamento e divieto di discriminazione.

Sul punto in realtà non pare registrarsi una posizione uniforme, essendo ancora diffusa l’idea per cui si avrebbe una tendenziale sovrapposizione dei due concetti e si potrebbe anzi affermare che la disparità di trattamento, in quanto negazione dell’eguaglianza, sia proprio la sostanza della discriminazione104

.

A tale orientamento sembra potersi contestare una generale confusione tra essenza e manifestazione del fenomeno. Se è vero infatti che a fronte di un trattamento meno favorevole per un soggetto rispetto a quello riservato ad altri deve in genere rintracciarsi una discriminazione, non può ugualmente affermarsi che ogni qualvolta vi sia una discriminazione ci sia anche una disparità di trattamento. Diverso è il fulcro dei due fenomeni: il primo è incentrato su un giudizio di tipo relazionale, che diviene sintomatico ma non essenziale quando si parla di discriminazione, rispetto alla quale risulta invece focale il ruolo assunto dal cd. “fattore di rischio”. Del resto, anche la normativa comunitaria, quando individua la discriminazione nel comportamento meno favorevole di una persona rispetto a quello che sarebbe stato riservato ad un'altra nella medesima situazione, non

103

Cfr. C. Troisi, Divieto di discriminazione e forme di tutela. Profili comparatistici, Torino, Giappichelli Editore, 2012, 33 ss.

104

Inter alios: P. Rescigno, Persona e comunità. Saggi di diritto privato, cit.; D. Carusi,

Principio di eguaglianza, diritto singolare e privilegio. Rileggendo i saggi di Pietro Rescigno, cit.; Id., Il principio di eguaglianza nel diritto civile: vecchie e nuove prospettive, cit.

54 sovrappone i due concetti, poiché il confronto è volto solo a far emergere il ruolo giocato dalla specifica qualità personale105.

Al fine di esemplificare il ragionamento, emblematico è il noto caso Plessy v. Ferguson, in cui una compagnia ferroviaria privata, pur garantendo a tutti i passeggeri i medesimi servizi alle stesse condizioni, aveva predisposto dei vagoni solo per i bianchi ed altri solo per le persone di colore106. Non vi è in ciò un trattamento deteriore dei neri, eppure è evidente il carattere discriminatorio del comportamento che, estremizzando, si ritiene non avrebbe cessato di essere tale neppure se fossero state garantite agli stessi condizioni maggiormente favorevoli. La discriminazione va rintracciata nella distinzione del diverso in quanto percepito come tale, nell’incidenza rispetto all’adozione di quella specifica condotta contrattuale di una determinata qualità personale del soggetto che, secondo una valutazione sociale tipica, ha una possibile rilevanza discriminatoria e che può conseguente comportare una lesione della dignità o della libertà personale107.

Tale conclusione ha un fondamentale risvolto nel momento in cui si considerano le relazioni private. Il divieto di discriminazione non impone l’obbligo a contrarre con chiunque alle medesime condizioni, ma di non operare delle differenziazioni sulla base di determinati fattori di rischio. Altrimenti, si avrebbe la completa negazione dell’autonomia privata, nonché l’effetto indiretto di far ricadere sul privato i compiti e i costi che l’art. 3 della Costituzione assegna alla “Repubblica in tutte le sue articolazioni”108

.

Sebbene anche nei rapporti intersoggettivi quando si parla di divieto di discriminazione è inevitabile il richiamo all’art. 3 della Costituzione, è opportuno tenere distinta la parità contrattuale dall’eguaglianza sostanziale, prevista dal secondo comma di detta disposizione, cui non sempra essere preordinato il

105

Cfr. D. Maffeis, Libertà contrattuale e divieto di discriminazione, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2008, 411 ss. Contra, B. Troisi, Profili civilistici del divieto di

discriminazione, cit.

106

Plessy v. Ferguson, 163 U.S. 537 (1986), amplius A. Gentili, Il principio di non

discriminazione nei rapporti civili, in Rivista critica del diritto privato, 2009, 226 ss.

107

A. Gentili, Il principio di non discriminazione nei rapporti civili , cit., 228.

108

A. Gentili, Il principio di non discriminazione nei rapporti civili , cit., 231; D. La Rocca,

Eguaglianza e libertà contrattuale nel diritto europeo. Le discriminazioni nei rapporti di consumo

55 contratto109. In assenza di uno specifico intervento legislativo sul punto, il contratto, in quanto strumento dell’economia di mercato, non può né deve divenire il mezzo per rimuovere le cause di disuguaglianza sostanziale110. Il senso del divieto di discriminazione in ambito privato non è quello di superare condizioni di debolezza, ma di evitare che, sulla base di meri preconcetti, per alcuni soggetti sia precluso o reso più gravoso l’acceso al mercato, generando “sub-mercati segmentati per gruppi sociali”111

.

2.3. Principio di uguaglianza e divieto di discriminazione nella

Nel documento Il rifiuto abusivo di contrarre (pagine 50-56)