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I L PROBLEMA DEL COORDINAMENTO

Le relazioni civili-militari nella gestione delle crisi in situazioni post-conflitto ∗

4. I L PROBLEMA DEL COORDINAMENTO

4.1 Il coordinamento delle organizzazioni internazionali

I cluster

Nell’ambito del coordinamento e della gestione degli interventi in contesti di emergenza e di post-conflitto, in anni recenti (dal 2005) le organizzazioni internazionali hanno sviluppato - e concretamente adottato sul terreno - l’approccio “cluster”: il concetto ricalca, sostanzialmente, quello di “gruppo settoriale”. L’obiettivo di questo nuovo approccio è quello di migliorare la capacità della comunità internazionale di rispondere immediatamente e in maniera sistematica e coordinata alle emergenze dovute ai conflitti armati e ai disastri naturali, riconoscendo la leadership a una o più agenzie per ogni settore interessato. A livello globale esistono nove cluster e per ognuno di essi sono stati individuati uno o più “cluster lead”: ad esempio, UNICEF è “lead” per il cluster sulla nutrizione, UNDP per quello sull’early recovery mentre OIM e UNHCR lo sono, congiuntamente, per quello sulla gestione dei campi profughi. La Banca Mondiale invece - unica tra le agenzie oggetto di questa analisi - non fa parte del sistema dei cluster; tuttavia, anch’essa ricopre in alcuni casi un ruolo di coordinamento, in genere co-presiedendo comitati di donatori e trust funds, potendo contare su capacità generalmente riconosciute di coinvolgere attori differenti per attività di rafforzamento istituzionale.

L’analisi condotta ha mostrato come, ad oggi, quello dei cluster rimanga un esercizio applicato, e riuscito, solo in parte. Nonostante siano stati individuati i cluster e i relativi leader, infatti, non sempre si riesce poi a farli effettivamente funzionare sul campo. Per quanto riguarda i casi qui analizzati, in Somalia la FAO coordina il cluster sull’agricoltura, mentre è stata attivata una task force nell’ambito del cluster sulla protezione (dei rifugiati e profughi) co-presieduta da OIM e UNHCR che si occupa di sostenere una strategia sistemica e regionale nella gestione dei movimenti migratori nel Nord Est del paese. Va tuttavia sottolineato come l’OIM debba ancora rafforzare la propria struttura e organizzazione interna in modo da poter fare fronte in modo efficace al tipo di attività (simili a quelle di una protezione civile) richiesto dal cluster per la gestione e il coordinamento dei campi profughi nelle aree colpite da disastri naturali. Sempre per quanto riguarda il cluster sulla protezione, il Darfur è considerato una buona pratica: UNHCR e gli altri co-lead del cluster, UNICEF e OHCHR (Office of the High Commissioner for Human Rights), sono riusciti a colmare, in maniera ordinata e sistematica, il vuoto lasciato dalle ONG espulse dalla regione nel marzo del 2009. In Libano sono stati costituiti sia il cluster dell’early recovery, guidato da UNDP, che quello sulla protezione, guidato da UNHCR. Entrambi, però, hanno avuto vita e funzioni limitate che si sono esaurite in breve tempo (quello sulla protezione oggi continua ad esistere, occupandosi del

coordinamento degli sforzi nell’ambito dei programmi di protezione sociale tramite il sostegno ai Centri di sviluppo sociale). In generale, gli aiuti gestiti attraverso il canale Nazioni Unite e coordinati da OCHA e dai cluster hanno operato in un modo che è parso isolato e staccato rispetto all’azione delle autorità di governo e degli altri donatori internazionali (in particolare i paesi arabi): questi ultimi, ad esempio, hanno convogliato la maggior parte dei flussi di aiuto attraverso l’High Relief Committee del governo libanese o per sostenere le organizzazioni della società civile del paese. In Afghanistan, invece, i cluster hanno trovato terreno meno fertile sia perché ci sono forse già tanti (troppi) attori sul campo che hanno anche vocazione prettamente di coordinamento (come OCHA), sia a causa delle maggiori pressioni e interessi della comunità internazionale, che rendono più difficile trovare un terreno di raccordo comune.

Il coordinamento civile-militare

L’aspetto dei rapporti e dell’interazione civile-militare è da sempre delicato e cruciale, specialmente in contesti come quelli qui analizzati, in cui di fatto si registra il perdurare dei conflitti, anche se di bassa intensità. In Afghanistan, in particolare, si è assistito nell’ultimo anno ad un’intensificarsi del conflitto armato e degli attacchi dei talebani contro la popolazione civile, i contingenti militari internazionali ma anche, in alcuni casi, contro le organizzazioni umanitarie. Semplificando, se da un lato c’è chi ravvisa la necessità di una stretta interazione tra militari e organizzazioni civili, in modo che i primi possano garantire la sicurezza dei secondi, dall’altro c’è chi invece vede proprio in questa vicinanza una ragione di maggiore insicurezza per gli operatori umanitari, data l’errata percezione e la confusione dei ruoli che questo può generare presso le popolazioni locali. Sia come sia, è evidente che negli anni a venire l’interazione tra le due componenti - in contesti sia di conflitti armati che di disastri naturali - continuerà: saranno dunque cruciali accordi tra le parti che definiscano chiaramente ambiti di competenza e responsabilità.

Le organizzazioni trattate in questo testo si relazionano con le forze militari in modi diversi: si va dall’approccio “cauto”, in certa misura scettico, di UNHCR, che traccia una linea di demarcazione netta tra l’azione umanitaria e le attività di sicurezza militari, a quello dell’OIM che invece promuove attivamente, con linee guida e procedure, la collaborazione con i militari per le attività di tipo umanitario. La Banca Mondiale ha pochissimi o nulli rapporti con i militari, mentre UNDP, anche per il suo mandato che spesso coincide con quello di rappresentante paese per il sistema Nazioni Unite, in genere mantiene rapporti di tipo istituzionale. È interessante sottolineare la differenza proprio tra le uniche due organizzazioni, tra quelle analizzate, non appartenenti al sistema Nazioni Unite, vale a dire Banca Mondiale e OIM, le quali hanno adottato due approcci diametralmente opposti. La prima ha spesso criticato le attività umanitarie condotte dai militari, che considera dannose per la legittimità delle istituzioni del paese in cui si opera (come visto nel relativo capitolo, in Afghanistan la Banca Mondiale non sempre ha avuto buoni rapporti con

le missioni ISAF e OEF – Operation Enduring Freedom). L’OIM, invece, ha fatto dell’interazione con i militari un vantaggio comparato, essendosi data come obiettivo quello di “civilizzare” l’azione dei militari per operazioni di tipo umanitario; e per questo motivo ha siglato accordi con la NATO, inviando i propri consiglieri presso ISAF, e collaborato attivamente con i PRT.

4.2 Conclusioni

Sarebbe importante che le autorità politiche - e gli altri attori degli interventi internazionali - adottassero un approccio non ideologico alle crisi, cercando di raccogliere il “comune sentire” degli addetti ai lavori: dalla comunità degli aiuti a quella militare, dagli esperti tecnici agli accademici, dagli analisti politici agli operatori economici e alle forze sociali coinvolte.

Nell’ambito degli aiuti si privilegia spesso un approccio paternalistico, attraverso l’imposizione di priorità e di settori d’intervento che possono rivelarsi irrealistici o sovrastimati. Nessun progetto di ricostruzione può fare a meno di un processo partecipativo che veda la società e le comunità locali coinvolte nelle scelte e nella definizione degli strumenti dell’intervento. Diversamente, si corre il rischio di investire enormi capitali in progetti destinati a diventare “cattedrali nel deserto”, e perdere la fiducia dell’opinione pubblica del paese, che si sente tradita nelle proprie aspettative.

In molti casi, l’approccio della comunità internazionale è stato anche viziato dall’idea che il paese colpito fosse una “tabula rasa”, in cui costruire da zero un modello di democrazia (e di economia) di tipo occidentale. In realtà, i cambiamenti culturali e sociali richiesti da un progetto di questo tipo non sono conseguibili se non nell’arco di decenni, e ogni progetto di ricostruzione di un paese dovrebbe partire da un’attenta considerazione dell’esistente.

In mancanza di questo i governi, al momento della decisione iniziale, tendono a sottostimare la durata e l’entità degli impegni richiesti da un intervento in aree di crisi prolungata, e ritengono erroneamente di poter perseguire soluzioni rapide (quick fix) attraverso l’uso – anche massiccio – dello strumento militare. Storicamente, questo si è dimostrato insufficiente a produrre soluzioni durature, quando non venga accompagnato da un’energica azione politico-diplomatica e da una consistente e costante azione di aiuto, tanto nell’assistenza umanitaria quanto nella ricostruzione.

Esiste un ampio patrimonio di “lezioni apprese” che viene molto scarsamente utilizzato nella fase di decisione e pianificazione dei diversi interventi. Un più ampio e sistematico utilizzo di questo strumento permetterebbe di evitare il ripetersi di errori spesso gravi.