L’economia del coltan rappresenta un case study di fondamentale rilevanza nell’ambito dell’analisi geopolitica del conflitto che caratterizza la Repubblica Democratica del Congo da ormai due decenni. Il voler comprendere le dinamiche alla base della situazione attuale nell’est del Paese infatti implica necessariamente il dover considerare tutto ciò che il “fenomeno coltan” ha determinato.
Come abbiamo visto, sul finire degli anni Novanta, nel pieno della cosiddetta Guerra mondiale africana, il boom del prezzo del coltan sul mercato internazionale ha scatenato una vera e propria corsa al suo accaparramento sia da parte della popolazione civile che dei gruppi armati di ogni schieramento, fornendo così agli uni un’occupazione e agli altri un’immane fonte di finanziamento per la prosecuzione della propria ribellione. In effetti il controllo sulla produzione e sul commercio della columbite-tantalite non solo ha permesso a tutti i belligeranti, esercito regolare compreso, di disporre delle risorse finanziarie necessarie per l’acquisto di materiale bellico e di beni di primaria necessità per la sussistenza dei soldati e dei minatori, ma li ha anche dotati di un potere contrattuale tale da riservare loro una posizione di forza nelle relazioni con i vari interlocutori politici e con gli uomini d’affari di tutto il mondo. Del resto, sebbene non si tratti del primo conflitto nel quale le risorse naturali hanno svolto un ruolo preminente e sebbene il coltan non rappresenti l’unico minerale la cui commercializzazione arricchisce le élite politico-militari del Paese, esso si differenzia sicuramente dalle altre materie prime soprattutto in termini di importanza per molti settori industriali, come quello della difesa e dell’high tech, e dunque in termini di appetibilità per molte pedine dello scacchiere congolese. La trasformazione delle risorse naturali in beni commerciabili ha poi innescato un processo di profondo cambiamento anche sul piano dei modelli locali di relazioni sociali ed economiche, riarticolando i legami fra reti economiche ed identità, e facilitando la formazione di nuovi centri di potere e protezione. Pertanto, anche a livello locale, la guerra è diventata un modo per creare un sistema alternativo di profitto, potere e difesa, il tutto a discapito del rafforzamento di uno stato di diritto ormai del tutto incapace di detenere il monopolio della forza e di esercitare la sovranità sul proprio territorio. Nel corso degli anni la febbre di coltan ha provocato
125 un sovvertimento nella gerarchia delle cause del conflitto, tale per cui alle rivendicazioni di stampo politico ed etnico si sono affiancate, con forza sempre maggiore, delle strategie belliche improntate allo sfruttamento di miniere e di traffici commerciali. Nello stesso modo in cui il conflitto congolese non è etichettabile come “pura guerra per il tantalio”, è evidente come la lotta per il controllo di questo minerale si sia tradotta in un forte inasprimento della guerra, e costituisca dunque una delle motivazioni principali della sua prosecuzione. Agli occhi dei capi dei gruppi ribelli, dei comandanti delle FARDC e dei governi degli Stati da sempre coinvolti nel conflitto, il coltan è passato dall’essere un mezzo di scambio particolarmente redditizio per ottenere armi e finanziamenti, all’essere il fine stesso dell’occupazione delle province orientali e della perpetuazione delle ostilità. Anche se la spoliazione delle risorse naturali non è stata la prima causa del conflitto, essa alla fine ha finito per assumere la stessa rilevanza delle altre motivazioni e, spesso, anche per prevalere. Lo dimostrano, ad esempio, la modalità con cui l’attività di sfruttamento si è evoluta da semplice saccheggio a filiera produttiva ben strutturata, nonché le varie motivazioni che spingono persone comuni ad affiliarsi ad un gruppo armato, sempre più dettate dalla volontà di cercare un’occupazione remunerativa e una forma di protezione militare, piuttosto che dal senso di appartenenza ad un’etnia o per sostenere una causa politica. La corsa al coltan in sostanza ha contribuito all’approfondimento e alla “mercificazione” del conflitto, alla sua perpetuazione a fini economici e commerciali.
Tuttavia, nonostante sia lapalissiano come quello congolese sia un caso in cui i fattori economici alimentano la violenza, che a sua volta alimenta i fattori economici, occorre sottolineare la limitatezza di una lettura della situazione nazionale e regionale circoscritta alla guerra di stampo economico. Un’analisi completa del conflitto nella regione dei Grandi Laghi comporta necessariamente l’osservazione della realtà a partire dalla considerazione di molteplici tematiche che vanno dalla lotta per la terra e per il potere politico, allo scontro etnico, fino alla competizione per la leadership politica regionale e per il controllo geopolitico delle terre e delle risorse, in uno scenario che si inserisce fra un passato coloniale e un presente imperialista. Su un piano più prettamente locale è indubbio il peso del problema etnico, che ha visto contrapporsi indistintamente etnie autoctone ed alloctone soprattutto attorno alla questione della redistribuzione delle terre. A partire dalle politiche coloniali e mobutiste in materia, l’etnia ha sempre rappresentato una pre-
126 condizione per l’accesso alla proprietà fondiaria, escogitata ad hoc dai vari governi sia al fine di camuffare la scarsità di terre in una zona, come quella kivutiana, ad alta densità abitativa, sia per fornire alla politica un elemento su cui far leva per spostare consensi ad ogni tornata elettorale. Attraverso questo incessante processo di “etnicizzazione”, Mobutu prima e i Kabila dopo non hanno fatto altro che rendere fertile il terreno della guerra, gettando le basi per una società profondamente divisa e segnata da dinamiche di odio atavico. Il genocidio ruandese e il relativo fenomeno dei profughi hutu e tutsi rifugiatisi in Congo hanno poi aggravato la situazione, accrescendo il problema della condivisione degli spazi e inasprendo i toni politici e sociali, senza dimenticarci di come abbiano fornito ai Paesi limitrofi, in particolare Ruanda e Uganda, il cavallo di Troia per poter intervenire nel Congo orientale. È in questo modo che le problematiche etniche e le opportunità economiche locali hanno assunto una dimensione internazionale, formando così un corridoio d’ingresso di cui si sono serviti, negli anni, gli Stati africani e i rispettivi padrini occidentali. Nonostante la guerra si sia formalmente conclusa nel 2003 con il ritiro degli eserciti stranieri e la formazione di un governo di transizione inclusivo anche degli esponenti dei gruppi ribelli, ad oggi la situazione nel Congo orientale è tutt’altro che pacificata e le tracce dell’ingerenza delle potenze estere nel Paese è ben visibile da più punti di vista. Considerando lo scacchiere regionale possiamo notare come Ruanda e Uganda assumano una posizione preminente nel gioco delle parti che lega la continua formazione di gruppi armati con gli interessi e le problematiche di questi Paesi. L’esempio più eloquente è costituito dalla presenza delle Forces démocratiques de
libération du Ruanda (FDLR), le milizie hutu ruandesi, fra cui molti ex-genocidiari,
che da anni costituiscono una forte minaccia sia per i tutsi residenti in Congo, sia per il governo di Kigali, il cui obiettivo e alibi per la sua ingerenza in Kivu è quello, appunto, di annientarle. Analogamente il gruppo armato Allied Democratic Forces -
National Army for the Liberation of Uganda (ADF-NALU) minaccia il governo di
Museveni e porta avanti, a partire dalle sue basi in Nord Kivu, il progetto di trasformare l’Uganda in uno stato islamico1. Le profonde ferite lasciate dal turbolento passato politico in questi due Paesi costituiscono ancora oggi un fattore di destabilizzazione per tutta la regione dei Grandi Laghi e il loro risanamento dovrebbe essere posto alla base di un processo di pace efficace. In realtà tale situazione risulta maggiormente complicata dal momento in cui queste lotte di stampo politico si
127 mischiano in maniera profonda con gli interessi legati al commercio delle risorse naturali, il cui controllo permette a ciascun attore di sopravvivere e portare avanti le proprie rivendicazioni. Pertanto accade che in risposta a certe provocazioni, gli Stati limitrofi decidono di sponsorizzare la formazione, nello stesso Congo, di gruppi armati in grado di opporvisi, una sorta di “proxy militias”2 attraverso le quali interferire da lontano (come nel caso del Mouvement du 23-Mars). D’altro canto certe “persone di fiducia” rappresentano per Ruanda e Uganda i portavoce dei loro interessi economici e commerciali in loco, degli interlocutori indispensabili affinché il coltan e gli altri minerali congolesi continuino a transitare indisturbati attraverso Kigali e Kampala con enormi guadagni per le rispettive economie. Le relazioni economiche e commerciali fra il Congo orientale e gli altri due Paesi sono comunque biunivoche, in quanto parallelamente al fatto che il Congo procura la quasi totalità di minerali che il Ruanda poi esporta all’estero, quest’ultimo soddisfa una immane fetta di fabbisogno alimentare rifornendo i mercati di Goma e Bukavu di beni di prima necessità, i quali a loro volta provengono in larga parte da Uganda e Kenya3. Pertanto si può parlare di una stretta interdipendenza fra questi Stati, la quale tende a proiettare certe zone della RDC verso est, in una scissione sempre più marcata fra la capitale politica (Kinshasa) e il centro nevralgico degli interessi della popolazione. In aggiunta ai flussi commerciali, l’estrema importanza delle province orientali è intrinsecamente legata anche alle esigenze più strettamente geopolitiche dei Paesi limitrofi. Esercitare un controllo sul Kivu significherebbe non solo assicurarsi un facile approvvigionamento di materie prime, bensì anche poter fare pressione affinché gli esponenti dell’etnia tutsi possano prevalere nell’agone politico locale. Non dimentichiamoci infatti che i tutsi sono al governo in Ruanda da ormai venti anni, mentre Museveni deve gran parte del suo successo politico ai tutsi congolesi e ruandesi che lo sostennero nella sua ascesa al potere nel 19864. Un Congo orientale tutsi da un lato permetterebbe a questi due Stati di risolvere l’annoso problema dell’insicurezza dei confini, minacciati continuamente dai gruppi hutu e da altri oppositori politici, dall’altro aprirebbe loro dei canali preferenziali per la fornitura dei minerali e di altre materie prime. Più in generale trasformare l’est della RDC in
2 R. M. Bihuzo, Unfinished Business: A Framework for Peace in the Great Lakes, Africa Center for
Strategic Studies, n. 21, luglio 2012, p. 6, http://africacenter.org/wp- content/uploads/2012/08/AfricaBriefFinal_21.pdf.
3 http://www.lindro.it/politica/2014-05-05/128035-congo-rwanda-uganda-la-crisi-si-aggrava.
4 http://afrique.kongotimes.info/afrique/afrique_est/ouganda/5361-soutient-m23-allemagne-gele-aide-
128 una zona di propria influenza equivarrebbe ad assumere una posizione di forza all’interno del concerto delle potenze regionali, e, parallelamente, godere di questa condizione permetterebbe ai Paesi dei Grandi Laghi di dialogare con l’occidente possedendo un maggiore potere contrattuale. Quest’ultima è una necessità non trascurabile di due Paesi, come Uganda e Ruanda, che stanno acquisendo sempre maggiore rilevanza nell’arena politica africana, sia in termini di leadership regionale (in competizione con un Sudafrica che fa sempre più affari in Kivu) sia per ciò che concerne il loro status di partner commerciali e interlocutori politici dell’occidente. Entrambi i Paesi partecipano attualmente a numerose operazioni di peace-keeping in zone critiche come la Somalia, il Sud Sudan ed oggi la Repubblica Centrafricana5, offrendo un irrinunciabile apporto di uomini e mezzi, e svolgono un compito fondamentale nei traffici illeciti di coltan e di altre materie prime di cui poi godono le industrie estere. Pertanto un Uganda e un Ruanda forti sono indispensabili tanto per la stabilità dell’Africa centrale, quanto come baluardo degli interessi geopolitici occidentali nella regione dei Grandi Laghi. In quest’ottica negli ultimi mesi abbiamo assistito ad un riavvicinamento fra Francia e Ruanda, dopo che, in occasione delle commemorazioni per il ventennale del genocidio ruandese, Kagame aveva accusato Parigi di non voler riconoscere le proprie responsabilità nella vicenda6; mentre può ritenersi pressoché superata la crisi che portò numerosi padrini occidentali, in primis Stati Uniti e Unione europea, a sospendere i finanziamenti a questi due Stati poiché sostenitori del M237. In fin dei conti, attualmente l’Eliseo è già impegnato in Africa su due fronti caldi, quello del Mali e quello della Repubblica Centrafricana, pertanto l’eventualità di doversi confrontare con ulteriori crisi lo hanno spinto a stringere nuove alleanze e a riallacciare quelle vecchie. Al contempo gli Stati Uniti sottolineano con forza l’importanza di sostenere lo sviluppo della democrazia, la promozione dei diritti umani e della pace nella regione dei Grandi Laghi, riponendo la loro fiducia anche nel passaggio di consegne avvenuto a inizio 2014 fra Uganda e Angola alla presidenza della Conferenza internazionale della regione dei Grandi
5 http://amisom-au.org/mission-profile/military-component/,
http://www.un.org/en/peacekeeping/missions/unmiss/facts.shtml, http://rwandaun.org/site/un- peacekeeping/.
6 Rencontre Kagamé-Fabius à Libreville pour règler la crise franco-rwandaise, in “Le Point”, 23
maggio 2014, http://www.lepoint.fr/politique/rencontre-kagame-fabius-a-libreville-pour-regler-la- crise-franco-rwandaise-23-05-2014-1827153_20.php.
7 P. Bouvier, J. Omasombo Tshonda, N. Obotela Rashidi, RDC 2012: la fracture?, in S. Marysse e J.
Omasombo (sotto la direzione di), Conjonctures congolaises. Politique, secteur miniere t gestion des
129 Laghi (CIRGL)8. Dal canto suo Kabila sta cercando di ingraziarsi le potenze occidentali, in particolar modo quella francese, con l’obiettivo di trovare appoggio nel suo tentativo di revisione costituzionale che gli permetterebbe di potersi candidare una terza volta alle elezioni presidenziali previste per il 2016; tentativo ostacolato dagli Stati Uniti, che hanno chiesto apertamente al presidente congolese di rispettare la costituzione vigente e di non gettare benzina sul fuoco del malcontento nazionale9. D’altronde anche Washington si trova ad affrontare già numerosi altre questioni nel continente africano, come la minaccia del terrorismo di matrice islamica che caratterizza gran parte della fascia sahariana-saheliana, mentre la RDC non rientra nelle sue priorità e non è nel suo interesse che ci sia un ulteriore inasprimento delle tensioni fra i Paesi della regione dei Grandi Laghi10.
In che modo dunque può essere spiegato il persistere del conflitto nel Congo orientale se, al contrario, più voci si sono levate in favore del raggiungimento di una certa stabilità nella regione dei Grandi Laghi? Per rispondere a tale quesito occorre fare una precisazione sul tipo di stabilità ricercata. Ciò che interessa oggi agli Stati africani e ai rispettivi partner occidentali è un certo grado di distensione nelle relazioni internazionali fra questi attori e la Repubblica Democratica del Congo, poiché altrimenti la minaccia di un ritorno alle armi potrebbe concretizzarsi in qualsiasi momento. Altra cosa è invece la mancanza di stabilità e ordine all’interno della RDC, e in particolare in quelle zone oggetto di interessi economici e politici trasversali. Analizzando la situazione ad un livello nazionale, la responsabilità maggiore del caos che impera in Kivu è da addossare alla debolezza del governo congolese, del tutto incapace di esercitare il proprio potere sovrano nelle remote province orientali, e di mantenere salde le redini di un esercito allo sbando. Una debolezza che si confonde con le caratteristiche tipiche di un rentier state, segnato da corruzione, clientelismo, politiche repressive ed un altissimo livello di diseguaglianza e conflittualità sociale, insieme alla deliberata volontà politica di mantenere uno status quo che permette alle élite di rimanere al potere ed arricchirsi. Del resto mantenere le popolazioni dell’est in uno stato di minorità economica,
8 http://www.fondation-fhb.org/index.php?nom=news&id=4343.
9 http://afrikarabia.com/wordpress/rdc-a-paris-joseph-kabila-joue-la-carte-centrafricaine/.
10 Laura Seay, La politique américaine en RDC est une question d’intérêts et non d’alliés, 29
novembre 2013, http://www.opendemocracy.net/openglobalrights/laura-seay/la-politique- am%C3%A9ricaine-en-rdc-est-une-question-d%E2%80%99int%C3%A9r%C3%AAts-et-non- d%E2%80%99alli.
130 politica e culturale lascia ampio spazio di manovra non solo al presidente di turno, bensì anche a tutti quei Paesi e multinazionali che traggono enormi profitti dall’estrazione e dal commercio illegali di coltan e altre risorse. Infatti il punto focale del persistere delle ostilità in questa ricca parte di Congo risiede proprio nel fatto che questa condizione di conflittualità e illegalità radicata offre il terreno ideale per coltivare gli interessi economici delle multinazionali e dei Paesi dai quali questi minerali transitano. Fare affari con i capi dei gruppi ribelli o con i comandanti delle FARDC dislocate sul territorio, completamente avulsi dal controllo di Kinshasa, permette alle industrie di acquistare il coltan a prezzi inferiori e di usufruire di percorsi commerciali più snelli e meno burocratizzati. Secondo il parere di alcuni studiosi, quella attuale sarebbe addirittura una situazione ideale per le corporation del settore minerario, in quanto esse possono tranquillamente impegnarsi nella sottoscrizione di contratti a lunga scadenza volti all’acquisto di minerali australiani o sudamericani, in modo da soddisfare il segmento stabile di clientela, ma, al tempo stesso, ricorrere allo spot market del coltan congolese per rispondere a variazioni improvvise nella domanda-offerta di questa materia prima, così da essere sempre al passo con le esigenze del mercato11.
L’importanza della columbite-tantalite per un grandissimo numero di settori industriali in continua espansione e la sua valenza di minerale strategico per molte potenze occidentali e asiatiche hanno posto questo minerale al centro dell’economia di guerra che ha interessato la Repubblica Democratica del Congo a partire dalla fine degli anni Novanta. Il suo ruolo principe all’interno della “gerarchia” delle cause e delle motivazioni della guerra ha fatto sì che, nel corso degli anni, l’agenda economica assumesse pari importanza rispetto a quella politica e militare, fino a rappresentare molto spesso la vera posta in gioco dello scacchiere centrafricano. Il genere di estrazione e commercio che lo caratterizza ha portato all’emergere di un sistema estremamente congeniale alle esigenze di finanziamento dei gruppi armati, i quali ne traggono una forza tale da riuscire a porsi agli occhi della popolazione locale e degli attori esterni come gli interlocutori principali cui fare riferimento. Così il fenomeno coltan ha portato ad un cambiamento profondo dell’assetto economico e del tessuto sociale di un’intera regione, e ha innescato una trasformazione del
11 D. de Failly, Coltan: pour comprendre, in in S. Marysse, F. Reyntjens (sotto la direzione di),
131 conflitto congolese che vede tutt’oggi gli interessi politici, economici e strategici confondersi l’un con l’altro in un perpetuarsi di tensioni che mina alla base qualsiasi processo di pace. Nel tentativo di comprendere lo scenario geopolitico della Repubblica Democratica del Congo e la relazione che sussiste fra l’estrazione del coltan e il perdurare del conflitto nella parte orientale del Paese possiamo affermare con sicurezza che questo minerale rappresenta un caso emblematico in cui la bramosia di risorse naturali ha esacerbato il risentimento etnico e lo scontro politico.
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