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Il superamento della rappresentazione elegiaca(20) della propria biografia mediante l‘adozione di uno «stile umoristico» nasce dalla necessità/impossibilità della rappresentazione della piccola

LA FORMA DELL’AUTOBIOGRAFIA È LO STILE: VITA E POESIA IN PASOLINI

3. Il superamento della rappresentazione elegiaca(20) della propria biografia mediante l‘adozione di uno «stile umoristico» nasce dalla necessità/impossibilità della rappresentazione della piccola

borghesia e di sé stesso come borghese. Pasolini parla, in questo periodo, della «classica forza / dell‘elegia» (TP I, 1090). Ed è possibile forse capire meglio in che senso la forza dell‘elegia sia classica se gli si accosta questo passaggio: «Siamo – noi – una delle ultime generazioni, a capire la ―natura‖, la ―vita‖ e quindi la realtà umana, nella sua accezione contadina, borghese: classica»(21). Lo stile elegiaco è stato dunque lo stile deputato alla rappresentazione autobiografica della

soggettività borghese; ma questa rappresentazione si è resa improponibile, e con essa, lo stile che le si accompagna, è ora soggetto a una nuova forma di problematizzazione.

Non è un caso che Pasolini idei un nuovo espediente di scrittura a ridosso di Poesia in forma di rosa: quello delle Ballate intellettuali. La sezione delle Ballate intellettuali «avrà un piglio meno autobiografico e parlerà di problemi oggettivi»(22). Secondo Pasolini, (Appunti per una ballata di Gadda), ecco il dispositivo della ballata:

naturalmente, nell‘intellettualismo della ballata, questo [l‘uso di un espediente eufemistico] verrebbe a essere un ingranaggio della mimesis: mimesis della mimesis: Gadda fa il verso – usando un eufemismo tipico della lingua italiana del Melzi – a un personaggio, per natura borghese, eufemizzante: e io faccio il verso a lui, Gadda, che fa il verso. Ormai l‘oggetto eufemizzante è lontano: c‘è l‘interposta persona di Gadda, monumentale, tra me e lui. Il disprezzo verso l‘eufemizzare si avvale dunque di un precedente storico: si codifica. Ormai non c‘è più dubbio che lo «zio» o il «nonno» stazionante in uno dei rami genealogici de li Accoppiamenti va disprezzato» (TP I, 1363).

Inquadrare l‘eufemismo mediante strutture di tipo metatestuale: in questo consiste quella «figura retorica del nostro secolo» di cui poco oltre si parla: «È, come dire, una codificazione documentata, pronta, per il testo normativo, coi relativi exempla: quasi quasi una figura retorica del nostro secolo, a livello massimo: mutuata da una cultura disprezzante con trauma (Gadda), a una cultura disprezzante con fede (io, miòdine)» (ivi).

Se la risorsa tipica dell‘umorismo è l‘attenuazione (cfr. TP II, 1041), la ballata intellettuale usa in chiave umoristica l‘attenuazione, la smorzatura, contro la borghesia stessa. Nelle Ballate intellettuali Pasolini deve «fare il verso» a qualcuno, un borghese. Le strutture metatestuali devono in qualche modo proteggere dal contagio delle idee e della cultura borghese.

Ora, l‘unica delle ballate intellettuali accolta in Poesia in forma di rosa è la Ballata delle madri, in cui lo speaker è Pasolini in persona: un Pasolini che, allora, fa il verso a sé stesso. È possibile che la necessità di una testualità più oggettiva in poesia, e di incorniciare gli elementi autobiografici della propria poesia in una struttura metatestuale marcata da evidenti tratti di umorismo nasca da un episodio ben preciso della biografia di Pasolini.

A dicembre del 1960, «l'Unità» pubblica un testo poetico apocrifo, attribuendolo a Pasolini. Questi prontamente risponde, dalle colonne dello stesso giornale, con un epigramma che segna una crisi della funzione mimetica(23):

Epigramma ad un ignoto

Bene, non sono inimitabile. Un colto ignoto Può imitarmi, rendendomi solo un po' sclerotico. Ma il mio imitatore borghese, che fa

Questi squisiti scherzi alla rozza Unità Sappia che chi mima lo stile mima un'anima: recitando me egli per poco è stato me. Per poco egli è stato più realista del re (lo stile è irreversibile! Vedi il borghese Wittgenstein...)

Così il colto ignoto che fa scherzi qualunquisti

Resterà per sempre marxista in questi stilemi marxisti (TP I, 1076-1077).

L‘imitazione di uno stile è imitazione di una soggettività trasfusa nel linguaggio. Una soggettività borghese, e in diretta connessione con la vita di un autore empirico.

Stile e anima, dunque. Uno stile e un‘anima che portano con sé irrimediabilmente anche i segni della propria appartenenza di classe. Mettendo a confronto Rimbaud con Saint-John Perse, Pasolini scrive: «Mentre in Rimbaud il ―farsi‖ dell'innovazione riusciva terribilmente drammatico, accadeva in corpore vili, e noi, attraverso l'elaborazione dei modi stilistici assistevamo, punto per punto, al ―deragliamento‖ di un'anima, con il St.-J. Perse, ci troviamo di fronte a un'anima già ―deragliata‖: non si sa dove, quando e perché»(24). Pare esserci la «vera vita», dietro Rimbaud: la verità di

un'anima; mentre la convenzionalità di Saint-John Perse lo rende il suo stile qualcosa di privo di vitalità.

Chi mima lo stile mima un'anima: ma che cosa sono allora stile e anima per Pasolini? Anzitutto, lo stile mette in comunicazione un'anima con una comunità sociale: come già si è visto, lo stile ha una funzione prettamente intersoggettiva. Secondo Pasolini: «il testo non vive nella solitudine di un'anima, ma vive in una cerchia sociale» (D, 255). Ma questa cerchia sociale può intervenire sul testo di un autore:

I miei romanzi e le mie poesie perdono a vista d'occhio il loro «significato», per aggiunte e falsificazioni continue, diuturne, dilaganti: per una interpretazione denigratoria portata a un grado di intensità e di ferocia mai viste. I miei testi deperiscono effettivamente, i significati delle mie parole hanno una reale depressione espressiva fino a essere quelli che la gente (intesa come massa guidata dal potere industriale e dal susseguente conformismo statale) vuole che siano (D, 255-256).

Lo stile è inscindibile da una circolazione sociale. E che in questa cerchia sociale è soggetto a due possibili incidenti: l‘imitazione e la mistificazione. Per traslato, si potrebbe dire che mimare uno stile può significare anche mistificare un‘anima.

Inimitabilità del proprio stile; volontà di autodifesa nei confronti delle mistificazioni operate dalla borghesia sui propri testi; volontà di reazione nei confronti della borghesia: si può riassumere in questi tre punti una parte dell'operazione letteraria di Pasolini nei primi anni Sessanta. Parlando di Debenedetti, Pasolini scrive:

Comincio mimando Debenedetti [...]. Perché dicevo che comincio mimando il mio oggetto? Ma perché ho cominciato con una massima da moralista. Un particolare moralista letterario, che traspone la massima agli schemi e ai meccanismi della letteratura. Il primo atto critico di Debenedetti è dunque questo. Ma prima dell'atto critico c'è la vita. E siccome la vita di Debenedetti è appassionatissima, prima deve nascondersi dietro un velo ironico di vecchio, peripatetico humour (SLA II, 2431).

L'umorismo è in rapporto, tramite la mimesi, con quella dimensione inesauribile dell'informe che è la vita. Gli strumenti di rappresentazione della vita che la tradizione ha elaborato sono borghesi. Non se ne può uscire, ma bisogna trovare il modo di trascenderli(25). Tutto il teorema stilistico costruito su Debenedetti si basa sul passaggio da categorie stilistiche a categorie vitali:

Il secondo atto critico del Nostro consisterebbe dunque nel fare un passo indietro verso la vita antecedente, sua o del poeta in esame. Ma un passo indietro moderato, ―corretto‖, nel senso che dànno gli stilcritici alla parola, dal necessario umorismo aneddotico.

Nel teorema stilistico di Debenedetti c'è un terzo passaggio, cruciale in quanto rende Debenedetti inimitabile:

Il terzo atto critico di Debenedetti è, come dire, un raffreddamento della materia, il porsi a un angolo visuale totalmente intellettuale: intellettualistico, vorrei dire. Su questo non lo mimo, neanche per scherzo, perché qui egli non è mimabile: è un modo di vedere le cose completamente originale (SLA II, 2431-2432).

Pasolini spiega che questa costruzione tripartita, al centro della quale sta l'umorismo, ha una funzione difensiva(26):

Perché in Debenedetti questo triplice atto critico così complesso, e in taluni casi così complicato? [...] Ma naturalmente, per difendersi. Perché come tutti gli uomini in cui la passione è traboccante, Debenedetti è un uomo inerme. E allora deve difendersi (SLA II, 2432).

Un triplice atto: per conservare all‘interno della propria scrittura un nucleo di soggettività e al contempo renderlo inimitabile – imprendibile – e non mistificabile. In riferimento a Anna Banti, Pasolini scrive: «La letteratura della Banti, dai primi racconti alle Mosche d'oro, mantiene sempre intatto quell'eretto, crudele, lucidissimo amore per lo stile: possedere cioè quel tanto di misterioso, di specifico, di imprendibile, che non potrà mai essere mistificato e lanciato al consumo. Lasciatemi

reiterare: l'unica protesta contro l'industrializzazione dello stile è lo stile» (SLA II, 2422). Non si può scrivere l‘autobiografia così com‘è, pena la mistificazione: bisogna trasfonderla nello stile. 4. Proprio Anna Banti, in una sua recensione a Una vita violenta, aveva asserito:

Pasolini racconta col linguaggio medesimo dei suoi protagonisti, confondendosi con loro, sforzandosi di entrare nei loro panni, forse per non tradirne le loro ragioni. [...] in altre parole, per cancellare il proprio io di narratore colto e civile – e dunque per eccesso di generosità obiettiva – il Pasolini finisce per negare talvolta ai suoi eroi la sua partecipazione personale.(27)

Parlare la lingua dell‘altro, fino all‘annullamento:

Chi è questa terribile creatura [scil.: il protagonista di Un capitano a riposo] che non conosce altra alternativa di linguaggio che le due lingue dei suoi superiori? La lingua che essi pretendono per essere interpellati e quella che concedono per essere rabboniti? Certo è una creatura inconoscibile , almeno attraverso i suoi mezzi linguistici: essa non può mai pronunciare una parola sua: ciò le è metafisicamente impedito, del tutto identificata com'è nelle due concomitanti monomanie espressive. Al di fuori di esse, non c'è altra possibilità di esistenza: l'immersione totale nell'anonimato (SLA II, 2425).

Non c‘è scampo: tutto Pasolini sembra obbedire a una dialettica tra una pulsione all‘anonimato e all‘immedesimazione, e esibizione di un nocciolo irriducibile di soggettività. Resta che a consentire la realizzazione di entrambi gli estremi dialettici ci sono le categorie linguistico-stilistiche, dotate di una funzione euristica, che consentono di tradurre in elementi empiricamente rilevabili i connotati di una personalità.

Un piccolo borghese di orientamento fascista viene definito, in relazione con il concetto di tautologia di Barthes, un «fatto umoristico» (D, 156); altrove un borghese o un comunista vengono definiti come qualcosa di «totalmente irreale, un caso di patologia dello spirito». Se lo stile è un dato intersoggettivo, è tanto più funzionale ed efficace quando consente l‘attraversamento delle frontiere tra le classi sociali, tanto più arido e irreale – «la follia fatta norma» (D, 155) – quando resta confinato nel perimetro del proprio censo. Pasolini prova a descrivere nel dettaglio e in un colpo solo l‘ontologia sociale e la disposizione psicologica su cui riposa questa dimensione stilistica. Si direbbe che la biografia individuale ne sia il prodotto diretto. Secondo Pasolini, «il regime di Mussolini non avrebbe potuto reggere per tanti anni se la stampa e la radio non avessero potuto contare su un numeroso gruppo di persone simili all‘autore di questa lettera» (D, 155). Pasolini descrivendo il suo interlocutore in questi termini:

il nostro uomo […] era alle origini un dannunziano (ossia un decadente provinciale con la testa piena di prosa d‘arte […]); il secondo gradino ideale era la trasformazione di tale titanismo sedentario e scolastico in smania d‘azione […]; il terzo gradino… E qui bisogna ricordare che il piccolo-borghese italiano ha come caratteristica principale, insieme alla sete di servilismo, la paura del ridicolo […]. il terzo gradino è dunque una ―correzione‖ […]. un po‘ di vivacità stilistica, un po‘ di umorismo […] rettificano con una serie di correzioni eufemistiche e riduttive (D, 156-157).

Curioso: tutte le operazioni stilistiche che producono soggettività sono tripartite, forse per l‘affanno di spiegare un soggetto in ultima analisi sempre irriducibile alla ragione:

Nell‘operazione stilistica c‘è qualcosa che non so spiegare, e devo ripiegare quindi alle tautologie dell‘irrazionale. [...] Fatto sta che quando sento l‘ispirazione a scrivere (e si sente, si sente, questa maledetta ispirazione, dalla tinta così romantica, così irrazionalistica, così reazionaria!) provo un forte impulso a essere sincero, malgrado tutto, contro tutto (D, 229).

La tautologia contrassegna dunque anche Pasolini; ma l‘inconoscibilità della radice ultima di questa ispirazione resta comunque sottomessa alla storia (è reazionaria) e in qualche modo storicizzabile: «L‘ispirazione consiste in un atto critico che verifica di continuo la realtà storica nelle sue contraddizioni vere e apparenti» (D, 230). Ancora nel 1962: «Nel mio lavoro – pur con tutte le contaminazioni e le colorazioni dovute alla mia formazione, che ha contrassegnato per sempre la

mia irrazionalità, la docile materia del mio inconscio – c‘è un assoluto bisogno di tradurre in termini razionali anche le più sottili forme di ispirazione» (D, 315).

5. Tutta una serie di categorie che hanno a che fare con la dimensione della soggettività si