• Non ci sono risultati.

I.2.3 La fase Neoplatonica e l’età Tardo antica

I.2.3.1 Proclo e Simplicio

Il punto di partenza lo fornisce nuovamente Diels, sostenendo che i due commentatori di Platone, seppur attingendo entrambi dall’Accademia di Atene, non utilizzarono la stessa copia di Parmenide154.

Proclo si configura come la punta di diamante del neoplatonismo ateniese del V secolo d.C.; egli si fece apprezzare in particolar modo per la coerenza del sistema, e più per la lucidità che per l’originalità del pensiero155. Sicuramente ebbe modo di consultare le ricche biblioteche di Atene. Tra le sue opere conservate, troviamo anche dei frammenti citati da Parmenide, tuttavia non numerosissimi. Essi sono presenti in particolare nell’

In Timaeum, nell’ In Parmenidem e nella Teologia Platonica, per un totale

151Passa E., Parmenide, tradizione del testo e questioni di lingua, cit. p 35. 152Guérard C., Parménide d’Elée chez les Néoplatoniciens, cit. p. 295.

153A tal proposito cfr. Guérard C., Parménide d’Elée chez les Néoplatoniciens, cit. pp. 296- 297.

154Diels, Parmenides, Lehrgedicht. Griechisch und Deutsch. Mit einem Anhang über griechische Thüren und Schlösser, cit., p. 25.

38

di circa venti versi156. Le citazioni di Proclo contengono numerose divergenze da quello che doveva essere l’originale parmenideo, e in generale dalle citazioni del testo da parte di altri autori157; Coxon sostiene che probabilmente, se non tutte, la maggior parte delle citazioni dovevano essere fatte a memoria158. Anche in questo caso, come è stato per Plutarco, ci troviamo di fronte una personalità colta, che doveva avere un’ottima conoscenza degli autori antichi; questo induce Passa a sostenere che tali errori di memoria furono compiuti proprio confondendo brani di uno stesso filosofo, o di due filosofi diversi159.

Ammettendo che le cose stiano così, la testimonianza di Proclo sarebbe segnata da tre elementi determinanti: la citazione a memoria, la contaminazione con brani di altri autori ed infine l’influenza della lettura neoplatonica. Rimane da effettuare un riscontro testuale di tali affermazioni.

Per quanto riguarda la consuetudine della citazione a memoria, è emblematico il caso in cui Proclo riporta il fr. 28 B 3 DK. Egli infatti lo cita due volte160: nell’ In Parmenidem, col. 1152,33 e poi nella Teologia

Platonica I, 14 p. 66,4, S-W161. La prima volta lo cita come:

τὸ γὰρ αὺτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι; e la seconda:

ταὐτόν ἐστι τὸ νοεῖν καὶ τὸ εἶναι.

La seconda citazione è palesemente contaminata dal fr. 28 B 8.34 DK:

ταὐτόν δ’ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόηµα.

156Per l’elenco di tutte le citazioni di Parmenide in Proclo, e per un commento generale sulla ricezione della figura di Parmenide in Proclo v. Guérard C., Parménide d’Elée chez les Néoplatoniciens, cit.; in particolare le pp. 300-313.

157

Ne è un esempio il problema testuale che abbiamo visto interessare il fr.28 B 1. 29-30: v. supra n. 106.

158Coxon, The Fragments of Parmenides. A Critical Text with Introduction, Translation, the Ancient Testimonia and a Commentary, cit. p.5.

159

Passa E., Parmenide tradizione del testo e questioni di lingua, cit., p. 38. 160Cfr. Guérard C., Parménide d’Elée chez les Néoplatoniciens p. 304-305.

161La sigla S-W fa riferimento alla seguente edizione: Saffrey H.D., Westerink L.G., Proclus, Théologie Platonicienne, I, Les Belles Lettres , Parigi, 1968.

39

Abbiamo in questa citazione sia la prova dell’uso della memoria, sia della contaminazione con altri brani, in questo caso tratti dallo stesso autore; ma non mancano esempi contenenti sezioni di altri filosofi: analizziamo la citazione del fr. 28 B 2.5-8 DK:

ἡ δ’ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι µὴ εἶναι, τὴν δή τοι φράζω παναπευθέα ἔµµεν ἀταρπόν· οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε µὴ ἐὸν (οὐ γὰρ ἀνυστόν) οὔτε φράσαις.

Proclo nell’ In Timaeum I 345, 18-27, riporta παναπειθέα in luogo di παναπευθέα, ed ἐφικτόν in luogo di ἀνυστόν. Non ci sono dubbi che le

lectiones corrette siano quelle di Simplicio, accolte nell’edizione Diels-

Kranz; sia per l’argomento richiamato più volte del sicuro uso da parte di quest’ultimo del testo di Parmenide162, sia per aspetti contenutistici e formali: il composto παναπευθής costituisce un hapax, ma trova ragion d’essere nel frequente uso omerico dell’aggettivo ἀπευθής e del significato163: la seconda via, definita ἡ δ’ ὡς οὐκ ἔστιν τε καὶ ὡς χρεών ἐστι µὴ εἶναι sarebbe infatti “del tutto priva di informazione”164

, “estranea al sapere165”, in quanto mai si potrà conoscere ciò che non è (οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε µὴ ἐὸν), come viene detto immediatamente dopo; meno calzante sembrerebbe dunque l’aggettivo di Proclo παναπειθέα: “del tutto incredibile”166. Per quel che riguarda ἐφικτόν (lectio di Proclo) e ἀνυστόν (lectio di Simplicio), sono entrambi due aggettivi verbali che non si trovano mai in Omero,ma godono di un buon uso presso i Presocratici. Anche dal punto di vista del significato, sembrerebbe sussistere tra i due una condizione di parità: οὐ γὰρ ἀνυστόν significa propriamente “è infatti impossibile”; ἐφικτόν è in grado sia di mantenere lo stesso significato impersonale, sia di assumere un significato personale, riferito a quanto detto

162Cfr. n.64.

163V. Passa E., Parmenide tradizione del testo e questioni di lingua, cit. p. 38 e Cerri G., Parmenide, poema sulla natura, cit. pp. 188-189.

164

Traduzione di Cerri in Cerri G., Parmenide, poema sulla natura, cit. p. 189. 165Ivi, p. 148.

166Così traduce Passa in Passa E., Parmenide tradizione del testo e questioni di lingua, cit. p. 38

40

prima: «infatti “ciò che non è” non è raggiungibile (con l’intelletto)»167; il tutto senza variare il significato dell’affermazione. La decisione da parte degli editori, di accogliere la versione di Simplicio, può essere ricondotta alla diversa affidabilità dei testimoni168, di cui abbiamo avuto modo di parlare; tuttavia potrebbe esserci un’ulteriore indizio a sostegno di questa scelta: leggiamo un frammento di Empedocle, il 31 B 133.1 DK:

oὐκ ἔστιν πελάσασθαι ἐν ὀφθαλµοῖσιν ἐφικτόν ἡµετέροις ἢ χερσὶ λαβεῖν ἦιπέρ τε µεγίστη

πειθοῦς ἀνθρώποισιν ἁµαξιτὸς εἰς φρένα πίπτει.

L’immagine del πειθοῦς ἁµαξιτὸς richiama piuttosto esplicitamente l’immagine del πειθοῦς κέλευθος, presente in Parmenide nel fr. 28 B 2.4 DK . Questo ci consentirebbe di ipotizzare che Proclo, nel citare il verso di Parmenide, si sia confuso con quello di Empedocle169. Così come sembra avvenire una confusione tra Parmenide e Senofane, quando cita 28 B 8.29 DK170: infatti i manoscritti di Simplicio riportano:

ταὐτόν τ’ ἐν ταὐτῷ τε µένον καθ ἑαυτό τε κεῖται

Proclo nell’In Parmenidem, a 1134. 22 e 1117.5, sostituisce τε µένον con τε µίµνει, che richiama 21 B 26 DK, dove troviamo:

αἰεὶ δ ἐν ταὐτῷ µίµνει κινούµενος οὐδέν171.

Circa l’influenza che l’interpretazione neoplatonica possa aver esercitato nelle citazioni di Parmenide da parte di Proclo, abbiamo avuto già modo di parlare, in particolare per quel che riguarda il fr. 28 B 1.29 DK172.

167

Cerri G., Parmenide, Poema sulla Natura, cit., p. 189. 168Ibidem.

169L’ipotesi è proposta da Passa, in Passa E., Parmenide tradizione del testo e questioni di lingua, cit. p.38.

170

Ivi, p.39.

171Sul rapporto tra questi due frammenti 21 B 26 DK e 28 B 8.29 DK, e in generale su una possibile influenza esercitata da Senofane su Parmenide avremo modo di tornare in I § 3. 172V.n.106.

41

Dunque Proclo cita per lo più a memoria, nonostante sappiamo debba aver frequentato la biblioteca di Atene, fondamento della sua accurata preparazione sulla speculazione filosofica a lui precedente. Perciò se un esemplare del testo di Parmenide deve essere transitato tra le mani di Proclo, anche se poi non fu usato per dedurne citazioni testuali, la sua provenienza era certamente quella di Atene173. Un appiglio per poter individuare a quale arco temporale questa ipotetica copia afferisca, è costituito dalle citazioni che Proclo fa nell’In Parmenidem 1077,25, 1084, 29-30, 1152, 25 del frammento 28 B 8.4 DK. Tutte queste iniziano con ἐστι γὰρ οὐλοµελές, la lectio che troviamo in Plutarco, contraria a quella che restituisce Simplicio: οὖλον µουνογενές 174 .Ora, avendo dedotto che l’introduzione delle parole ἐστι γὰρ sia da attribuire a Plutarco stesso175, e che solo successivamente si sia ritenuto, erroneamente, che queste facessero parte della citazione dell’autore di Cheronea176, possiamo sostenere che la copia, utilizzata da Proclo per lo studio di Parmenide, fosse collocata ad Atene e risalisse ad un tempo sicuramente posteriore a Plutarco177.

Abbiamo più volte visto come Simplicio sia considerato una fonte fondamentale e piuttosto attendibile. I suoi meriti risiedono nell’aver mostrato quale dovesse essere il vero epilogo del proemio178; e nell’aver citato un’altra sezione importante del poema, composta da ben 52 versi, che

173Così già Diels in Diels H., Parmenides Lehrgedicht, Griechisch und Deutsch. Mit ein Anhang über grieschische Thüren und Schlösser,cit. p.26.

174Simpl. Phys. 30.2,78.13, 120.23, 145.4 e in Cael. 557.18. 175V. Supra pp. 23-25.

176 Ibidem. 177

Di altro avviso è Passa: egli sostiene infatti che, in realtà, Proclo e Plutarco attingessero a una stessa tradizione testuale. Passa basa la propria deduzione sulla coincidenza di cui abbiamo or ora parlato, e sulla coincidenza della citazione del fr. 28 B 1.30 DK, dove entrambi questi autori riportano la forma dell’articolo αἷς in luogo di ταῖς (attestata invece da Sesto Empirico, Clemente Alessandrino e Sesto Empirico). V., Passa E., Parmenide, tradizione del testo e questioni di lingua, cit. p. 39. Ovviamente questo determina che si debba ritenere che le parole ἐστι γὰρ, Plutarco le dovesse trovare già scritte nella copia a cui egli si rifaceva; ed è quanto Passa sostiene: v. Passa E., Parmenide, tradizione del testo e questioni di lingua, cit. pp. 61-63. Il punto centrale, su cui si regge tale ipotesi, è che l’ ἐστι γὰρ torni anche in seguito nel fr. 28 B 8 DK, all’inizio del verso 33: «ἐστι γὰρ οὐκ ἐπιδευές». Tuttavia non si stia discutendo dell’impossibilità che Parmenide utilizzi le parole ἐστι γὰρ a inizio verso, quanto piuttosto del fatto che tali parole non abbiano significato, se inserite da Parmenide al verso 4: al v. 33 l’affermazione «ἐστι γὰρ οὐκ ἐπιδευές» («è infatti privo di ogni esigenza), di cui è soggetto sottointeso il τὸ ἐὸν, è inserita come un inciso per spiegare quanto affermato al verso sopra: «οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέµις εἶναι»: non è lecito che “ciò che è” sia incompiuto. Diverso è il caso del verso 4, dove l’ ἐστι γὰρ non trova la sua ragion d’essere, ma interrompe la sequenza di aggettivi volti a descrivere le caratteristiche del τὸ ἐὸν ,per giunta a discapito dell’attributo dell’οὖλον, qualità certamente fondamentale del τὸ ἐὸν.

42

per noi oggi costituiscono il frammento B 28 8 DK, nel quale vengono espressi concetti essenziali del pensiero di Parmenide179.

Legata a questa ultima citazione, è l’attendibilità che gli viene concessa in qualità di fonte. Infatti egli, nel commento alla Fisica di Aristotele180, precisa di aver riportato una citazione così lunga «διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐµοῦ λεγωµένων», ma anche «διά τὴν σπάνιν τοῦ Παρµενιδείου συγγράµµατος». Dunque consapevole della situazione culturale del tempo, profondamente segnata dalla chiusura dell’Accademia nel 529, si preoccupava di trarre in salvo testi fondamentali per la tradizione filosofica. Tuttavia all’interno della situazione delineata, un dettaglio fa ombra. Si tratta del v. 57 del frammento 28 B 8 DK, il quale presenta un’anomalia: sebbene contenga elementi di per sé funzionali al contesto e in armonia col contenuto del poema, sebbene si adatti perfettamente allo stile di Parmenide; è sicuramente trasmesso in via erronea, perché realizza un esametro di sette piedi181. Prima di trascriverlo, anticipiamo che la critica si è già adoperata per correggere il verso182, eliminando una o l’altra parola, a seconda delle varie ipotesi formulate; risulta però evidente che, da un punto di vista metodologico, questa strada non è corretta183, poiché tutti gli emendamenti proposti sono tra loro interscambiabili e eguali in quanto a qualità, e perché qualsiasi elemento si elimini, sottrae al testo un riferimento ad esso funzionale184. Il verso in questione è così riportato nell’edizione dei presocratici di Diels e Kranz185:

ἤπιον ὄν µέγ’ [ἀραιὸν] ἐλαφρόν ἑωυτῶι πάντοσε τωὐτόν

L’ipotesi di Diels è, infatti, quella di espungere ἀραιὸν, interpretata come una glossa interlineare di ἐλαφρόν, introdottasi nel testo. Come detto, un’ipotesi in questo contesto, vale l’altra; sembra dunque più saggia la

179Cerri definisce questa sezione “la sezione metafisica” del poema; tale definizione ha a che fare con un’interpretazione ontologica che Cerri dà all’intero poema, e su cui dovremo ritornare. V. Cerri G., Poema sulla natura, cit., p. 11.

180Simpl. Phys. 144.25 ss.

181 Cerri G., Parmenide, Poema sulla Natura, p. 248. 182

Per le correzioni proposte: ivi, p.249. 183Ibidem.

184Ibidem.

43

scelta di Cerri, il quale pur senza rinunciare ad elaborare una propria proposta di testo da cui si sarebbe originato l’errore186, pone l’intero verso tra cruces desperationis187. Per quanto la situazione si presenti aporetica, sembra comunque esagerato, sulla base di questo unico verso, sostenere che Simplicio si rifacesse ad un testo in qualche punto inquinato, e che, soprattutto, non fosse in grado di avvedersene.188

Di fatto la testimonianza dell’ultimo grande Neoplatonico del VI secolo rimane ancora oggi indispensabile, così come tutte le precedenti analizzate, nella speranza che ulteriori nuovi sviluppi sulla tradizione del poema parmenideo, emergano in futuro.

Delineate le linee essenziali del panorama delle testimonianze circa Parmenide e la sua opera, possiamo proseguire nell’ analisi degli altri elementi necessari all’interpretazione del testo: l’influenza eventualmente esercitata da Senofane e dal pitagorismo sull’eleate; e le diverse chiavi di lettura avanzate per il proemio dell’opera.

I.3 Parmenide e l’introduzione all’ ἡσυχία. Senofane, Aminia

Documenti correlati