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QUALCHE SPUNTO SULL’AUTOFICTION (1)

0. Circolano idee e interpretazioni, per lo più riduttive, intorno all‘autofiction in generale – l‘autofiction narrativa, dico – che rischiano di essere fuorvianti. Banalmente e concretamente: tutte le volte in cui un autore violi il cosiddetto patto autobiografico, si creerebbero le condizioni d‘esistenza dell‘autofiction. E si dà violazione del patto autobiografico, com‘è noto, nel momento in cui la coincidenza di autore / narratore / personaggio viene infranta in qualche suo punto: come se, a dirla tutta, il problema principale fosse la collocazione dell‘istanza enunciativa ‗prima‘ nel mondo delle cose condivise, della realtà. Questa collocazione è vincolata – nell‘autobiografia – da una postura di sincerità, cioè da una necessaria forma di coerenza rispetto a una pratica convenzionale, a uno sfondo comune di riferimento. Rispetto alla realtà, appunto. E dunque: c‘è autofiction nella Commedia dantesca allo stesso titolo che in Lunar Park di Bret Easton Ellis? A leggere certe osservazioni, per esempio, di Gérard Genette, parrebbe proprio di sì. Non solo: ogni volta che un autobiografo ‗mente‘ si darebbe perciò, quasi automaticamente, un fenomeno di autofiction? Dobbiamo mettere sullo stesso piano opere in cui solo certi dettagli sono palesemente inventati e opere che viceversa sono pensate secondo una strategia complessivamente ‗autofinzionale‘? E così via.

Con ogni evidenza, da una simile interpretazione non può che discendere una gran quantità di incertezze e dubbi. Ma soprattutto non può che allargarsi l‘ambito dell‘autofiction, a cui si finisce per appellarsi tutte le volte in cui sia in gioco un meccanismo autobiografico sottoposto a seppur lievi modificazioni nella direzione della ‗menzogna‘.

Naturalmente, qualcosa del genere quasi per definizione accade anche quando siamo di fronte alla poesia, più esattamente al genere lirico in tutte le sue declinazioni – prime fra tutte le declinazioni anti- o post-liriche. Il fatto che, soprattutto in Italia, oggi ci si sia quasi costantemente appellati a meccanismi di narrazione autobiografica per perimetrare la poesia, ci ha esposti a equivoci di questo genere. Se l‘io della poesia è un io in primo luogo autobiografico, ciò implica una sua collocazione narrativa, suscettibile di essere valutata nei termini del patto autobiografico, e quindi potenzialmente in termini di autofiction.

Quello che lascia perplessi in una simile procedura è, di nuovo, il riduzionismo: l‘avere cioè sacrificato la complessità ereditata del discorso poetico a una dominante in ultima analisi narrativa. Si avrebbe poesia quando il testo mette in scena una storia – per lo più, ma non necessariamente, interiore – imperniata su un soggetto riconducibile all‘identità dello scrittore ‗reale‘. È una lettura estremamente problematica: che non tiene conto, da un lato, delle molte interpretazioni finzionali dell‘io poetico, particolarmente diffuse per esempio in ambito nordamericano; ma soprattutto, dall‘altro, delle osservazioni di Käte Hamburger, la quale saggiamente aveva suggerito che lo spazio simbolico più autentico della poesia sospende il rapporto fra soggetto reale e soggetto fittizio. Dunque: un‘interpretazione della lirica in senso stretto autobiografica, e quindi anche autofinzionale, la espone alle stesse leggi della narrativa, riducendone di molto la specificità. (E condannandola, aggiungo, a un di più di marginalità nello scenario letterario complessivo: viviamo in un mondo in cui lo storytelling è uno dei pensieri più imperialisticamente forti, sempre pronto a ricordarci che ―tutto è narrazione‖!). Le posizioni sfumate, ma coerenti rispetto a una tipologia generale, come quelle di Käte Hamburger e – forse a maggior ragione – di Jonathan Culler, rischiano di essere triturate da forme di assolutismo appunto semplificatorio.

A uscirne con le ossa rotte, a ben vedere, sono sia la narrativa sia la poesia. Se la teoria si trasforma in un pastone di concetti, le conseguenze sono la confusione di tutto con tutto, l‘indebolimento del sistema letterario (o finzionale che dir si voglia) nel suo complesso. Nel mondo della post-verità, poeti e narratori possono apparire dei burloni che ripetono in modi bislacchi quanto tuttodì è

compiuto da qualsiasi gioviale utente di reti social impegnato a postare i tanti avatar di se stesso. Se non vedo la differenza tra Facebook e un‘autobiografia stampata in libro, tra Instagram e L‘infinito, perché dovrei leggermi questi che mi costano sforzi non sempre ripagati e soprattutto, rispetto a quelli, mi impediscono di dire subito la mia, di vederla condivisa da altri, e approvata a colpi di like?

1. Ma il punto è proprio quest‘ultimo. È cioè assai probabile che l‘autofiction – ferma restando, in astratto, una sua infrazione al patto autobiografico – vada interpretata innanzi tutto in termini storici e, soprattutto, mediali. Si dà autofiction, cioè, quando alcune violazioni allo statuto di realtà presupposto da una certa narrazione avvengono in una società, e in un contesto comunicativo, che fortemente enfatizzano il ruolo pubblico dell‘autore, che sottolineano con energia la sua ‗presenza‘ nell‘immaginario quale istanza sottoposta a costante controllo e verifica. Come tutti sappiamo, queste condizioni sono soddisfatte – oggi e soprattutto oggi – dalla Rete delle reti, cioè da Internet. È in questo ambiente che forme di soggettivismo esposto sono implementate, incoraggiate e assecondate; ed è specificamente in questo mondo che si aggirano soggetti interessati a capire che cosa stia ‗realmente‘ succedendo agli altri, alle persone con cui sono ogni giorno in contatto. Solo una connettività esasperata come l‘attuale è in grado di spiegare la nostra passione per un tipo di storytelling in cui l‘eccesso di esibizione del sé implica un dubbio intorno alla verità effettuale di ciò che è detto e, soprattutto, mostrato, visivamente esemplificato.

Si potrebbe parlare addirittura di una desublimazione, una ‗referenzializzazione‘ del nostro mondo simbolico; di un realismo ingenuo che sempre più condiziona il rapporto di tutti noi con gli oggetti significanti: parole, immagini, suoni ecc. L‘emozione dominante della Rete, il suo essere ormai il codice dei codici nella vita di tutti i giorni, finisce per allontanarci dalla tradizione dell‘esperienza estetica. Ci rende insensibili alla sospensione dell‘incredulità, innanzi tutto, per costringerci a estenuanti giochi intorno alla necessità di credere a quanto ci viene detto, affidandoci a riscontri razionali, ‗certificati‘ da prove inoppugnabili.

In un universo in cui la bufala non solo è temuta ma è sempre praticata e in qualche modo pregiata, diventa difficile capire come mai esistano sistemi espressivi (solitamente detti sistemi estetici: opere d‘arte) che sono indifferenti al problema delle bufale poiché si muovono entro piani di esperienza altri, incommensurabili a quelli della vita empiricamente vissuta. In un universo (ancora) di creduloni, sospettosi delle post-verità ma da esse anche perversamente attratti, i nuovi pubblici si allontanano da quel dominio di parole e immagini in cui era (ed è, beninteso!) necessario mettere fra parentesi la referenza immediata, per rinviarla più in là, dopo il completamento dell‘evento artistico. L‘opera – si diceva – parla del mondo sì, ma dopo aver sospeso un riferimento immediato ai contenuti del mondo. Il sistema comunicativo dell‘autofiction e della Rete finisce invece per costringerci a stare con i piedi per terra fin da sùbito, a muoverci dentro un realismo fenomenico volgare, come tale soggetto a mistificazioni e imbrogli. Sempre più assomigliamo agli spettatori delle sacre rappresentazioni medievali, che dopo la messa in scena della morte di Cristo non potevano non vendicarsi sul malcapitato attore che interpretava la parte di Giuda.

2. Riassumendo, perché si dia un dispositivo autofinzionale, sono indispensabili i seguenti fattori: a. i comportamenti pubblici dell‘autore devono essere conosciuti, devono far parte di uno storytelling condiviso da un pubblico partecipe;

b. ciò avviene in seguito a un‘esposizione mediatica dell‘autore, non brevissima e comunque discretamente approfondita; e sono le logiche della Rete a facilitare un simile accadimento;

c. e ciò, a sua volta, dipende dal voyeurismo del pubblico, dal suo protagonismo, secondo modalità che oggi sono per lo più quelle del transmedia storytelling (i destinatari che si fanno prosumers, che partecipano attivamente ai contenuti del Web: che li commentano, li dibattono, li ricreano, li rimettono in circolo citandoli ecc.).

Come sempre càpita in questi casi, tuttavia, l‘effetto di re-mediation è del tutto ineliminabile, e anzi deve essere considerato benefico. Si tratta di sfruttare il rimbalzo euristico che

un‘acquisizione recentissima esercita sul passato, su fenomeni interni a uno scenario precedente il nostro, ma che retrospettivamente possono essere letti in chiave diversa da quella consueta. La retroazione esercitata dall‘attuale produzione di autofiction su eventi di un tempo non troppo lontano non deve essere sottovalutata, tanto più se siamo in presenza di evenienze connesse a un episodio della nostra recente storia letteraria che è stato giudicato sintomo di una svolta epocale.

3. Satura di Eugenio Montale (a stampa nel 1971) comincia con questa poesia: I critici ripetono,

da me depistati,

che il mio tu è un istituto.

Senza questa mia colpa avrebbero saputo che in me i tanti sono uno anche se appaiono moltiplicati dagli specchi. Il male

è che l‘uccello preso nel paretaio non sa se lui sia lui o uno dei troppi suoi duplicati.

Non si tratta di interpretare il testo nelle sue implicazioni ‗identitarie‘ (anche se il dubbio che il finale ―uccello preso nel paretaio‖ sia meno il poeta che non il critico), quanto – banalmente – di prendere atto di quello che Montale, ai vv. 1-2, dichiara di aver fatto. Vale a dire: di aver depistato i critici e in genere i lettori, di averli ingannati con le proprie spiegazioni intorno alle poesie che ha scritto. Né si tratta, a voler essere ancora più precisi, di stabilire se il depistaggio sia stato volontario o involontario (la fine della poesia in effetti suggerisce questa possibilità: il poeta non è padrone del proprio io, della propria posizione nel mondo). Il punto è la consapevolezza che questa poesia esprime circa il rapporto fra opera letteraria e destinatari più preparati, fra testo che si manifesta sotto i nostri occhi e attese interpretative concretate in un corpus di letture, di idee intorno a un autore.

Montale scrive dicendoci che lui sa che noi sappiamo: si rivolge a noi attraverso le procedure ‗triangolate‘ della lirica comunicandoci che oggetto del suo poetare sarà anche e in effetti soprattutto un gioco a rimpiattino con i giudizi ormai acquisiti intorno alla sua produzione letteraria. Ci fa insomma capire che il suo percorso espressivo nel libro intitolato Satura avrà come riferimento fondamentale non tanto i ‗fantasmi‘ poetici positivi che via via la pagina materializza, quanto i ‗fantasmi‘ che un certo tipo di tradizione esegetica aveva messo in rilievo. Non solo: quel mito di Montale autore implicito con cui Montale autore reale si confronta comporta anche – come abbiamo visto – il perverso piacere di contraddirlo, di scoronarlo. A dire, insomma: ―Voi questo avete creduto di me. In realtà vi siete sbagliati, perché le cose sono andate in un modo diverso, che adesso vi illustrerò‖.

Com‘è peraltro noto, in Satura Montale rimette in discussione il proprio passato letterario per farsene cupamente beffe, per esprimere la propria nausea verso l‘immagine di sé precedentemente codificata. Non per caso, direi, il primo e anzi decisivo oggetto di feroce critica e ridimensionamento è la funzione conoscitiva, sul piano storico, che la poesia montaliana aveva svolto. La ben nota seconda parte del primo Botta e risposta, quella per intenderci dedicata alle stalle di Augìa, si presta sì – fin troppo docilmente – a un‘interpretazione di impianto francofortese: il neocapitalismo essendo presentato come una specie di fascismo di fatto peggiore del fascismo vero. Ma è altrettanto evidente che Montale pensa anche a sé, alla propria opera; e infatti alla fine di questa lettera in versi immagina che la sua destinataria non lo legga più. E ciò avviene perché costei ormai si sarebbe avveduta che i valori della poesia – oltre che della storia – sono irrimediabilmente compromessi:

che forse non mi leggi più. Ma ora tu sai tutto di me,

della mia prigione e del mio dopo, ora sai che non può nascere l‘aquila dal topo).

L‘autore afferma con chiarezza di sé e della sua produzione che il loro ambito è quello del topo e non dell‘aquila: la loro è una decadenza che esplicitamente nega l‘immagine di Montale interprete dell‘―esistenzialismo storico‖. Né storico né esistenzialista, ormai il poeta preferisce divertirsi a deludere il lettore-critico a colpi di argute – almeno nelle intenzioni – negazioni di negazioni (si ricordi nella prima parte del componimento la lambiccata immagine della sospensione della sospensione di giudizio: ―sospendere / l‘epoché‖).

Recensendo (e stroncando) a caldo Satura, già nel 1971 Franco Fortini aveva suggerito quanto qui stiamo osservando. Montale è il primo lirico moderno che scrive manipolando, vampirizzando il proprio passato, il proprio racconto autobiografico elevato al rango di narrazione condivisa. Gli antecedenti autorevolissimi (Goethe e Carducci, ricordati da Fortini, a cui non possiamo non aggiungere D‘Annunzio) non erano lirici puri, e la loro leggenda se l‘erano costruita attraverso un rapporto ancora ‗classico‘ con i generi letterari. Montale no. Il suo era stato lo spazio dell‘evento lirico, suscettibile di verticalizzarsi nella pagina ove farsi incandescente in modo quasi istantaneo. E se racconto c‘era stato, si era manifestato per baluginii e intermittenze, e non certo per sistematiche riprese di contenuti (personaggi, eventi ecc.). Le tante Annette, Arlette, Clizie, Volpi ecc. – che hanno costituito le più autentiche isotopie della poesia di Montale – sono anche state, com‘è noto, una costruzione della critica, se del caso grazie ai depistaggi che l‘autore aveva generosamente praticato.

In ogni caso, Montale nelle sue prime tre raccolte era stato un poeta-poeta fiero della propria separatezza, esponente paradigmatico di un classicismo moderno inteso alla messa a punto di monumenti testuali che – per contratto – si manifestano interamente qui e ora, in forme autosufficienti, ignare di altri antecedenti che non siano la parola che sotto i nostri occhi metricamente si dispiega. Nel ‗primo‘ Montale le autodefinizioni e le poetiche sono sì frequentissime, e anzi ogni raccolta comincia con una poesia che ci offre tali coordinate: ma devono costituire dei pensosi resoconti di un processo tutto interno. E se qualcosa di esterno c‘è, prevedibilmente comporta modi consueti di intertestualità: il dialogo con altri poeti, altre opere, altre tradizioni. Mai, assolutamente mai, rinveniamo un esplicito gioco a rimpiattino con i commenti alla sua produzione, con i suoi trascorsi elevati a tema.

Bisognerebbe, beninteso, ripercorrere l‘intero Satura per dare conto di un percorso del genere, per caratterizzare nel dettaglio l‘operazione autofinzionale messa in campo da Montale: per illustrare cioè quanti aspetti della sua passata poetica siano messi in discussione e revocati in dubbio; quanta mistificazione dei suoi esiti acquisiti l‘autore ci costringa a digerire. Nell‘immensa bibliografia montaliana questo lavoro è stato peraltro largamente fatto: anche se non nella prospettiva qui praticata.

La stessa figura della Mosca, protagonista delle prime due parti, è un‘evidente ritrattazione di Clizia: a partire dagli occhi, che come tutti sanno erano ―d‘acciaio‖ e combattivi, e che con la loro debolezza ora invece dicono di una capacità di adattamento prosaico alle vicende di tutti i giorni, di un bonario accomodamento. E Montale, peraltro, vorrebbe alto-borghese questa operazione, che invece denuncia ben diverse connotazioni ideologiche. La povera Drusilla Tanzi va incontro a un omaggio non privo di contenuti discutibili di natura piccolo-borghese: donna che non ha veramente vissuto, che ha parlato pochissimo in pubblico – e comunque in maniera stentata –, che non ha mai scritto nulla, che ha sempre coltivato qualche forma di superstizione religiosa ecc. E anche il culmine ‗filosofico‘ della visione del mondo attribuita a Mosca, la capacità di cogliere gli ossimori della vita (―Tu sola sapevi che il moto / non è diverso dalla stasi, / che il vuoto è il pieno e il sereno / è la più diffusa delle nubi‖), contiene sfumature qualunquiste. Come a dire: ―tutto e il contrario di

tutto‖.

Ma il modo a un tempo più raffinato e perverso scelto da Montale per mentire se stesso, per impegnarsi a fondo in un percorso autofinzionale, è garantito dalla sua capacità di scialare i propri stessi meccanismi di produzione del testo e dell‘immagine poetica. Nel dittico intitolato La storia l‘autore parodizza una gran quantità di sue passate invenzioni allegoriche (più che simboliche); a partire da quella più nota dell‘‖anello che non tiene‖:

La storia non si snoda come una catena di anelli ininterrotta. In ogni caso

molti anelli non tengono.

Il paragone, trasposto in una simile dicitura, perde del tutto di senso, se è vero che qui non c‘è più l‘evento miracoloso e unico, ma il ripetersi di fallimenti seriali. Un anello che non tiene ha un valore che può essere forte o fortissimo, ed è comunque quello che il lettore montaliano aveva imparato venerare; molti anelli che non tengono non significano nulla di preciso, e anzi rendono ridicolo il riferimento iniziale, mortificandolo.

Proprio questa goffaggine semantica ha un valore sintomatico. La costruzione anaforica, cioè appunto seriale, non periodica, non chiusa ma continuamente rilanciabile, suggerisce, nel vivo delle cose del ritmo, delle strutture formali, che la passata misura e conclusione non è più ripetibile: che il poeta ora può solo parodizzarla, mostrandone l‘invecchiamento e il deterioramento. Ecco come è strutturato il resto della poesia:

La storia non contiene [...].

La storia non è prodotta [...].

[...] La storia non si fa strada [...] La storia non giustifica [...].

La storia non somministra [...]

La storia non è magistra [...].

Accorgersene non serve a farla più vera e più giusta.

4. Alfonso Berardinelli, indagando le origini di un certo postmoderno italiano, tempo fa dichiarò che Satura mette in mostra una modernità andata a male, fattasi piatto farcito (satura appunto): composto tuttavia di ingredienti indigesti e adulterati. Cibo scadente in cui lo stesso autore crede sempre meno e che ammannisce ridicolizzando un pubblico che viceversa in lui vede un eroe. Anzi: l‘eroe poetico dei nostri tempi. L‘aquila, dicevamo.

Che un gioco del genere potesse culminare nella ‗vera‘ bufala del Diario postumo, è stato solo in parte uno scherzo del destino. La parodia di sé, il falso autoprocurato, la mortificazione esplicita della propria tradizione, costituivano una sorta di contraffazione letteraria ed erano diventati da tempo merce comune e (noiosamente) prevedibile. Annalisa Cima si inseriva perfettamente in una procedura del genere, che – appunto sul piano delle poetiche: e solo su quello beninteso – Montale aveva prefigurato e legittimato.

Meno legittimo invece è stato il curioso e confuso vocìo di una parte della critica, che a me sembra assomigliare molto al cicaleccio indisponente di un blog. Ma le re-mediation anche questi effetti possono determinare: mostrare in filigrana, dentro un normale dibattito ermeneutico, il disegno di un altro scenario, lo spostamento, forse la regressione, a un dilettantistico scambio di battute intorno a un banalissimo post.

Paolo Giovannetti

Note.

(1) Riprendo e sviluppo spunti presenti in un mio breve contributo (Satura di Montale: un‘autofiction in versi?) comparso sulla rivista ―Satura‖, n. 0, primavera 2017, p. 19. I riferimenti bibliografici non esplicitati sono a opere, sia teoriche sia critiche, notissime. Una precisazione tuttavia può servire a rendere meno oscuro l‘ultimo paragrafo, dedicato al Diario postumo uscito nel 1996. Questo falso montaliano realizzato da Annalisa Cima, di cui ormai conosciamo tutte o quasi le vicissitudini, era stato salutato come autentico da una parte non secondaria della critica. Su tutta la vicenda, cfr. almeno Federico Condello, Valentina Garulli, Francesca Tomasi (a cura di), Montale e pseudo-Montale. Autopsia del Diario postumo, Bologna, Bononia University Press, 2016.