CONGO
Il paradosso della povertà in un Paese ricco di materie prime
Con più di 1100 sostanze minerali catalogate, la Repubblica Democratica del Congo possiede uno dei più importanti potenziali minerari del mondo: dispone del 10% delle riserve di rame e di un terzo delle riserve di cobalto conosciute al mondo, mentre si posiziona al terzo posto nella classifica mondiale di produttori di diamanti in volume1. Considerando l’arco geografico che va da sud a nord-est, passando lungo il confine orientale del Paese, troviamo i giacimenti diamantiferi della provincia del Kasai, le miniere di rame, cobalto e uranio in Katanga, quelle di stagno e coltan del Kivu e, infine, i depositi auriferi della regione dell’Ituri e della provincia Orientale2. Nel settembre 2010 il sito www.mediacongo.net, riprendendo un articolo pubblicato sulla rivista londinese New African, ha fornito una stima del potenziale minerario congolese collocandone il valore intorno ai 24.000 miliardi di dollari statunitensi, vale a dire una cifra corrispondente al PIL dell’Europa e degli Stati Uniti insieme3. A ben vedere si tratta di un articolo poco affidabile o, quanto meno, approssimativo, ma che, proprio per questo, ci fa ben capire quanto, in realtà, tali riserve naturali siano ben lontane dall’essere perfettamente conosciute, cosa che conduce talvolta a delle stime fantasiose. Ad oggi, tutte le pubblicazioni disponibili circa la portata del sottosuolo congolese si basano in larga parte su delle vecchie estimazioni o su fonti poco sicure, anche perché, come vedremo meglio in seguito, la forte presenza di attività estrattive informali non permette una valutazione del tutto realistica e, inoltre, i dati che le compagnie minerarie forniscono ai propri azionisti sono spesso più ottimisti rispetto alla realtà4. Ad esempio, secondo un report del ministero degli
1 Strategico, République démocratique du Congo 2008, Notes de conjonctures, Paris, L’Harmattan,
2007, p. 97.
2 P. Jacquemot, L’économie politique des conflits en République démocratique du Congo, in “Afrique
contemporaine. Afrique et développement”, n. 230, Paris, Ed. de boeck, 2009, p. 190.
3 Les potentialités minières de la RDC évaluées à 24 mille miliards USD,
http://www.mediacongo.net/show.asp?doc=16201.
4 T. De Putter, S. Decrée, Le potentiel minier de la République démocratique du Congo. Mythes et
32 Affari Esteri italiano, nel 2010 in Congo sono state prodotte 497.537 tonnellate di rame, 97.693 tonnellate di cobalto, 9.223 tonnellate di zinco, 16.800.000 carati di diamante e 178 kg di oro, dati eloquenti, ma che comunque non considerano il contrabbando di tali prodotti verso Ruanda, Burundi e Uganda5. In ogni caso, possiamo affermare con certezza che il settore minerario costituisce, fin dall’epoca coloniale, la punta di diamante dell’economia congolese e, attualmente, contribuisce per il 28% al PIL nazionale, mentre i suoi prodotti rappresentano il 70% del valore totale delle merci esportate all’estero6. La ricchezza e l’eterogeneità del suolo e del sottosuolo congolesi, che vanno a sommarsi alla presenza di un bacino idrografico e di una foresta tropicale fra i più grandi al mondo, indussero il geologo belga Jules Cornet a parlare della disponibilità di materie prime del Paese in termini di “scandalo geologico”, proprio a sottolinearne l’inedita abbondanza. Ma osservando la Repubblica Democratica del Congo, ieri come oggi, risulta evidente la situazione paradossale per cui un Paese così ricco di materie prime sia anche uno degli Stati più poveri al mondo, caratterizzato da un Indice di sviluppo umano che, nel 2013, lo ha fatto posizionare ultimo nella classifica mondiale7. Intorno a questo paradosso, peraltro riscontrabile in numerosi altri Stati dell’Africa sub-sahariana, è stata enunciata la tesi della “maledizione delle risorse naturali”, secondo la quale i Paesi dotati di abbondanti ricchezze naturali presentano dei tassi di crescita economica mediocri in confronto ai Paesi meno forniti8. A partire dagli anni Novanta, quando appunto alcuni studiosi iniziarono ad osservare che la grande disponibilità di materie prime può configurarsi più come una maledizione che come una benedizione, sono state avanzate numerose ipotesi e fornite spiegazioni sulle possibili cause di tale fenomeno, alcune delle quali possono essere riscontrate all’interno della RDC. Anzitutto è necessario far riferimento, parlando del Congo, alla categoria del rentier
state, vale a dire di uno Stato che trae gran parte del proprio reddito nazionale dalla
vendita all’estero delle proprie risorse naturali, che, quindi, non ha come primaria necessità la costruzione di un settore produttivo interno, e la cui classe dirigente è la
Conjonctures congolaises. Politique, secteur minier et gestion des ressources naturelles en RD Congo, Paris, Cahiers Africains n. 82, L’Harmattan, 2013, pp. 48-50.
5 Ambasciata d’Italia-Repubblica Democratica del Congo Direzione Generale per la Promozione del
Sistema Paese (a cura di), Repubblica Democratica del Congo, www.infomercatiesteri.it, 2013.
6 http://mines-rdc.cd/fr/index.php?option=com_content&view=article&id=53.
7 La RDC si trova, insieme al Niger, al 186/186 posto,
http://hdr.undp.org/sites/default/files/reports/14/hdr2013_en_complete.pdf.
8 F. Kabuya Kalala, T. Mbiye, Ressources naturelles, gouvernance et défis d’une croissance soutenue
en Rdc, in S. Marysse, F. Reyntjens e S. Vandeginste (sotto la direzione di), Afrique des Grands Lacs. Annuaire 2008-2009, Paris, L’harmattan, 2009, pp. 141-142.
33 principale beneficiaria della suddetta rendita9. In effetti, in Congo, i cospicui introiti derivanti dall’esportazione di minerali e altre materie prime, come il legname, sono da sempre concentrati nelle mani dell’élite al governo e della ristretta cerchia di persone che la circonda, mentre il resto della popolazione ne resta tagliato fuori, anche perché il settore estrattivo impiega poca manodopera rispetto ad altri settori lavorativi, come ad esempio l’agricoltura. Inoltre, i governanti, alimentando le dinamiche di clientelismo e corruzione, sfruttano tali introiti per mantenersi al potere, anziché investirli in politiche economiche e di sviluppo a vantaggio dell’intero Paese;; del resto, la provenienza esterna del reddito nazionale riduce, da parte dello Stato, la necessità di tassare la popolazione, per cui viene a mancare quel legame di responsabilità reciproca, una sorta di do ut des, tale per cui determinati servizi pubblici (scuola, sanità, ecc.) vengono offerti in ragione di un certo prelievo fiscale10. Inoltre, è verosimile pensare che un’élite politica che beneficia a tal punto di certi redditi abbia interesse a che la popolazione rimanga in uno stato di minorità, sia economica sia culturale e politica, in modo tale da non creare quelle condizioni che porterebbero al sovvertimento dello status quo e che, quindi, minerebbero le basi del suo stesso potere. Per di più, laddove dovesse emergere con forza il malcontento popolare, la disponibilità di denaro derivante dall’esportazione di minerali fornirebbe, ancora una volta, al governo la possibilità di ovviare al problema, permettendogli di finanziare certe pratiche repressive11. Infine esistono anche delle spiegazioni di ordine più prettamente economico circa la correlazione fra abbondanza delle risorse naturali e scarso sviluppo interno. Anzitutto, i prezzi delle materie prime quotate in borsa subiscono delle continue fluttuazioni, che, inevitabilmente, rendono i relativi redditi nazionali altrettanto volatili, così da determinare un certo grado di incertezza e vulnerabilità nelle economie dei Paesi di origine di tali prodotti. Altro fenomeno degno di nota è quello conosciuto con il nome di “sindrome olandese”: l’entrata di moneta straniera, a seguito delle esportazioni di materie prime, conduce ad un aumento del valore della moneta nazionale e ad un apprezzamento del tasso di cambio, così le merci importate da altri Paesi risultano meno care e i settori nazionali che producono o potrebbero produrre i
9 H. Beblawi, G. Luciani (a cura di), The Rentier State. Nation, State and Integration in the Arab
World vol. 2, London, Routledge, 1987, pp. 49-62.
10 M. Moore, S. Unsworth, How Does Taxation Affect the Quality of Governance?, Tax notes
international, volume 47, n. 1, Institute of Development Studies, 2 luglio 2007, http://www2.ids.ac.uk/gdr/cfs/pdfs/TNI-47-1-Moore07pdf.pdf.
34 soliti prodotti perdono tutta la loro competitività. Ecco che i settori produttivi diversi da quello minerario non riescono a svilupparsi e il Paese, in assenza di contromisure economiche mirate alla correzione del problema, diventa ancora più dipendente da una sola attività economica12.
Quale che sia la spiegazione più consona della tesi della maledizione delle materie prime, risulta evidente come la Repubblica Democratica del Congo, in quanto rentier
state, presenti dei livelli di corruzione, repressione, povertà e conflittualità fra i più
alti al mondo.
L’evoluzione della produzione mineraria
Fin dall’epoca coloniale l’economia della Repubblica Democratica del Congo si è basata sostanzialmente su due settori principali, quello minerario e quello agricolo, entrambi proiettati al commercio internazionale. Benché inizialmente sia stata l’attività agricola a generare la maggior parte del reddito nazionale, enormi investimenti si sono concentrati molto presto sul settore minerario e, in particolare, sulla costruzione di infrastrutture necessarie per l’attività di estrazione e commercializzazione delle materie prime, che uniti al buon andamento sui mercati internazionali dei prodotti esportati, in particolare rame e diamanti, fecero conoscere al Congo belga una rapida crescita13. Prima dell’indipendenza furono due le società che dominarono il settore estrattivo del Paese, ovvero l’Union Minière du Haut
Katanga (UMHK) e la Société internationale forestière et minière du Congo
(Fominière), nate entrambe nel 1906 e operative rispettivamente in Katanga, da dove l’Union estraeva principalmente rame, cobalto, uranio e ferro, e in Kasai, da sempre feudo diamantifero del Paese. Si trattava di due società controllate da gruppi privati di origine britannica, belga e statunitense14. In particolare, durante i decenni delle due guerre mondiali e della creazione dei primi armamenti atomici, l’Union Minière si trovò a dover soddisfare una domanda di rame e uranio in costante ascesa, occupando così un posto importantissimo in Congo, dal punto di vista della
12 S. Marysse, C. Tshimanga, La renaissance spectaculaire du secteur minier en RDC. Où va la rente
minière ?, in S. Marysse e J. Omasombo (sotto la direzione di), Conjonctures congolaises. Politique, secteur minier et gestion des ressources naturelles en RD Congo, Paris, Cahiers Africains n. 82,
L’Harmattan, 2013, pp. 13-14.
13 F. Kabuya Kalala, T. Mbiye, op. cit., pp. 143-144.
14 L. Ferraresi, Storia politica del Congo (Zaire), dall’indipendenza alla rivoluzione di Mulele,
35 contribuzione al PIL e alle entrate provenienti dalle esportazioni15. Nel 1965, ad esempio, l’Union Minière garantì al Congo più del 70% delle sue riserve di moneta estera e più del 50% del suo budget16.
Le cose iniziarono a prendere una piega differente nel momento in cui Mobutu salì al potere e intraprese una politica di nazionalizzazioni che interessarono la maggior parte delle industrie estrattive in mano ad attori economici stranieri. In particolare, nel giugno 1966 furono emanate le due leggi che si posero alla base di tale processo: la prima imponeva alle imprese che estraevano nel Paese di trasferirvi la propria sede sociale e amministrativa. La seconda, la legge Bakajika, prevedeva la restituzione nelle mani dello Stato congolese di tutte le concessioni sulle proprietà terriere, forestiere e minerarie fatte prima del 30 giugno 1960, data dell’indipendenza. Il suolo e il sottosuolo tornavano ad essere di esclusiva proprietà dello Zaire17. Nel gennaio 1967 l’UMHK incluse le sue quote di partecipazione nelle altre aziende presenti nel Paese, fu quindi nazionalizzata e il tutto fu trasferito nelle mani di una nuova società congolese, la Générale congolaise des mines (Gécomin), di cui il 60% era controllato dallo Stato e il restante da una società belga, la Société Générale des
Minerais (SGM), la quale avrebbe provveduto alla trasformazione e alla
commercializzazione del rame e del cobalto estratti. Nel progetto congolese la Gécomin avrebbe dovuto sostituire definitivamente la vecchia Union Minière, tuttavia ciò non si realizzò in quanto in Belgio fu siglato un accordo fra SGM e UMHK in base al quale, in pratica, l’Union Minière avrebbe continuato a gestire tutte le operazioni in Congo dietro il nome della SGM, che diventava perciò solo un presta nome. Belgi tornarono ad essere anche il presidente della stessa Gécomin e i dirigenti delle filiali dell’UMHK nazionalizzate18. Secondo l’allora ministro degli Affari esteri Cleophas Kamitatu, Mobutu rimosse da determinati posti di comando i giovani congolesi laureati perché temeva che avrebbero potuto prendere coscienza dei problemi del proprio Paese e cercare di risolverli intraprendendo delle soluzioni di autentico nazionalismo19. Inizialmente, Mobutu, con la sua gestione centralizzata dell’intero settore estrattivo, riuscì a mantenere il trend positivo che aveva caratterizzato la produzione e l’esportazione di minerali fino a quel momento:
15 F. Kabuya Kalala, T. Mbiye, op. cit., p. 145.
16 C. Young, T. Turner, The rise and decline of the Zairian State, Madison, University of Wisconsin
Press, 1985, p. 289.
17 L. Ferraresi, op. cit., p. 163-164. 18 Ibidem.
36 prendendo ancora ad esempio la Gécomin, divenuta poi Gécamines (Générales des
carriere et des mines), essa riuscì ad incrementare il suo livello di produzione di
rame e di cobalto, così come il proprio organico, che arrivò a contare circa 40.000 lavoratori20. L’espansione della produzione e del mercato di certe materie prime introdusse, in tutto il Paese, un clima di euforia ed ottimismo che spinse il governo a utilizzare i relativi introiti per spese molto spesso “di lusso”, che non potevano essere catalogate come spesa pubblica, per il semplice motivo che erano a beneficio della ristretta cerchia dell’élite al potere e non della popolazione. Mentre, infatti, Mobutu, nel suo primo anno di amministrazione, stanziò per il settore dell’istruzione esattamente la metà dei fondi rispetto all’anno precedente, dall’altro lato, nel 1966 egli dette il via libera alla spedizione in Europa di cinque grossi bauli pieni di dollari, franchi e marchi, per un totale di 400 milioni di franchi belgi, o, ancora, riuscì a far ottenere al ministro delle finanze Litho la somma di un miliardo di franchi per una missione in Belgio, dove lo stesso ministro comprò 120 abiti, gioielli, vasellame e il primo di una serie di appartamenti21. Si tratta di aneddoti esemplificativi del modo in cui la presidenza Mobutu fece uso della rendita derivante dalle attività a controllo centralizzato, un atteggiamento caratterizzato da dinamiche di clientelismo e corruzione, sia all’interno della compagine governativa, sia nei quadri di comando delle aziende statali, che portò le casse dello stato a versare in una condizione di elevata criticità. Corruzione, gestione inefficiente delle imprese e continua spoliazione di soldi pubblici portarono, in pochi anni, lo Zaire a dover far fronte a una crescita economica in calo e a un cospicuo debito pubblico estero. L’economia nazionale giunse alle porte degli anni Settanta in una condizione di estrema vulnerabilità, che fu pesantemente aggravata dal crollo dei prezzi dei principali prodotti esportati, causato dallo shock petrolifero del 1973. Lo scoppio della guerra civile in Angola poi comportò per lo Zaire la chiusura della ferrovia di Benguela, cioè di una delle maggiori arterie utilizzate per l’esportazione dei minerali, cosicché il traffico minerario fu necessariamente deviato su altri binari, allungandone il percorso e aumentandone i costi22. Se vi si aggiunge il dato di fatto per cui anche le infrastrutture del settore erano ormai invecchiate e non più efficienti come in
20 B. Rubbers, La dislocation du secteur minier au Katanga (RDC). Pillage ou recomposition?, in
“Politique africaine”, n. 93, Paris, Ed. Karthala, 2004/1, p. 22.
21 L. Ferraresi, op. cit., p. 165-166.
37 precedenza, si può ben comprendere come si potesse esser giunti agli anni Ottanta con l’impellente necessità di riformare il sistema.
A partire dai primi anni Ottanta anche lo Zaire fu interessato dalle riforme di politica economica promosse dalle istituzioni finanziarie internazionali (IFI), quali il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, considerate una conditio sine qua
non per l’ottenimento di nuovi finanziamenti o sconti sui relativi tassi d’interesse
proprio da parte di tali istituzioni. Perciò, fra il 1982 e il 1986 lo Zaire si impegnò nell’implementazione di un Programma di Aggiustamento Strutturale, che consisteva principalmente in misure volte alla svalutazione della moneta e alla liberalizzazione dell’economia attraverso politiche di privatizzazione e deregolamentazione di certi settori produttivi, con le quali si cercò di incentivare sia gli investimenti pubblici sia quelli privati esteri. In buona sostanza, si trattava di restringere il ruolo dello Stato, riducendone la presenza nei settori produttivi di punta. Le IFI intervennero nel settore minerario in particolar modo introducendo dei cambiamenti nell’assetto della
Gécamines e della MIBA, la Société minière de Bakwanga, un’altra importante
impresa statale che opera nel campo diamantifero in Kasai23. In effetti, proprio dall’inizio degli anni Ottanta, all’interno della Gécamines si era intensificato il verificarsi di quell’atteggiamento predatorio da parte dei responsabili al governo, consistente in continue appropriazioni di denaro e di partite di metalli appartenenti alla società, grazie ai quali l’arricchimento personale era loro assicurato;; per di più, una tale dinamica di corruzione e accaparramento selvaggio di beni pubblici si propagò dai piani alti dell’azienda fino ai capireparto e agli operai con estrema agilità, aiutata da un clima politico e sociale già avvezzo a certe pratiche, e, talvolta, persino scusata, a fronte delle critiche condizioni economiche e sociali che affliggevano la popolazione24. La produzione di rame, così come quella di molti altri minerali, raggiunse dei livelli bassissimi. Alla Gécamines e in altre società, tutte ampiamente indebitate, caratterizzate da una gestione amministrativa inefficiente e da infrastrutture obsolete servivano nuovi investimenti, nuove tecniche di gestione aziendale e di estrazione, capaci di ridare slancio all’intero settore. In aggiunta, la Banca Mondiale spinse il governo a fare spazio, accanto all’attività estrattiva industriale, anche a quella di tipo artigianale, cioè all’attività estrattiva su piccola
23 M. Mazalto, La réforme du secteur minier en République démocratique du Congo: enjeux de
gouvernance et perspectives de reconstruction, in “Afrique contemporaine. Nouveau voyage au
Congo: les défis de la reconstruction”, n. 227, Paris, Ed. de boeck, 2008-3, pp. 54-56.
38 scala, portata avanti da singoli individui che fanno uso di strumenti e procedure di estrazione tradizionali o manuali, senza l’utilizzo di grossi macchinari industriali25. Tuttavia i rapporti fra le IFI e il regime mobutista si deteriorarono molto presto e, vista la renitenza del Presidente a portare a termine il Programma di Aggiustamento, tali istituzioni, sul finire degli anni Ottanta, decisero di ritirarsi dal Paese, per poi tornarci qualche anno più tardi. Del resto, con la fine della guerra fredda e la caduta del muro di Berlino, il Congo perse il suo valore strategico e anche coloro che da decenni avevano cercato di tenerlo in forze non ritennero più di primaria importanza continuare a tenere in vita un Paese sull’orlo del fallimento. Al tempo stesso, però, bisogna precisare che, nonostante il profondo cambiamento storico e geopolitico, il servizio del debito e le prospettive di sviluppo del Paese in senso liberale e democratico continuarono a mobilitare le IFI, così da farle tornare in Congo già all’inizio degli anni Novanta26. I presupposti del modus operandi erano però cambiati, in quanto alcuni studi della Banca Mondiale arrivarono a concludere che il processo di liberalizzazione economica sarebbe dovuto passare attraverso un processo di democratizzazione e di perfezionamento della goverance. Mentre durante il decennio precedente la Banca Mondiale aveva cercato di ridurre la presenza dello Stato nell’economia, senza cercare di riformarlo, adesso si trattava di agire in base al principio che mostra l’esistenza di una certa correlazione fra lo sviluppo di una nazione e la riforma politica del Paese: «le Zaire a besoin d’être moins, mais mieux gouverné»27. Il raggiungimento della bonne gouvernance sarebbe passato attraverso l’apertura al multipartitismo (reintrodotto nel 1990), la decentralizzazione amministrativa e la privatizzazione della maggior parte dei servizi pubblici e delle imprese statali, nonché attraverso delle misure volte a ripristinare la certezza del diritto, il rispetto della proprietà privata e la credibilità dell’élite al potere, il tutto per rendere il Paese più sicuro e attraente per gli investitori privati esteri28. Dunque, a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta, sotto la pressione delle istituzioni finanziarie internazionali, il governo Kengo Wa Dondo29 intraprese una prudente
25 M. Mazalto, La réforme..., cit., p. 54. 26 Ivi, p. 56.
27 Banca Mondiale, Zaire: orientations stratégiques pour la reconstruction économique, Washington