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Il racconto di Ulisse

il vento cadde. Allora ognuno attese con lo sguardo il bianco delle creste mobili di schiuma e il grido

dei delfini

quando le loro schiene lucide tornarono a solcare veloci spume e il vento

fischiò coi loro acuti ero lontana

galleggiavo a largo delle voci, ero lontana

torna, gridavano i compagni, la vela è gonfia, la nave

riprende a navigare! ma io galleggiavo a faccia in giù, dentro lo specchio immobile del cielo

galleggiavo muta, a largo delle voci, né più volevo navigare: anche le verdi bestie che adorano col canto

i misteri orizzontali della fine, anche le sirene temono l‘incanto

delle acque in cui non si discende perché le onde non vincono il silenzio perché il canto

delle sirene è verde, ma più verde è il giardino

d‘acqua in cui si perde

*

Ballata della follia della madre

questo è il tempo della follia della madre

il tempo della madre che non china la testa ma cammina

sola portando nella testa tre cose: se

stessa, la sua solitudine e sua figlia

la madre che non china la testa e si allontana mentre una donna ignota culla la figlia che lei

lascia

la madre che non china la testa e porta

nella notte una solitudine di figlia e si risveglia ogni mattina nel mondo per combattere

la madre difende, spara, culla, torna non volendo tornare e va ma piange perché vuole restare

la madre si guarda, a sera, impazzire piano piano e giocare con le bende per coprire

alla vista le tre cose che tornano a ferirla sulle spalle con quel loro peso di fantasmi: lei

stessa col vuoto di quando era bambina e poi il cammino sul lungo ponte dei bambini

soli fino a sua figlia che si sporge: correre da lei prima

*

Paesaggio con madre

la violenza del bianco, il destino della pioggia, la lotta tra le cose e il loro nome: tutto il silenzioso fragore che il mondo

oppone ad ogni comprensione è fermo magnifico lontano

dall‘alto il mare uccide ogni tempesta nel silenzioso fragore

del respiro

dorme disteso e il suo respiro d‘acqua si placa nella massa bruna

della montagna come un piccolo figlio al seno della madre

*

Genesi

In principio lo spirito di dio era sull‘abisso in cui cantavo ed egli non discese, solo mi prese ed era forte la sua mano e dura poiché mi separò dalla mia voce

la voce era l‘abisso su cui dio volava perdendosi

ubriacandosi nel nero del cielo chiuso a cono e là inguainandosi ferendosi afferrandosi punendosi con la sua dura mano

gridava di dolore ed era un canto

corona, angeli in coro e rose e spine

era suo il canto ferito come carne

dalle spine

la mano di dio era l‘abisso della voce da secoli finita

da secoli ubriacata da secoli rinchiusa

nell‘infinito nero chiuso a cono dalle mani

e non è forse dio questo infinito cadere dentro il nero che chiude e spranga nella sua gola mistica ogni voce

non è forse dio questo infinito canto reciso che colpisce muto per

recidere ogni voce

non sono forse io questo sorriso invisibile che vola come nel nero il canto d‘una voce sola si leva e trema

e cade e danza ed è una madre

stanca che piange e consola

non è forse mio questo canto finito che cantando congiunge inizio e fine

*

Le acque del mondo (madre e figlia)

meglio restare sulle cime della notte guardando il mondo che riposa e non svegliarlo stringendo la tua mano, piccolissima figlia

meglio non conoscere le acque dolcissime del mondo dove si scende nudi e si sopporta il vento dove ogni filo

d‘erba splendente che accarezza la pelle taglia e la sua forza

non conosce scudi

meglio non chiedersi se umano è il sorriso con cui accogli la mia mano, piccolissima figlia, e ogni mano

che ti stringe, sia tradimento o gioco o trappola o battaglia

tu mi costringi a ricordare ciò che sa il buio

della bocca e che rimane da secoli muto nell‘arco palatale: che insensata e breve è la canzone della terra, tanto quanto leggera e chiara la luce posa sul crepuscolo ed illude con quel rosa le case ormai già

scure

il tuo viso è il rosa della luce sul nero delle case dove il giorno dura

come una beffa o un gioco della sera eppure

piccola, abbandonata come un fantoccio oscuro nel chiarore, la notte aspetta di riconoscerci chiamandoci per nome * Nella terra Al crepuscolo cantare e piangere: tutte

le parole vanno nella terra sazia di visioni

ma tutte

le parole erano già

per l‘attesa, per il volo e la caduta e quando il nero

si è rovesciato dentro ogni vertigine e si è lasciato vincere dal peso dell‘unico suono che tace nel rifiuto di se stesso, allora anche

il tempo ha scoperto la sua testa velata, di fiume

senza nascita

anche il tempo si sveste per cadere dove tutte le parole sono nere

dove la vertigine rovescia il proprio sonno in risveglio e tessitura del grande

nuovo ordito della luce: legioni d‘angeli e d‘insetti che sguainano ali azzurre ed abitano

il sole nella cecità bianca delle nubi non sono che un ricamo cresciuto nel buio sotto

dita nere

Notizia.

Sonia Gentili è docente universitaria (Sapienza università di Roma) e saggista (ultimo volume

apparso: Novecento scritturale. La letteratura Italiana e la Bibbia, Carocci editore, 2016) e poetessa (L'impero e la Gorgone, Perrone editore, 2007; Parva naturalia, Aragno editore, 2012). È risultata supervicitrice del premio Viareggio 2016 e del premio Pisa con la sua terza raccolta di poesia (Viaggio mentre morivo, Aragno editore), finalista anche al premio Frascati e al premio Fiumicino. Collabora col quotidiano ―Il Manifesto‖.