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L'estrazione del coltan nella Repubblica Democratica del Congo: geopolitica ed economia di un conflitto

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Academic year: 2021

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U

NIVERSITÀ DI

P

ISA

DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE

CORSO DI LAUREA IN STUDI INTERNAZIONALI

L’estrazione  del  coltan  

nella Repubblica Democratica del Congo:

geopolitica ed economia di un conflitto

Candidata Relatore

Claudia Ciarfella Chiar.mo Prof. Maurizio Vernassa

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INDICE

Capitolo 1 - DAL REGNO DEI MANI-CONGO ALLA RESA DEL M23:

UNA STORIA DI SFRUTTAMENTO E SACCHEGGIO p. 1 - Dal Regno dei Mani-Congo al Congo belga p. 1 - Il  difficile  percorso  verso  l’indipendenza  e  il  complotto  anti-lumumbista p. 5 - L’era  Mobutu  e  la  Prima  guerra  del  Congo p. 14 - La Guerra mondiale africana p. 20 - Vecchi e nuovi disordini p. 23

Capitolo 2 - UNO SCANDALO GEOLOGICO: IL POTENZIALE MINERARIO DELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO p. 31

- Il paradosso della povertà in un Paese ricco di materie prime p. 31 - L’evoluzione  della  produzione  mineraria      p. 34 - Settore industriale e settore artigianale a confronto p. 46

Capitolo 3 - IL COLTAN COME MINERALE DI GUERRA p. 56 - Risorse naturali e conflitti armati p. 56 - Il coltan: numeri, verità e miti p. 59 - La filiera del coltan congolese p. 67 - Coltan e conflitto p. 74

Capitolo 4 - IL FUTURO DELLA POLITICA DEL COLTAN : VECCHIE SFIDE E NUOVI ATTORI p. 96 - Campagne  ed  iniziative  contro  i  “minerali  insanguinati”       p. 96 - Vecchie  sfide  e  nuovi  attori:  l’ascesa  del  dragone       p. 118

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Conclusioni - QUANDO  L’AVIDITÀ INASPRISCE IL RANCORE p. 124

BIBLIOGRAFIA p. 132 SITOGRAFIA p. 141

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Capitolo 1

DAL REGNO DEI MANI-CONGO ALLA RESA DEL M23:

UNA STORIA DI SFRUTTAMENTO E SACCHEGGIO

A  questo  punto  è  necessario  fare  un’osservazione,  assolutamente  non  etnologica,  sul   tribalismo. Secondo i lettori dei giornali, suppongo, il Congo dovrebbe essere un luogo dove le varie tribù sono sempre pronte a tagliarsi la gola a vicenda, eccetto quando è   presente   l’uomo   bianco   a   separarle.   Sarebbe   più   saggio,   credo,   tener   presente   anche   un’altra   ipotesi:   cioè   che   le   tribù   possono   di   solito   andare   discretamente  d’accordo  fra  loro,  eccetto  quando  è  interesse  economico  di  qualcuno   che si combattano. I conflitti tribali, si suol dire, «esplodono» inesplicabilmente1.

Conor  Cruise  O’Brien

Rappresentante ONU in Katanga

Dal Regno dei Mani-Congo al Congo belga

Quando i primi portoghesi giunsero alla foce del fiume Congo nel 1482, attraverso la spedizione  dell’esploratore  Diogo  Cão  alla  ricerca  di  un   passaggio verso  l’India,  vi trovarono un regno limitato a nord dal fiume Ogoué (Gabon), a sud dal fiume Kwanza (Angola), a est dal fiume Kwango  (Congo)  e  a  ovest  dall’Oceano Atlantico2. Il re del Congo, il Mani-Congo Nzinga Nkuvu, offrì loro una buona accoglienza e fra i due paesi si instaurò fin da subito un rapporto di carattere commerciale, basato principalmente sulla tratta degli schiavi. Per procurare gli schiavi ai portoghesi, i vari sovrani che si sono susseguiti negli anni si servirono sia dei propri signori locali (manis), muovendo guerra  all’occorrenza  ai popoli vicini, sia del popolo, il quale si trovava ad abbandonare le proprie attività agricole o di artigianato per dedicarsi alla loro cattura. I portoghesi erano soliti ripagare il re e i manis con generi di lusso o attrezzatura bellica, ovvero con prodotti che, da un lato, non costituivano alcun beneficio per il resto dei congolesi, e, dall’altro   lato, risultavano essere preferiti rispetto ai prodotti locali, comportando così un danno profondo alla produzione e al commercio indigeni3.

1 C.  C.  O’Brien,  Al Katanga e ritorno, Milano, Ed. Mondadori, 1963, pp. 269-270.

2 L. Ferraresi, Storia  politica  del  Congo  (Zaire),  dall’indipendenza  alla  rivoluzione  di  Mulele, Milano,

Jaka Book, 1973, pp. 15-16.

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2 A causa della tratta degli schiavi, dunque, il Regno del Congo perse la propria organizzazione sociale originaria e si assistette ad un vero e proprio spopolamento dell’intera   regione.   Del   resto quelli erano gli anni delle conquiste europee d’oltreoceano  e  c’era  la necessità di fornire le nuove colonie americane di un grande quantitativo di schiavi neri4.

Dai pacifici rapporti della fine del XV secolo si passò dunque allo scontro aperto nel 1665, anno in cui i portoghesi invasero per la prima volta il Congo e annientarono l’esercito  congolese,  cogliendo  come  pretesto  il  rifiuto  da  parte  del  Mani-Congo di permettere la libera ricerca di giacimenti   di   oro   e   rame.   Con   l’esercito fu distrutta anche  l’autorità  dei  governanti  locali,  i  quali  continuarono  a  mantenere  una  sovranità   soltanto formale e, comunque, solo su alcuni territori, mentre invece andarono perdute definitivamente le province periferiche5.

Un tale contesto di disorganizzazione e mancanza di sovranità effettiva costituì il terreno fertile per un ulteriore e ben più profondo insediamento straniero, quello intrapreso in via personale dal re del Belgio Leopoldo II. «Il faut à la Belgique une colonie»6: fu questo il motivo conduttore di tutta la politica leopoldina fin dagli anni Settanta  dell’Ottocento.   Vista  la  posizione  di   accerchiamento   del   Belgio   all’interno   del panorama delle grandi potenze europee, la conquista di territori oltremare appariva agli occhi di Leopoldo come l’unico   modo   per   acquisire prestigio, senza contare che dotandosi di un impero coloniale, il Belgio avrebbe saziato la propria fame di mercati e materie prime e avrebbe fornito una valvola di sfogo alla popolazione belga in eccesso7. Inizialmente i progetti espansionistici del re non convinsero i quadri politici ed economici del Paese,  soprattutto  a  causa  dell’immane   dispendio di denaro pubblico che si sarebbe prospettato, così Leopoldo II decise di agire in prima persona, utilizzando le proprie finanze e nascondendo le proprie mire dietro la bandiera delle esplorazioni a scopo scientifico e filantropico8. Nel 1878 fu creato, dunque, il Comitato di Studi   dell’Alto   Congo   (poi   Associazione Internazionale del Congo), un ente che aveva lo scopo di finanziare una spedizione

4 «   Se  il  commercio  africano   degli  schiavi  avesse   dovuto  sopperire   alle   sole   necessità  dell’Africa   o  

dell’Europa,  forse  sarebbe stato possibile tenerlo sotto controllo. Ma, soltanto nove anni dopo il primo viaggio  di  Colombo  attraverso  l’Atlantico,  il  trono  spagnolo  emetteva  un  decreto  col  quale  legalizzava   l’importazione   di   schiavi   nelle   sue   colonie   americane»,   B.   Davidson,   Civiltà africane, Milano, Mondadori, 1968, p. 106.

5 L. Ferraresi, op. cit., pp. 19-20.

6 J. L. Touadi, Congo, Ruanda, Burundi. Le parole per conoscere, Roma, Editori Riuniti, 2004, p. 16. 7 L. Ferraresi, op. cit., p. 23.

8 R. Doom, Piccolo è etico ? Il Belgio e la regione dei Grandi Laghi, in Conflitto e transizione in

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3 dell’esploratore  e  giornalista  Henry  Stanley nella regione e che, in realtà, forniva una copertura formale al reale progetto di Leopoldo; infatti, tra il 1879 e il 1884 Stanley riuscì ad aprire alla navigazione un tratto del fiume Congo e, penetrando verso l’interno,  stipulò  con  alcuni  capi  locali  dei  contratti  con cui questi ultimi cedevano la sovranità dei loro territori al re belga9.

L’eco   mediatica   provocata a livello internazionale dalla spedizione di Stanley e le informazioni ormai note circa la ricchezza e la possibilità di sfruttamento del suolo e sottosuolo  dell’Africa  centrale portarono al centro del discorso politico e diplomatico occidentale  la  questione  della  libertà  di  commercio  e  di  insediamento  in  quell’area.   Del resto l’avanzata   belga   cominciò   a   scontrarsi   con la penetrazione commerciale delle altre potenze coloniali, in particolar modo Francia, Portogallo, Gran Bretagna e Germania,   soprattutto   nel   momento   in   cui   Leopoldo   II   chiese   che   all’Associazione   Internazionale del Congo venisse riconosciuta personalità giuridica; Stati Uniti e Germania optarono per il riconoscimento, dietro la promessa belga di aprire il Congo al commercio internazionale, a dimostrazione del fatto che, per quanto riguardava quella  regione,  gli  altri  Paesi  erano  interessati  all’aspetto  commerciale,  piuttosto  che   a instaurarvi un vero e proprio possedimento coloniale10. Al fine di risolvere definitivamente le questioni relative al bacino del fiume Congo, il cancelliere tedesco Bismarck indisse un congresso internazionale che si tenne a Berlino fra il novembre 1884 e il febbraio 1885, in occasione del quale fu sancita la libertà di commercio nel bacino del fiume, la libertà della sua navigazione e la neutralità dei territori compresi nello stesso bacino. Al di fuori dei negoziati ufficiali, furono completate le trattative che portarono al definitivo riconoscimento all’Associazione   di   Leopoldo   II   della “sovranità” su un territorio vastissimo, che prese il nome di Stato Libero del Congo. Si trattava, comunque, di una sovranità limitata dalla libertà di commercio e di navigazione di cui sopra e che, quindi, rendeva il Congo una vasta area posta sotto controllo internazionale su cui Leopoldo II deteneva determinati privilegi11.

Il Congo rimase un possedimento personale del re belga Leopoldo II fino al 1908, quando cioè egli si dimostrò non più in grado di portare avanti un progetto di tal portata: il sistema delle Compagnie concessionarie attraverso il quale Leopoldo aveva amministrato   il   territorio   era   sull’orlo   del   collasso   finanziario,   mentre   la  

9 L. Ferraresi, op. cit., pp. 23-24.

10 A. M. Gentili, Il   leone   e   il   cacciatore.   Storia   dell’Africa   sub-sahariana, Roma, Nuova Italia

Scientifica, 1995, pp. 154-155.

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4 brutalità con cui i suoi emissari avevano governato la popolazione autoctona aveva preso le sembianze di un vero e proprio scandalo ormai noto a tutti12. Inoltre in quell’anno   scadeva   il   termine   ultimo   entro   il   quale   Leopoldo   II   avrebbe   dovuto   restituire alle casse dello Stato belga la somma di denaro chiesta in prestito dieci anni prima, dietro la promessa della cessione del Congo al Belgio in caso di mancato rimborso. Il 14 novembre 1908 il parlamento belga votò in favore dell’annessione  di   tale territorio, che divenne a tutti gli effetti una colonia del Regno del Belgio13. Quello belga fu un colonialismo diretto, autoritario e paternalistico, che mirava a tenere i congolesi in un eterno stato di minorità. Il governo della colonia fu affidato a un Governatore Generale belga che gestiva il potere centrale dalla capitale Léopoldville   (l’attuale   Kinshasa)   e   da   cui   dipendevano   i   Governatori   provinciali   dislocati nelle province di Basso Congo, Provincia Orientale, Equatore, Kasai e Kivu. Il governo locale, invece, fu affidato ai capi tribù, ognuno dei quali gestiva il proprio territorio secondo gli usi e i costumi di quel gruppo tribale. Così, dietro la parvenza di scelta democratica, questo tipo di sistema amministrativo contribuì a marcare le differenze già esistenti fra tribù, invece di condurre il tessuto etnico congolese verso una omogeneizzazione a livello nazionale. La strategia del divide et

impera poteva  essere  riscontrata  anche  nel  modo  in  cui  era  organizzato  l’esercito,  la  

Force Publique, in cui ciascun corpo era composto su base tribale e veniva dislocato in   quella   parte   del   Paese   abitata   da   un’altra   tribù   o   gruppo   etnico,   in   modo   da   assicurarsi, così, la piena obbedienza dei soldati durante le operazioni di repressione ai danni dei loro concittadini14. Finita la Prima guerra mondiale, la Società delle Nazioni affidò al Belgio il mandato di tipo B sul Ruanda e sul Burundi, appartenenti in   precedenza   all’Africa   Orientale   Tedesca,   ampliando così la sua presenza nella regione dei Grandi Laghi15; qui, però, i belgi portarono avanti una gestione indiretta del territorio, affidandosi alla locale élite tutsi, di cui parleremo più avanti.

12 Ibidem.

13 L. Ferraresi, op. cit., p. 31. 14 L. Ferraresi, op. cit., p. 35-36.

15 La regione dei Grandi Laghi comprende Uganda, Ruanda, Burundi, le province nord-orientali della

Repubblica Democratica del Congo, Tanzania e Kenya occidentali, ovvero quei territori bagnati dal gruppo di laghi che comprende anche il Lago Vittoria (Cfr. definizione in S. Bellucci, Storia delle

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Il  difficile  percorso  verso  l’indipendenza e il complotto anti-lumumbista

La crisi del dominio belga in Congo cominciò in concomitanza con una crisi economica e finanziaria che si aggravò progressivamente dal 1955 al 1960: sulla scia della congiuntura economica negativa che seguì la fine della Guerra di Corea, in Congo il tasso di disoccupazione aumentava progressivamente, il costo delle materie prime, soprattutto i minerali, si abbassava, anche a causa della concorrenza dei prodotti sovietici e la fiducia degli investitori stranieri veniva meno, mentre il debito pubblico aumentava di anno in anno, danneggiando così anche l’erario della madrepatria. Il forte indebolimento economico e finanziario del sistema coloniale belga fece capire ai congolesi che neppure i bianchi erano infallibili e il mito della loro superiorità lasciò il posto al sorgere dei nazionalismi. Nel 1955 il docente universitario   Van   Bilsen,   de   l’Institut   Universitaire   des   Territoires   d’Outre-Mer, pubblicò il  “Piano  trentennale  per  l’emancipazione  dell’Africa  belga”,  che  prevedeva per il Congo un periodo di transizione di trenta anni verso il raggiungimento dell’emancipazione, alla fine del quale il Belgio avrebbe cessato qualsiasi forma di controllo sulla colonia, se non nei limiti di un eventuale mandato delle Nazioni Unite16. Alla luce dei primi sentori di volontà indipendentiste, il progetto belga si proponeva di operare un progressivo trasferimento di poteri che avrebbe condotto il Congo   all’autonomia,   lasciando   però   intatte   le   posizioni economiche pubbliche e private belghe. Il Piano Van Bilsen non piacque assolutamente ai congolesi, i quali fecero sentire la propria voce in particolar modo attraverso il contro manifesto di Joseph Kasavubu,   il   presidente   dell’ABAKO   (Associazione   dei   Bakongo   per   l’unificazione,  la  conservazione  e  l’espansione della lingua Kilongo)17, con il quale si chiedeva  l’emancipazione  immediata, il ripristino di tutte le libertà, in primis quella di fondare partiti politici, e la nazionalizzazione delle grandi industrie; con tale documento l’ABAKO   si   qualificò   come   un   vero   movimento   politico   cui   la   popolazione poteva far riferimento18. Per arginare le prime spinte centrifughe in Congo,   l’amministrazione   belga   decise   di   fare   qualche   concessione   in   campo   politico, così nel marzo 1957 re Baldovino autorizzò lo svolgimento delle prime elezioni comunali a Léopoldville, Elisabethville (attuale Lubumbashi) e a Jadotville

16 A. Maurel, Le Congo :   de   la   colonisation   belge   à   l’indépendance,   Paris,   L’Harmattan,   1992,  

pp.251-254.

17 Il Belgio aveva imposto il divieto di formare partiti politici, per cui molte organizzazioni, come ad

esempio  l’ABAKO,   si  dotarono  di  un   nome  che  evocava   finalità  culturali,  in   modo  da   rientrare   nei   margini della legalità (Cfr. L. Ferraresi, op. cit., p. 49).

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6 (oggi Likasi); alle elezioni non potevano concorrere partiti ma soltanto singoli individui, i quali avrebbero ottenuto incarichi puramente onorifici, mentre la gestione delle finanze e della polizia sarebbe rimasta appannaggio della madrepatria. Kasavubu  fu  eletto  sindaco  di  Dendale  e  nel  suo  discorso  d’insediamento  condannò   apertamente il colonialismo e avanzò nuove e più incisive richieste. Contravvenendo al divieto belga ancora in vigore, cominciarono a formarsi numerosi partiti politici, uno su tutti il Movimento Nazionale Congolese (MNC) di Patrice Lumumba, che si posizionò fin da subito in prima linea nella lotta indipendentista19. Infatti è da attribuire  proprio  a  Lumumba  il  merito  di  aver  fatto  uscire  il  Congo  dall’isolamento   internazionale e di averlo connesso con il grande movimento di liberazione che stava travolgendo  l’intero  continente  nero:  era  entrato  in  contatto  con  i  maggiori leader del panafricanismo, come Sekou Touré e Kwame Nkrumah, e aveva spostato l’attenzione   dei   congolesi   sulle   conquiste   anticolonialiste   del   vicino   Congo   Brazzaville e del Ghana; degli avvenimenti di tale portata non avrebbero potuto lasciare la colonia belga indifferente20.

Il Belgio cercò di preservare la situazione di dominio ancora per qualche mese, concedendo sempre più libertà civili e politiche, che portarono alla nascita di numerosi altri partiti come la CONAKAT di Moise Tshombé. Ciononostante, le proteste e gli scontri con la polizia continuavano e rendevano il Paese sempre più instabile e ingestibile, non solo dal punto di vista dei circoli politici europei, ma anche e soprattutto dal punto di vista degli investitori esteri, preoccupati sempre di più per lo status dei propri interessi economici in loco. Spinto da tutte queste forze, il re Baldovino indisse una Tavola Rotonda per uno scambio di vedute con i rappresentanti  africani  circa  la  situazione  congolese:  dall’incontro  scaturì la volontà belga di concedere subito l’indipendenza, in cambio della promessa di rispettare gli investimenti finanziari in atto21. La scelta belga di concedere immediatamente l’indipendenza,   oltre   che   dalle   spinte   congolesi,   sembrò   essere   dettata   anche   da   un   calcolo degli interessi su cui è interessante soffermarsi un attimo: catapultare verso l’indipendenza  un  Paese  ancora  politicamente fragile ed inesperto, bisognoso di aiuti economici e di know-how tecnico per stabilizzarsi, avrebbe permesso al Belgio e alle grandi compagnie finanziarie di accorrere in aiuto e continuare a intervenire in Congo,   condizionandone   l’autonomia   politica   e finanziaria; uno Stato debole, che

19 L. Ferraresi, op. cit., 48-49. 20 A. M. Gentili, op. cit., pp. 364-365. 21 L. Ferraresi, op. cit., 54-55.

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7 non ha avuto il tempo di rendere ben saldo il legame fra le élite e le masse perché divenuto troppo presto indipendente, avrebbe sicuramente chiesto aiuto al vecchio padrone e   spianato   la   strada   al   suo   “ritorno”   22. Ma, come fu subito evidente all’indomani  della  dichiarazione  di  indipendenza,  la  realizzazione  di  tale progetto fu tutt’altro  che  scontata.

In ogni caso, nel maggio 1960 si tennero le elezioni politiche dalle quali il MNC uscì vincitore, Lumumba divenne primo ministro e Kasavubu presidente della repubblica e capo supremo delle forze armate: il 30 giugno 1960 venne proclamata ufficialmente l’indipendenza.

Il progetto neocolonialista belga si scontrò immediatamente contro la volontà del neo premier di  voler  lottare  contro  tutti  gli  ostacoli,  interni  ed  esterni,  all’emancipazione   congolese  e  di  voler  estendere  la  battaglia  indipendentista  a  tutta  l’Africa23; inoltre il MNC di Lumumba si era sempre dichiarato contrario ad una soluzione federalista (a differenza   dell’ABAKO   e   della   CONAKAT) e fautore di un controllo centralistico dell’economia   e   del   fisco   congolesi24. Specialmente quest’ultimo   punto   riveste   un’importanza  primaria  nelle  dinamiche  di  potere  che  hanno  caratterizzato  le  vicende   tumultuose del post-indipendenza, poiché la volontà del governo centrale, in mano ai leader della lotta anti-colonialista, di controllare direttamente ogni angolo del Paese, incluse le ricchissime regioni del Katanga e del Kasai, avrebbe costituito un ostacolo enorme per le attività estere. Per   rendere   l’idea   degli   interessi   in   gioco,   possiamo citare semplicemente due esempi di società straniere presenti in tali regioni: nel Kasai operava fin da inizio Novecento la Forminière, Société internationale

forestière et minière du Congo, per   metà   belga   e   per   l’altra   metà   statunitense,   che

all’epoca   dell’indipendenza   rappresentava il 75% della produzione diamantifera dell’Occidente e la cui attività divenne ancora più preziosa nel momento in cui il Ghana e la Guinea, una volta indipendenti, si rifiutarono di continuare a rifornire il cartello mondiale dei diamanti. Dell’attività   estrattiva   in   Katanga   si   occupava,   invece, l’Union  Minière  du  Haut  Katanga, che estraeva principalmente rame, uranio, zinco, radio, ferro, cobalto e che includeva alcune società fra cui l’inglese  Tanganyka

Concessions Limited, la Société Générale du Belgique, ovvero una delle più influenti

banche belga, la Compagnie du Katanga,  anch’essa  belga  e,  infine,  il  Comité Spécial

22 G. P. Calchi Novati, Le  rivoluzioni  dell’Africa  Nera, Milano, Ed.  dall’Oglio,  1967,  pp.  230-231. 23 L. Ferraresi, op. cit., p. 58.

24 C. Carbone, Burundi Congo Ruanda. Storia contemporanea di nazioni etnie stati, Roma, Gangemi

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du Katanga, in parte di proprietà dello stato congolese e in parte della stessa

Compagnie du Katanga25. Insomma,  per  dirla  con  Luciano  Ferraresi,  «l’imperialismo   internazionale doveva neutralizzare subito Lumumba e sostituirlo subito con qualcuno che fosse insensibile al problema della liberazione  dell’Africa  e  disponibile   all’interno   del   paese   a   soluzioni   neocolonialiste   per   la   continuazione   dello   sfruttamento del Congo»26. La secessione delle province del Katanga prima e del Kasai   dopo   fornirono   già   nell’estate   1960   l’occasione   per   mettere   in   crisi   lo   status   quo.

Nelle   settimane   che   seguirono   la   proclamazione   dell’indipendenza,   il governo si trovò a fronteggiare il malcontento della popolazione congolese circa il perdurare della   presenza   dei   bianchi   in   numerosi   posti   di   comando   all’interno   dell’esercito   e   dell’apparato   amministrativo, malcontento che si tradusse dapprima nell’ammutinamento  della  Force  Publique,  scoppiato  nella  regione  del  Basso  Congo   e diffusosi in vari centri del Paese, e in seguito in agitazioni sindacali. Lumumba e Kasavubu cercarono di tamponare le sommosse procedendo subito all’africanizzazione   dell’esercito   nazionale,   che   cambiò   nome   in   Armée   Nationale   Congolaise (ANC), mentre i posti di comando furono affidati a due congolesi, Victor Lundula e Joseph Desiré Mobutu, che furono nominati rispettivamente comandante in   capo   e   capo  di   stato   maggiore  dell’esercito27. Nonostante il repentino intervento del governo centrale e nonostante la modesta entità dei disordini, il Belgio colse l’occasione  per intervenire con 10 000 uomini a protezione dei propri connazionali, senza, però, il previo consenso del governo congolese. Tuttavia, il principale intervento belga fu posto in atto in Katanga, dove Moise Tshombé, a capo della CONAKAT, deteneva le redini del governo regionale28. Approfittando della situazione  caotica  nel  Paese  e,  in  particolare,  nei  ranghi  dell’ANC,  l’11  luglio  1960 Tshombé proclamò la secessione della regione del Katanga, e motivò ufficialmente l’atto   accusando   Lumumba   di   essere   un   agente   del   comunismo   internazionale, nonché la causa dei disordini che stavano minacciando il Congo. Da  un  lato,  l’azione  

25 L. Ferraresi, op. cit., p. 57. 26 Ivi, p. 58.

27 J. Gerald-Libois, Katanga Secession, Madison, University of Wisconsin Press, 1966, p. 95.

28 Occorre  precisare  che  alle  elezioni  del  maggio  1960,  nonostante  l’appoggio  belga,  in  realtà  non  fu  la  

CONAKAT a raccogliere più consensi, bensì la BALUBAKAT, che si opponeva al federalismo della prima. Tuttavia, attraverso vari brogli, il partito di Tshombé riuscì ugualmente ad ottenere la maggioranza  dei  deputati  nell’Assemblea  provinciale  e,  grazie  all’intercessione  del  parlamento  belga,   fu modificata la Loi Fondamentale, in modo che sarebbe stata sufficiente la maggioranza semplice, anziché i due terzi, per   deliberare   all’interno   dell’Assemblea   provinciale   del   Katanga.   È   così   che   Tshombé riuscì a formare il governo katanghese (Cfr. L. Ferraresi, op. cit., p. 63).

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9 di Tshombé fu dettata dalla sua preoccupazione per il mantenimento del proprio potere personale, vista la determinazione del premier di formare uno stato centralizzato, in cui sarebbe stata Léopoldville a controllare politicamente ed economicamente la provincia katanghese. Dall’altro  lato,  la  secessione  fu  caldeggiata e finanziata dal Belgio e  dalla  lobby  dell’industria  mineraria, interessati a proteggere la zona dai tumulti in corso, nell’ottica  del  mantenimento  di  un controllo diretto delle ricchezze minerarie della provincia; altro aspetto decisivo riguardava la preoccupazione per le sorti dei numerosi residenti bianchi che abitavano ancora il Katanga, i quali, per altro, si erano mostrati poco disposti a ricadere sotto la giurisdizione di un leader anticolonialista e panafricanista come Lumumba29. Il coinvolgimento belga può essere testimoniato, ad esempio, dal fatto che belgi erano gli ufficiali a  capo  dell’esercito  secessionista e i dirigenti della gendarmeria locale, senza  dimenticarci  di  come  l’esercito  belga impedì l’atterraggio  dell’aereo  che stava portando Lumumba e Kasavubu a Elisabethville per intraprendere un dialogo con il leader della secessione30. Immediatamente il governo congolese ruppe le relazioni diplomatiche   con   l’ex-madrepatria e si rivolse alle Nazioni Unite chiedendo specificamente un intervento militare finalizzato non ad intervenire nella situazione interna  del  Paese  per  ristabilirvi  la  pace,  bensì  a  proteggere  il  Congo  dall’aggressione   belga; due giorni dopo, il 14 luglio 1960 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite approvò la Risoluzione 143, con la quale ebbe inizio la prima missione ONU in Congo, che prese il nome di Opération des Nations Unies au Congo (ONUC). Inizialmente tale missione aveva il compito di portare a termine il ritiro dei militari belgi dal   Paese   e   di   offrire   al   governo   assistenza   tecnica   per   ristabilire   l’ordine   pubblico; successivamente il mandato fu esteso fino a comprendere la salvaguardia dell’integrità  territoriale  e  dell’indipendenza  del  Congo,  il  mantenimento  dell’ordine   e dello stato   di   diritto   ed   infine   l’offerta,   ancora   una   volta,   di   assistenza   tecnica   in   vari ambiti31.

Intanto, sulla scia di quanto stava accadendo nel vicino Katanga, Albert Kalonji, leader   dell’ala   federalista   del   MNC,   proclamò   l’indipendenza   del   Sud-Kasai, rinominandolo   “Stato   minerario   del   Sud-Kasai”.   Per   le   stesse   ragioni   menzionate   sopra, il Belgio e Tshombé accolsero con favore questa secessione, anche perché andava a costituirsi uno stato cuscinetto fra la zona controllata dal governo centrale e

29 S. Bellucci, op. cit., p.46. 30 L. Ferraresi, op. cit., p. 63.

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10 il Katanga32.  A  fronte  di  questo  ulteriore  attentato  all’integrità  territoriale  congolese,   Lumumba chiese alla ONUC di intervenire in maniera più incisiva contro le due secessioni, ma si trovò di fronte ad un atteggiamento piuttosto restio del Segretario generale Dag Hammarskjöld, che cercò di far rimanere i Caschi blu al di fuori dei combattimenti in corso33. Lo stesso Hammarskjöld aveva accettato le condizioni imposte   da   Tshombé   per   l’ingresso   delle   truppe   ONUC   in   Katanga e ciò fu interpretato dal governo congolese come uno schieramento a favore delle due secessioni. Profondamente insoddisfatto e deluso da un tale atteggiamento, Lumumba   si   decise   a   chiedere   aiuto   all’Unione   Sovietica,   la   quale   non   esitò   a   rifornire  l’ANC  di equipaggiamenti militari di vario tipo e tecnici specializzati, che permisero  all’esercito  regolare  di  sferrare  alcuni  attacchi  in  Kasai  e  Katanga34. Come era   prevedibile,   l’entrata   in   scena   del   supporto   sovietico   destò   la   preoccupazione   delle potenze occidentali per una possibile infiltrazione comunista nella regione e le spinse   a   considerare   come   sempre   più   inevitabile   l’eliminazione,   quanto   meno   politica, del primo ministro. La riprova che un complotto contro Lumumba era già in atto non tardò a palesarsi: a  settembre,  nel  momento  in  cui  l’ANC  stava  raccogliendo   i primi successi contro i secessionisti, il presidente della repubblica Kasavubu annunciò   alla   radio   la   destituzione   del   primo   ministro,   mentre   l’ONUC   e   Mobutu stavano organizzando un ponte aereo per far evacuare le truppe congolesi dalla provincia del Katanga. Conseguentemente, il regime di Tshombé fu mantenuto in vita, al contrario Lumumba fu tolto di scena proprio quando la vittoria sui secessionisti lo stava portando   all’apice   del   consenso   politico   nazionale. A fronteggiare la gendarmeria katanghese rimasero solo gli uomini della BALUBAKAT, i quali furono trascinati in una sanguinosa guerra civile che né le forze europee, né i governanti locali si preoccuparono di arrestare35. La crisi congolese mise in evidenza il clamoroso fallimento della missione delle Nazioni Unite, che si dimostrò essere sempre più in balia dello scontro fra gli interessi economici dei Paesi occidentali e delle relative multinazionali del settore estrattivo, il tentativo del blocco sovietico di penetrare in una zona strategica dal punto di vista geopolitico e, infine, le spinte secessioniste dei leader locali.36

32 L. Ferraresi, op. cit., pp. 66-67.

33 A. Mockler, Storia  dei  mercenari.  Da  Senofonte  all’Iraq, Bologna, Odoya, 2012, p. 174. 34 L. Ferraresi, op. cit., pp. 66-69.

35 Ivi, p. 70.

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11 Lo scontro fra Kasavubu e Lumumba, il quale aveva a sua volta destituito il capo dello   stato,   condusse   ad   un’impasse politica che il parlamento nazionale non fu in grado di risolvere. Mobutu il 14 settembre 1960 mise in atto il suo primo, seppur breve, colpo di stato: il potere fu affidato ad una commissione di tecnici congolesi e stranieri  che  avrebbero  dovuto  preoccuparsi  di  ristabilire  l’ordine  nel  Paese.  L’azione   di Mobutu prese subito una piega deliberatamente anticomunista, infatti, oltre ad averlo dichiarato pubblicamente, egli si apprestò a espellere dal Congo i diplomatici sovietici e cecoslovacchi. Sebbene il colpo di stato annientasse allo stesso modo anche  l’autorità  di  Kasavubu,  quest’ultimo  non  tardò  a  riconoscere  il  governo  tecnico   e  a  rendere  omaggio  all’intervento  salvifico  di  Mobutu,  fornendo  la  dimostrazione di come tutto ciò fosse stato orchestrato con lo scopo di liberarsi di Lumumba. Quest’ultimo,   avendo   ricevuto   un   mandato   d’arresto,   fu   inizialmente posto sotto la protezione dei Caschi blu a Léopoldville, mentre i suoi fedelissimi, guidati da Antoine Gizenga, instaurarono un governo filo-lumumbista nella Provincia Orientale (Stanleyville), proclamando la nascita della Repubblica Libera del Congo37. D’altro   canto il leader congolese sapeva di non potersi più fidare delle Nazioni Unite38, per cui decise di tornare a Stanleyville con lo scopo di riorganizzare il suo movimento: fu proprio in tale occasione che Lumumba fu catturato da militari fedeli a Mobutu e condotto prima a Stanleyville e successivamente in Katanga, dove fu ucciso insieme ad altri due ministri del suo governo, Maurice Mpolo e Joseph Okito, per mano dei gendarmi dietro ordine di Tshombé. Era il 17 gennaio 1961, ma la notizia fu diffusa solamente tre settimane più tardi, quando la radio del Katanga comunicò che l’uccisione  era  avvenuta  durante  un  tentativo  di  fuga  del  prigioniero39.

Riguardo   la   responsabilità   materiale   e   morale   dell’assassinio   del   primo   ministro   congolese sono state avanzate numerose ipotesi, gran parte delle quali parlano di un coinvolgimento  diretto,  in  primis,  di  Belgio  e  Stati  Uniti,  nonché  dell’atteggiamento   controverso delle Nazioni Unite. Prima di addentrarci nel labirinto delle responsabilità dirette e indirette di questa vicenda, occorre ribadire come la questione congolese a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta abbia cessato di costituire una

37 L. Ferraresi, op. cit., pp. 72-73.

38 La rottura fra Lumumba e Kasavubu si verificò proprio in contemporanea alla procedura di ingresso

del   Congo   alle   Nazioni   Unite,   avvenuto   nel   settembre   1960.   Per   l’occasione   si   presentarono   due   delegazioni  distinte  del  governo  congolese,  così  l’Assemblea  generale  dovette  prendere  una  decisione e accreditarne solo una: dietro la spinta statunitense, la maggioranza degli Stati membri votò in favore della delegazione facente capo a Kasavubu, lanciando quindi un messaggio politico molto forte in relazione a quanto stava accadendo nel Paese (Cfr. L. Ferraresi, op. cit., p. 73).

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12 “semplice”  questione  di  decolonizzazione  e  lotta  per  l’indipendenza,  ossia solamente un affare riguardante il Belgio e il Congo. Erano gli anni centrali della Guerra fredda e le vicende  africane  si  inserivano  pienamente  all’interno  della  contrapposizione  fra i due blocchi. Infatti, il coinvolgimento di Stati Uniti, Unione Sovietica e altre potenze non era dettato esclusivamente da motivazioni di ordine economico, legate allo sfruttamento del ricchissimo sottosuolo della regione; certo, le multinazionali del settore estrattivo hanno sempre fatto la loro parte, sia a livello politico che economico, per fare pressione sui rispettivi governi, affinché questi tutelassero i loro interessi. Tuttavia,   nel   momento   in   cui   il   governo   Lumumba   si   rivolse   all’Unione   Sovietica, chiedendo supporto militare e tecnico contro le secessioni in corso, il coinvolgimento occidentale si era fatto più forte e soprattutto più palese, fino poi a raggiungere l’apice  con  l’eliminazione  fisica  del leader anticolonialista.

È   del   16   novembre   2001   l’inchiesta   parlamentare   condotta   dalla   Camera   dei   rappresentanti del Belgio, che mirava a determinare le circostanze esatte dell’assassinio   di   Patrice   Lumumba   e   l’eventuale implicazione dei responsabili politici belgi. Essa elenca i vari piani per la sua eliminazione fisica, fra cui quello

progettato   dai   katanghesi,   l’«Opération L» belga e quello degli Stati Uniti del presidente Eisenhower40, e mette in luce il   ruolo   dell’Union Minière du Haut Katanga nella sollevazione katanghese e nella morte del primo ministro. In quel periodo l’Union  Minière  era  sicuramente  la  società  di  estrazione  più  importante  del   Katanga, impiegava 1755 funzionari e 20876 lavoratori manuali, e costituiva una forza economica fondamentale; è facile pensare come essa abbia potuto interpretare l’indipendenza   prima,   e   l’avvento   di   Lumumba   dopo,   come   un   salto   nel   buio,   un   cambiamento storico indesiderato. Allo stesso modo, capì ben presto che Tshombé e la secessione del Katanga avrebbero fatto al caso suo e non esitò a finanziare la CONAKAT e il governo secessionista con ben 1.250.000.000 di franchi belgi: va da sé che Tshombé divenne una «marionetta» nelle mani della società belga e il suo potere nei confronti del governo centrale non sarebbe stato così incisivo senza un tale finanziamento41. Le   conclusioni   dell’inchiesta   parlamentare   sono   chiare   e   ammettono, anzitutto, che l’indipendenza  del  Congo  non  aveva impedito al Belgio e altri Stati di intervenire negli   affari   interni   dell’ex colonia, ben oltre la bandiera

40 ENQUÊTE   PARLEMENTAIRE   visant   à   déterminer   les   circonstances   exactes   de   l’assassinat   de  

Patrice   Lumumba   et   l’implication   éventuelle   des   responsables politiques belges dans celui-ci,

Chambre des représentants de Belgique, 16 novembre 2001, http://www.lachambre.be/FLWB/PDF/50/0312/50K0312006.pdf, pp. 127-130.

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13 dell’intervento   umanitario   in   favore   dei   propri   connazionali   ancora   residenti   nel   Paese;;   ciò   viene   dimostrato,   continua   l’inchiesta,   con   l’appoggio   logistico e finanziario belga alle due secessioni e a Tshombé in particolare, con lo scopo di togliere potere a Lumumba e favorire la nascita di un Congo federale o confederale, più facilmente controllabile dalle multinazionali e dai Paesi occidentali. L’inchiesta   sottolinea, poi, come le Nazioni Unite abbiano fatto il resto, a partire dal fatto che furono   approvate   risoluzioni   e   inviati   i   Caschi   blu   a   protezione   dell’integrità   territoriale, salvando però il regime Tshombé, e come sia stata proprio la CIA a progettare  in  definitiva  l’eliminazione  fisica  di  Lumumba42.

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L’era  Mobutu  e  la  Prima guerra del Congo

Dopo la scomparsa di Lumumba, le Nazioni Unite ripresero le redini della situazione, sconfissero le forze di Tshombé e riconquistarono il controllo di quasi tutto il territorio nazionale. Contemporaneamente ripristinarono il parlamento, il quale affidò la guida del governo di unità nazionale a Cyrille Adula, un moderato che godeva delle simpatie  dell’Occidente. Ma la situazione interna non si placò affatto e, anzi, Adula si trovò a fronteggiare nuovi tentativi secessionisti e, in particolare, una guerriglia contadina che si era sviluppata nelle province centro-orientali, guidata da Pierre Mulele, lumumbista e filo maoista. La sua insurrezione mirava a liberare effettivamente il Congo dalla presenza bianca, da qualsiasi legame col colonialismo e con gli interessi occidentali, in modo da procedere alla risoluzione della questione congolese senza ingerenze straniere43. Essa vide la partecipazione del futuro presidente Laurent-Désiré Kabila e fu appoggiata da molti Paesi terzomondisti, fra cui Cina e Cuba; un buon motivo per far intervenire ed interferire nuovamente la potenza statunitense, che offrì supporto bellico al generale Mobutu per la repressione della rivolta44.

Ad aprile 1965 si svolsero nuove elezioni politiche per il rinnovo del parlamento, durante le quali fu protagonista lo scontro fra la fazione facente capo a Kasavubu e quella di Tshombé, maggioritaria; tale rivalità condusse ad uno stallo politico di cui approfittò, ancora una volta, Mobutu, che il 25 novembre 1965 attuò il suo secondo colpo di stato. Il generale si autoproclamò presidente della repubblica e instaurò fin da subito un regime autoritario, in cui   l’unico   partito   legale   divenne   il   suo  

Mouvement Populaire de la Revolution, fondato nel 1967. Successivamente si

proclamò anche capo di governo, comandante delle forze armate e della polizia e dette avvio ad un programma di africanizzazione del Congo che prese il nome di “Authenticité”:  il popolo congolese avrebbe dovuto recuperare i propri stili di vita e cessare di rifarsi ai modelli occidentali o sovietici; così, ad esempio, fu abbandonata la toponomastica occidentale, il Congo divenne Zaire ed egli stesso si ribattezzò Mobutu Sese Seko. In molti hanno definito lo Zaire di Mobutu, oltre che una dittatura, una cleptocrazia,  in   cui   la  corruzione  l’ha   fatta da padrona e le ricchezze del Paese, nonché gli aiuti internazionali, hanno portato giovamento solamente al

43 L. Ferraresi, op. cit., pp. 79-121. 44 S. Bellucci, op. cit., p, 70.

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15 patrimonio del presidente e di una ristretta cerchia di collaboratori, lasciando invece la popolazione in un perenne stato di povertà e sfruttamento45.

Anche sotto Mobutu lo  Zaire  ricoprì  un  ruolo  geopolitico  di  prim’ordine  nel  quadro   della contrapposizione est-ovest, in quanto divenne sempre di più «un bastione dell’anticomunismo   per   tutta   l’Africa»46 e un avamposto preziosissimo per il controllo  francese  e  statunitense  sull’Africa  sub-sahariana; vedi, ad esempio, il ruolo fondamentale che svolse lo Zaire nel sostenere la guerriglia contro il Movimento popolare   di   liberazione   dell’Angola e contro il Frelimo in Mozambico, entrambi sostenuti da Mosca, tanto da   fargli   guadagnare,   per   molti   anni,   l’appoggio   e   l’amicizia   di   numerose   potenze   occidentali,   nonostante   il   suo   carattere   di   regime   violento e corrotto. A dimostrazione di quanto detto, l’atteggiamento   del   mondo   democratico nei confronti dello Zaire di Mobutu cambiò radicalmente proprio in concomitanza della caduta del muro di Berlino, quando cioè insieme alla minaccia comunista venne meno anche parte della rilevanza strategica del Congo. Del resto, la sensibilità  dell’opinione  pubblica  occidentale  non  permetteva  più  ai  rispettivi  governi   di intrattenere così disinvoltamente buoni rapporti con dei regimi autoritari come quello zairese, ma, soprattutto, erano cambiate le modalità attraverso cui poter mettere le mani sulle ricchezze dei paesi in via di sviluppo; in effetti, dopo essersi liberato dai meccanismi di intervento dettati  dalla  guerra  fredda,  l’Occidente adottò sempre di più dei meccanismi di democratizzazione e di liberalizzazione, finalizzati alla creazione di sistemi politici ed economici adatti alle esigenze del capitalismo mondiale47.

Per far fronte alle pressioni interne ed estere, nel 1990 Mobutu decise di reintrodurre il   multipartitismo,   che   ebbe   però   l’effetto di far emergere la forte opposizione politica al suo regime; prese avvio un periodo di transizione politica che condusse il Paese in una profonda crisi interna, la quale andò a sovrapporsi alla crisi scatenatasi all’indomani  del  genocidio  in  Ruanda.

È necessario, adesso, aprire una finestra sul genocidio ruandese, per poi andare ad illustrare come si è arrivati alla caduta del regime Mobutu e allo scoppio della Prima guerra del Congo. Lo scontro tra hutu e tutsi, avvenuto tra aprile e luglio 1994, è innanzitutto il risultato di decenni di politiche coloniali e postcoloniali, sia tedesche sia belghe, incaute, che hanno portato al cambiamento forzato e irreversibile del

45 Ibidem. 46 Ibidem.

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16 tessuto   sociale   di   un’intera   regione.   Il Ruanda precoloniale era un regno in cui le popolazioni hutu e tutsi non costituivano due etnie separate e diverse, e non erano neppure in conflitto fra loro: gli hutu costituivano il gruppo sociale ed economico legato  all’agricoltura,  mentre  i  tutsi  si  dedicavano  all’allevamento;;  ciò  nonostante,  vi   era perfetta mescolanza e fluidità fra questi due gruppi, nel senso che un hutu poteva diventare  un  tutsi  e  viceversa,  a  seconda  del  ruolo  assunto  all’interno  della  società e, per di più, le cariche politiche più alte potevano essere ricoperte da entrambi48. Le cose cambiarono profondamente già con la colonizzazione tedesca di fine Ottocento, quando cioè la distinzione fra le due categorie si cristallizzò sulla base di connotazioni etniche e razziali, come la differenza di altezza, di fisionomia, di colore della pelle, ecc. La scelta tedesca prima e belga poi di amministrare questi territori in modo indiretto rese necessario individuare un gruppo sociale ben definito che fungesse da fedele emissario del potere coloniale in loco; così, gli europei scelsero l’etnia  tutsi,  etichettandola  come  razza  superiore,  contro  l’etnia  hutu,  maggioritaria  in   Ruanda, che fu considerata razza inferiore, in quanto “rozza dal punto di vista fisico e intellettivo”, e per questo da escludere tassativamente da qualsiasi posto di comando e da relegare in posizioni subalterne49. A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, gli hutu ruandesi cominciarono a ribellarsi al regime discriminatorio attuato   dall’etnia   rivale,   minoritaria,   e   lo   status   quo   nella colonia cominciava a vacillare. Dall’altro  lato,  fra  i  tutsi,  la  parte  più  colta  della  popolazione,  iniziarono a circolare idee di stampo socialista e panafricanista, mentre lo scoppio della lotta per l’indipendenza   sembrava   imminente.   Il   Belgio,   allora,   scelse   di   voltare   le   spalle   all’etnia   tutsi   al   potere,   per   sostenere   invece   la   parte   hutu,   rappresentata   dal   Parmehutu, partito cattolico conservatore e razzista. Questi ultimi godevano anche dell’appoggio   francese,   che   Parigi   giustificava   qualificandolo   come   atto   di   democrazia, visto che gli hutu continuavano a costituire la maggioranza dei ruandesi. Ancora una volta, la paura del dilagare del socialismo in Africa ha condotto le potenze   occidentali   a   sostenere   una   fazione   piuttosto   che   l’altra,   nonostante   le   efferatezze che gli hutu avevano iniziato a porre in essere contro i tutsi ben prima del 199450. Nel 1962 il Ruanda raggiunse   l’indipendenza   e   divenne una repubblica governata da un presidente hutu e, di conseguenza, fu inaugurata una stagione di

48 F. Tinti, Il genocidio in Ruanda: il dovere di sapere, in “Afriche  e  orienti”,  n. 1-2, Repubblica di

San Marino, Aiep editore, 2004, p. 218.

49 Ibidem.

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17 discriminazioni etnico-razziali e di persecuzioni ai danni dei tutsi, i quali presero a rifugiarsi nei Paesi vicini, come Zaire, Uganda e Burundi. In Uganda i rifugiati tutsi si organizzarono politicamente nel Fronte Patriottico Ruandese (FPR), con l’obiettivo  di  riprendersi  il  potere. Già dal 1990 in Ruanda la situazione economica e politica si aggravò sempre di più a causa, principalmente, dei tentativi del FPR di valicare il confine e della reintroduzione del multipartitismo, che spinsero l’élite  hutu   a progettare il genocidio, così da   mascherare   l’eliminazione fisica degli oppositori politici in tal modo51. Gli hutu etichettavano l’etnia  tutsi  come  la  fonte  di  tutti  i  mali,   il  capro  espiatorio  contro  cui  fomentare  l’odio  di  quella  parte  di  popolazione  che  è   sempre stata più povera e sottomessa52. La stessa dinamica si è presentata allo scoppio del genocidio, quando il  6  aprile  l’aereo  che  stava  trasportando verso Kigali il presidente ruandese Juvénal Habyarimana e il suo omologo burundese esplose in circostanze  tutt’oggi  misteriose53; pochi minuti dopo iniziarono i massacri degli hutu ai danni dei tutsi, ma anche contro gli hutu moderati, accusati di essere i colpevoli dell’incidente   aereo:   nell’arco   di   tre   mesi   furono uccise, mutilate, violentate dalle 800.000 a 1.000.000 di persone, su una popolazione di 7,5 milioni di abitanti54. I Paesi limitrofi furono interessati da due diverse ondate di profughi ruandesi, una prima ondata di tutsi e hutu moderati in fuga dalle efferatezze compiute durante il genocidio e una seconda ondata costituita, stavolta, dagli hutu preoccupati da eventuali rappresaglie da parte del nuovo governo. Infatti, il genocidio terminò con l’arrivo   in   Ruanda dei guerriglieri tutsi del FPR, che presero le redini del potere politico affidando la presidenza a Paul Kagame. In particolare, gli hutu, fra cui molti autori del genocidio, si rifugiarono prevalentemente nei campi profughi del Congo orientale, sotto la protezione di un Mobutu che vedeva nell’ascesa   del Fronte Patriottico Ruandese una certa interferenza del nemico storico ugandese. Di fatto, l’imponente   esodo   di   ruandesi hutu e tutsi nello Zaire comportò tutta una serie di problemi sia per essi stessi, sia per gli autoctoni, già profondamente colpiti da condizioni di vita svantaggiose, tanto da far sviluppare una vera e propria crisi dei

51 F. Tinti, op. cit., pp. 219-220.

52 G. Prunier, The Ruanda Crisis: History of a Genocide, London, Hurst, 1995.

53 I due presidenti erano di ritorno da Arusha, in Tanzania, sede dei negoziati di pace fra il governo

ruandese e i militanti del FPR: gli accordi di pace, che Habyarimana si era deciso ad applicare, prevedevano il cessate il fuoco, la condivisione delle cariche politiche e militari, il ritiro delle truppe francesi   dalle   zone   di   combattimento,   il   ritorno   dei   profughi   in   patria   e   l’apertura   di   un’inchiesta   indipendente sulle violenze passate (Cfr. J. L. Touadi, Congo, Ruanda..., cit., p. 29).

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18 Grandi Laghi, il cui epicentro si spostò velocemente dal Ruanda alle regioni orientali dello Zaire55.

Più di un milione di rifugiati ruandesi si riversarono in Congo, prevalentemente nelle regioni del Kivu, contribuendo ad aggravare una situazione già precaria da un punto di vista umanitario, sociale ed economico; nei campi profughi mancavano le tende, i medicinali e il cibo per gli sfollati e le associazioni umanitarie non riuscivano più a fronteggiare la situazione catastrofica. Tuttavia, il problema non era solo di ordine umanitario, perché, come ho già accennato, fra gli hutu vi era una forte presenza di ex   militari   dell’esercito   ruandese   o   capi   delle   milizie   interhamwe,   autori del genocidio, i quali continuarono ad imporre la loro supremazia ai connazionali tutsi e cercarono in qualche modo di riprendersi il potere in patria. Inoltre la rappresaglia hutu non si scatenò solamente ai danni dei tutsi presenti nei campi profughi o rimasti in patria, bensì si rivolse anche contro i banyamulenge, cioè i tutsi congolesi che abitavano il Kivu da oltre due secoli e che erano già implicati in una situazione di profonda conflittualità etnica e sociale con le altre etnie originarie della regione56: infatti, le genti di origine ruandese venivano sempre più spesso additate come capro espiatorio per il caos dilagante nel Paese. In verità, il sistema cleptocratico non era più in grado di reggersi in piedi a livello di disponibilità di risorse economiche, mentre la scelta di reintrodurre il multipartitismo aveva portato ad una sorta di apertura   del   vaso   di   Pandora   con   conseguente   indebolimento   dell’autorità   di   un   Mobutu, per altro, gravemente malato57. Dunque, da un lato vi era il Ruanda che aveva la necessità di mettere in sicurezza il suo confine occidentale, minacciato, abbiamo detto, dalle continue incursioni dei rifugiati hutu contro cui Mobutu non fece mai niente;;   dall’altro   lato,   emerse con forza una problematica più profonda, quella della ricerca, da parte di Burundi e Ruanda, di uno spazio vitale atto a dare sfogo alla crescita demografica che i due piccoli Paesi non erano più in grado di contenere, fino poi a ipotizzare addirittura la creazione di una nazione tutsi etnicamente omogenea.   Il   tutto   considerando   l’eventualità   dello smembramento dell’agonizzante   Zaire: già nel dicembre 1996 sulla stampa internazionale, come l’”International Herald Tribune”, si leggeva che «il Congo era il risultato di un’unione   impossibile,   non   naturale. La frontiera coloniale non poteva essere

55 S. Bellucci, op. cit., p. 72-77.

56 J. L. Touadi, Congo, Ruanda..., cit., pp. 35-37.

57 K. Vlassenroot, I molti volti delle ribellioni nella Repubblica Democratica del Congo. Una

prospettiva dal basso su violenza e guerra nelle province del Kivu e in Ituri, in "Afriche e orienti", n.

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19 considerata eternamente come sacrosanta»58,  quasi  come  a  voler  abituare  l’opinione   pubblica alla realizzazione di un progetto geopolitico già concepito. Non era un caso che una certa ipotesi ventilasse maggiormente sulle pagine dei quotidiani anglo-sassoni; pertanto,  nell’illustrazione delle cause della Prima guerra del Congo, occorre inserire il discorso sulla rivalità franco-americana   per   l’egemonia   nell’Africa   sub-sahariana. La scomparsa   del   nemico   sovietico,   comune   a   tutto   l’occidente,   aveva   aperto la strada a nuove contrapposizioni, nel nostro caso a quella fra Francia (ed Europa)   e   Stati   Uniti   (e   mondo   anglosassone)   per   l’egemonia   nell’Africa   sub-sahariana: i francesi sostenevano il governo hutu (durante e dopo il genocidio) in Ruanda, e in Zaire quello del generale Mobutu, considerato un prezioso partner per il mantenimento della loro influenza economica e politica nella regione. Al contrario, per gli statunitensi, Mobutu non rispondeva più alle esigenze della politica di good

governance, democratizzazione e liberalizzazione59 che essi stavano introducendo in

tutto il Terzo mondo, dunque a Washington sarebbe servito qualcuno a cui affidarsi per sovvertire gli equilibri africani e per usufruire al meglio delle ricchezze naturali della regione60. L’uomo   giusto   fu   Laurent   Désiré Kabila, discepolo di Lumumba e compagno di Mulele nel suo tentativo di insurrezione, da sempre nemico del regime mobutista e dal quale si rifugiò per anni in Uganda e Tanzania, dove si arricchì attraverso i traffici, più o meno leciti, di oro, avorio e diamanti61. Approfittando della rivolta dei banyamulenge a est, della debolezza di Mobutu,  nonché  dell’appoggio  di   Ruanda, Uganda e asse anglo-americano, Kabila rientrò in patria e formò l’Alliance  

des Forces Démocratiques de Libération du Congo-Zaire (AFDL), a cui si unirono

gli  oppositori  al  regime;;  nell’ottobre  1996  ebbe  così  inizio  la  lunga  marcia  di  Kabila,   che   percorse   l’intero   Stato   fino   a   conquistare   Kinshasa   nella   primavera   dell’anno   successivo e a determinare, dunque, la caduta definitiva di Mobutu. Kabila e le truppe   dell’AFDL   ebbero   gioco   facile   in   quanto   godevano   del   sostegno logistico delle milizie ruandesi già dislocate sul territorio, mentre le Forze armate zairesi, ormai allo sbando, in alcuni casi si ritirarono e vendettero al nemico le armi ancora in

58 J. L. Touadi, Congo, Ruanda..., cit., p. 36.

59 Alcune   statistiche   del   1996   rivelavano   come   l’Africa   avesse scavalcato la vecchia URSS come

partner commerciale degli Stati Uniti e che gli investimenti americani in Africa erano diventati tre volte più redditizi rispetto alla media mondiale (Cfr. P. Petrucci, E Clinton inventò Kabila, in “L’Espresso”,  22  maggio  1997,  p.  92).  Era chiara la necessità statunitense di difendere al meglio tali interessi.

60 G. Prunier, Congo-Kinshasa: la première guerre inter-africaine,  in  “Géopolitique  africaine”,  n.  1,  

Paris, ORIMA International, 2001, pp. 127-149.

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20 funzione62. Ma al successo militare seguì presto una disfatta politica, data dal fatto che nonostante il cambiamento di presidenza e il ritorno ai simboli, alla bandiera e all’inno   della   prima   repubblica, il Congo, rinominato Repubblica Democratica del Congo, continuò a vivere profonde lotte a sfondo etnico per il controllo del territorio e, dunque, una frammentazione nazionale che arriva fino ai giorni nostri. A livello politico, Kabila abolì tutti i partiti politici e concentrò nelle proprie mani i poteri esecutivo, legislativo e militare63. La questione di maggior rilievo riguardava, tuttavia, la mancanza di autonomia di un Kabila ostaggio dei propri Stati protettori, in primis Ruanda e Uganda, tanto che, per dirla con Touadi, «Kigali suonava la musica e Kinshasa ballava»64; perciò il neo-presidente decise di smarcarsi, di allontanarsi dai propri padrini e di continuare a guidare il Paese in tutta autonomia, senza considerare le conseguenze di un gesto tanto precipitoso.

La Guerra mondiale africana

Nell’estate  1998  fu  inaugurata  una  stagione  di  epurazioni  dal  governo  e  dall’esercito   di ruandesi e ugandesi rimasti dopo la marcia di Kabila, scatenando così la reazione dei due Paesi limitrofi. Questi adottarono una strategia di attacco indiretto, ovvero non mirarono subito alla capitale, bensì ritirarono le proprie truppe ad est, dove furono capaci di sfruttare il malcontento diffuso, a causa di malgoverno, autoritarismo e corruzione, per   fomentare   l’odio   contro   Kabila   stesso.   Mentre   le   truppe di Angola, Ciad, Namibia, Sudan e Zimbabwe erano accorse a difesa del presidente congolese, Ruanda e Uganda, appoggiati anche dal Burundi, assecondarono la nascita di due principali gruppi ribelli, sostenendoli in termini di armi e denaro: il primo e più importante era il Rassemblement congolais pour la

démocratie (RCD), presente in una vasta regione che si estendeva dal Kivu al Kasai,

dal Katanga al Maniema, e che si spaccò quasi subito in varie fazioni, fra cui le maggiori erano RCD-Goma e RCD-ML, appoggiati rispettivamente da Ruanda e Uganda.   L’altro   era il Movimento di liberazione del Congo (MLC) di Jean-Pierre Bemba,   sostenuto   dall’Uganda e   che   controllava   la   regione   dell’Equatore   oltre   alla  

62 J. L. Touadi, La guerra mondiale dei Grandi Laghi,   in   “Limes.   L’Africa   a   colori”, n. 3, Roma,

Gruppo  L’espresso, 2006, p. 219.

63 L. Baroncelli, The political transition in the Drc between achievement and unending process, ISPI

Analysis n. 195, agosto 2013, p.4, http://www.ispionline.it/sites/default/files/pubblicazioni/analysis_baroncelli_africa_2013.pdf.

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21 parte settentrionale del Paese; per parte sua, il  governo  centrale  godeva  dell’appoggio   del movimento dei Mai-Mai, nato in maniera piuttosto spontanea negli ambienti rurali del Kivu e del Maniema, sostenitore del tentativo di Kabila di liberarsi dalle ingerenze   straniere   e   di   ripristinare   l’ordine   nel   Paese65. Tutte queste scissioni non rispecchiavano solamente una frammentazione politica e militare congenita del Congo orientale, bensì costituivano la riprova della crescente discordia fra Uganda e Ruanda, riguardante il controllo delle zone più redditizie, come quella intorno a Kisangani ricchissima di diamanti: è evidente come il pretesto di attaccare il Congo per una mera ragione di difesa dei propri confini non stava più in piedi. In ogni caso, a partire dal 1998, il Congo orientale si configurò come un territorio diviso in varie

enclave, ognuna corrispondente al territorio controllato da un diverso gruppo

ribelle/Stato estero e facente capo a interessi politici ed economici differenti. Questa situazione così confusa condusse, paradossalmente, ad una certa stabilità o, quanto meno, continuità politica ed economica nella gestione degli affari locali, nettamente più vantaggiosa per gli attori coinvolti rispetto ad uno scenario di guerra aperta66. Vista la situazione di stallo, si intuì che sarebbe stata improbabile una vittoria militare  di  una  fazione  sull’altra  e,  sebbene,  come   si è detto, si fosse raggiunta una certa   “stabilità”,   a   tratti   anche   vantaggiosa,   occorreva   giungere   allo   sblocco   della   situazione attraverso dei negoziati. Nel luglio 1999 furono firmati da tutti gli Stati coinvolti nel conflitto gli Accordi di Lusaka, che prevedevano il ritiro dal Congo di tutte   le   truppe   straniere,   il   disarmo   degli   Interhamwe,   l’avvio   di   un   dialogo   inter-congolese   sotto   gli   auspici   dell’Organizzazione   per   l’Unità   Africana   e,   infine,   la   creazione di una missione delle Nazioni Unite in Congo, che prese il nome di

Mission de l'Organisation des Nations Unies en République démocratique du Congo

(MONUC). Intanto   Kabila   si   impegnò   nell’attuazione   di   una   serie di riforme in senso  democratico,  nel  tentativo  di  favorire  l’unità  politica  e  di  riacquisire  legittimità   per il suo governo67.   All’indomani   della   tregua   intrapresa   a   Lusaka   e   promossa   dall’amministrazione  Clinton,  la situazione non si semplificò affatto, in quanto, da un lato il Pentagono continuò ad appoggiare militarmente i propri gendarmi (Uganda, Ruanda, Burundi),  dall’altro  l’alleanza  fra  Ruanda e Uganda si ruppe definitivamente

65 Ivi, pp. 42-43.

66 K. Vlassenroot, op. cit., p. 9. 67 L. Baroncelli, op. cit., p. 5.

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22 in seguito a numerose dispute legate alla spartizione dei proventi delle attività estrattive e di contrabbando delle materie prime della regione, in primis il coltan68. Il corso del conflitto cambiò veramente nel 2001, anno in cui Kabila, impopolare, troppo debole in patria e scomodo per gli interessi stranieri, fu assassinato da un suo soldato in circostanze ancora misteriose, lasciando la presidenza a suo figlio Joseph. Il giovane Kabila adottò un atteggiamento più conciliante nei confronti dei belligeranti e si apprestò subito a negoziare con successo il ritiro delle truppe straniere dal territorio congolese. Egli cambiò modo di fare politica e si rivelò molto più in linea, rispetto al predecessore, con il modus operandi occidentale, perfettamente consapevole ed inserito nelle dinamiche neoliberali del mondo globalizzato69. L’Accordo  di  pace  di  Pretoria  fu  firmato  nel  2002  nell’ambito  dello   svolgimento del dialogo inter-congolese di Sun City, in Sudafrica, e condusse all’approvazione   di   una   road   map   da   seguire   per   approdare   alla   formazione   di   uno   stato stabile, pacificato e democratico. Durante il periodo transitorio di due anni, il potere politico, militare ed economico sarebbe stato condiviso dai belligeranti, la società  civile  e  l’opposizione  politica,  fino  poi  ad  arrivare  alle  elezioni  vere  e  proprie.   In più, furono stipulati due accordi bilaterali fra la Repubblica Democratica del Congo, Uganda e Ruanda con lo scopo di normalizzare i rapporti internazionali fra Paesi confinanti. A metà 2003 la guerra poté considerarsi conclusa: le truppe straniere si erano ritirate e si insediò un governo di transizione, in cui furono inclusi i rappresentanti di tutti e cinque i principali gruppi armati, i quali si sarebbero dovuti trasformare in partiti politici, mentre Kabila fu affiancato da quattro vice presidenti (uno del governo centrale, uno del RCD, uno del MLC e uno proveniente dalla società civile)70. Nonostante  tutto  l’impegno  profuso,  da  più  parti,  per  giungere  ad  un   certo livello di normalizzazione, la popolazione versava ancora in condizioni di vita e sicurezza pessime, dettate da malattie, malnutrizione, ma anche da un esercito corrotto e allo sbando, assenza dei servizi pubblici fondamentali, nonché da una profonda debolezza delle istituzioni.

68 S. Bellucci, op. cit., p. 80-81. 69 Ibidem.

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Vecchi e nuovi disordini

Il periodo di transizione culminò con il primo esercizio elettorale libero dopo anni di colpi di stato e decisioni  imposte  dall’alto.  Nel  dicembre  2005,  come  previsto  dagli   accordi di pace, si svolse il referendum col quale fu approvata la nuova Costituzione, entrata  in  vigore  all’inizio  dell’anno  successivo e che dava alla luce una repubblica semi-presidenziale decentrata, in cui i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario tornavano ad essere separati e le province acquisivano un certo grado di autonomia rispetto al centro. Il referendum fu seguito, nel 2006, dalle elezioni presidenziali, parlamentari e amministrative che sembrarono svolgersi in un clima di relativa calma e  trasparenza  (anche  grazie  alla  presenza  delle  forze  inviate  dall’ONU  e  dall’Unione   europea per visionare il loro corretto svolgimento) e che riconfermarono Joseph Kabila come capo di stato71.   Se   quest’ultima   tornata   elettorale   pose   formalmente   termine al periodo transitorio, non si può affermare altrettanto circa la fine dei disordini  e  dell’instabilità  nel  Paese, in particolar modo a est, in Nord e Sud Kivu. Il protagonista della nuova ribellione fu il generale Laurent Nkunda, un tutsi congolese strettamente legato al Ruanda fin  dai  tempi  della  sua  militanza  all’interno   del Fronte Patriottico Ruandese e che appoggiò la marcia di Kabila in qualità di ufficiale   dell’ADFL.   Allo   scoppio,   poi,   della   Seconda guerra del Congo, combatté nelle file del RCD, qualificandosi come uomo di fiducia per gli interessi del vicino Ruanda in Congo. All’indomani   della Pace di Pretoria fu inaugurata in Congo una politica detta di   “brassage”,  volta   cioè  ad  integrare  le  forze   ribelli  all’interno  della   nuova compagine governativa e militare, in base alla quale Nkunda divenne colonnello del nuovo esercito nazionale congolese (Forces Armées de la République

Démocratique du Congo, FARDC).   Tuttavia   questo   “mixage”   ebbe   vita   breve,   in  

quanto, già dal 2004, Nkunda si oppose al governo di Kabila dando vita ad una nuova ribellione tutsi nel Masisi, una provincia del Nord Kivu. Kinshasa, infatti, veniva accusata da Nkunda e dal Ruanda di non contrastare abbastanza le milizie hutu presenti ancora nel Paese e che, per altro, si erano riorganizzate nelle Forces

démocratiques de libération du Ruanda (FDLR), costituendo così una minaccia

sostanziale per la popolazione tutsi. Con tale pretesto, Nkunda, a partire proprio dal 2004, sferrò numerosi attacchi, concentrati intorno a Goma e Bukavu, contro l’esercito  di  Kabila  e  le  FDLR, compiendo atti criminosi per i quali è stato persino accusato di crimini di guerra e crimini contro  l’umanità  da  parte  della  Corte  penale  

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