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NIVERSITÀ DIP
ISADIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE
CORSO DI LAUREA IN STUDI INTERNAZIONALI
L’estrazione del coltan
nella Repubblica Democratica del Congo:
geopolitica ed economia di un conflitto
Candidata Relatore
Claudia Ciarfella Chiar.mo Prof. Maurizio Vernassa
INDICE
Capitolo 1 - DAL REGNO DEI MANI-CONGO ALLA RESA DEL M23:
UNA STORIA DI SFRUTTAMENTO E SACCHEGGIO p. 1 - Dal Regno dei Mani-Congo al Congo belga p. 1 - Il difficile percorso verso l’indipendenza e il complotto anti-lumumbista p. 5 - L’era Mobutu e la Prima guerra del Congo p. 14 - La Guerra mondiale africana p. 20 - Vecchi e nuovi disordini p. 23
Capitolo 2 - UNO SCANDALO GEOLOGICO: IL POTENZIALE MINERARIO DELLA REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO p. 31
- Il paradosso della povertà in un Paese ricco di materie prime p. 31 - L’evoluzione della produzione mineraria p. 34 - Settore industriale e settore artigianale a confronto p. 46
Capitolo 3 - IL COLTAN COME MINERALE DI GUERRA p. 56 - Risorse naturali e conflitti armati p. 56 - Il coltan: numeri, verità e miti p. 59 - La filiera del coltan congolese p. 67 - Coltan e conflitto p. 74
Capitolo 4 - IL FUTURO DELLA POLITICA DEL COLTAN : VECCHIE SFIDE E NUOVI ATTORI p. 96 - Campagne ed iniziative contro i “minerali insanguinati” p. 96 - Vecchie sfide e nuovi attori: l’ascesa del dragone p. 118
Conclusioni - QUANDO L’AVIDITÀ INASPRISCE IL RANCORE p. 124
BIBLIOGRAFIA p. 132 SITOGRAFIA p. 141
1
Capitolo 1
DAL REGNO DEI MANI-CONGO ALLA RESA DEL M23:
UNA STORIA DI SFRUTTAMENTO E SACCHEGGIO
A questo punto è necessario fare un’osservazione, assolutamente non etnologica, sul tribalismo. Secondo i lettori dei giornali, suppongo, il Congo dovrebbe essere un luogo dove le varie tribù sono sempre pronte a tagliarsi la gola a vicenda, eccetto quando è presente l’uomo bianco a separarle. Sarebbe più saggio, credo, tener presente anche un’altra ipotesi: cioè che le tribù possono di solito andare discretamente d’accordo fra loro, eccetto quando è interesse economico di qualcuno che si combattano. I conflitti tribali, si suol dire, «esplodono» inesplicabilmente1.
Conor Cruise O’Brien
Rappresentante ONU in Katanga
Dal Regno dei Mani-Congo al Congo belga
Quando i primi portoghesi giunsero alla foce del fiume Congo nel 1482, attraverso la spedizione dell’esploratore Diogo Cão alla ricerca di un passaggio verso l’India, vi trovarono un regno limitato a nord dal fiume Ogoué (Gabon), a sud dal fiume Kwanza (Angola), a est dal fiume Kwango (Congo) e a ovest dall’Oceano Atlantico2. Il re del Congo, il Mani-Congo Nzinga Nkuvu, offrì loro una buona accoglienza e fra i due paesi si instaurò fin da subito un rapporto di carattere commerciale, basato principalmente sulla tratta degli schiavi. Per procurare gli schiavi ai portoghesi, i vari sovrani che si sono susseguiti negli anni si servirono sia dei propri signori locali (manis), muovendo guerra all’occorrenza ai popoli vicini, sia del popolo, il quale si trovava ad abbandonare le proprie attività agricole o di artigianato per dedicarsi alla loro cattura. I portoghesi erano soliti ripagare il re e i manis con generi di lusso o attrezzatura bellica, ovvero con prodotti che, da un lato, non costituivano alcun beneficio per il resto dei congolesi, e, dall’altro lato, risultavano essere preferiti rispetto ai prodotti locali, comportando così un danno profondo alla produzione e al commercio indigeni3.
1 C. C. O’Brien, Al Katanga e ritorno, Milano, Ed. Mondadori, 1963, pp. 269-270.
2 L. Ferraresi, Storia politica del Congo (Zaire), dall’indipendenza alla rivoluzione di Mulele, Milano,
Jaka Book, 1973, pp. 15-16.
2 A causa della tratta degli schiavi, dunque, il Regno del Congo perse la propria organizzazione sociale originaria e si assistette ad un vero e proprio spopolamento dell’intera regione. Del resto quelli erano gli anni delle conquiste europee d’oltreoceano e c’era la necessità di fornire le nuove colonie americane di un grande quantitativo di schiavi neri4.
Dai pacifici rapporti della fine del XV secolo si passò dunque allo scontro aperto nel 1665, anno in cui i portoghesi invasero per la prima volta il Congo e annientarono l’esercito congolese, cogliendo come pretesto il rifiuto da parte del Mani-Congo di permettere la libera ricerca di giacimenti di oro e rame. Con l’esercito fu distrutta anche l’autorità dei governanti locali, i quali continuarono a mantenere una sovranità soltanto formale e, comunque, solo su alcuni territori, mentre invece andarono perdute definitivamente le province periferiche5.
Un tale contesto di disorganizzazione e mancanza di sovranità effettiva costituì il terreno fertile per un ulteriore e ben più profondo insediamento straniero, quello intrapreso in via personale dal re del Belgio Leopoldo II. «Il faut à la Belgique une colonie»6: fu questo il motivo conduttore di tutta la politica leopoldina fin dagli anni Settanta dell’Ottocento. Vista la posizione di accerchiamento del Belgio all’interno del panorama delle grandi potenze europee, la conquista di territori oltremare appariva agli occhi di Leopoldo come l’unico modo per acquisire prestigio, senza contare che dotandosi di un impero coloniale, il Belgio avrebbe saziato la propria fame di mercati e materie prime e avrebbe fornito una valvola di sfogo alla popolazione belga in eccesso7. Inizialmente i progetti espansionistici del re non convinsero i quadri politici ed economici del Paese, soprattutto a causa dell’immane dispendio di denaro pubblico che si sarebbe prospettato, così Leopoldo II decise di agire in prima persona, utilizzando le proprie finanze e nascondendo le proprie mire dietro la bandiera delle esplorazioni a scopo scientifico e filantropico8. Nel 1878 fu creato, dunque, il Comitato di Studi dell’Alto Congo (poi Associazione Internazionale del Congo), un ente che aveva lo scopo di finanziare una spedizione
4 « Se il commercio africano degli schiavi avesse dovuto sopperire alle sole necessità dell’Africa o
dell’Europa, forse sarebbe stato possibile tenerlo sotto controllo. Ma, soltanto nove anni dopo il primo viaggio di Colombo attraverso l’Atlantico, il trono spagnolo emetteva un decreto col quale legalizzava l’importazione di schiavi nelle sue colonie americane», B. Davidson, Civiltà africane, Milano, Mondadori, 1968, p. 106.
5 L. Ferraresi, op. cit., pp. 19-20.
6 J. L. Touadi, Congo, Ruanda, Burundi. Le parole per conoscere, Roma, Editori Riuniti, 2004, p. 16. 7 L. Ferraresi, op. cit., p. 23.
8 R. Doom, Piccolo è etico ? Il Belgio e la regione dei Grandi Laghi, in Conflitto e transizione in
3 dell’esploratore e giornalista Henry Stanley nella regione e che, in realtà, forniva una copertura formale al reale progetto di Leopoldo; infatti, tra il 1879 e il 1884 Stanley riuscì ad aprire alla navigazione un tratto del fiume Congo e, penetrando verso l’interno, stipulò con alcuni capi locali dei contratti con cui questi ultimi cedevano la sovranità dei loro territori al re belga9.
L’eco mediatica provocata a livello internazionale dalla spedizione di Stanley e le informazioni ormai note circa la ricchezza e la possibilità di sfruttamento del suolo e sottosuolo dell’Africa centrale portarono al centro del discorso politico e diplomatico occidentale la questione della libertà di commercio e di insediamento in quell’area. Del resto l’avanzata belga cominciò a scontrarsi con la penetrazione commerciale delle altre potenze coloniali, in particolar modo Francia, Portogallo, Gran Bretagna e Germania, soprattutto nel momento in cui Leopoldo II chiese che all’Associazione Internazionale del Congo venisse riconosciuta personalità giuridica; Stati Uniti e Germania optarono per il riconoscimento, dietro la promessa belga di aprire il Congo al commercio internazionale, a dimostrazione del fatto che, per quanto riguardava quella regione, gli altri Paesi erano interessati all’aspetto commerciale, piuttosto che a instaurarvi un vero e proprio possedimento coloniale10. Al fine di risolvere definitivamente le questioni relative al bacino del fiume Congo, il cancelliere tedesco Bismarck indisse un congresso internazionale che si tenne a Berlino fra il novembre 1884 e il febbraio 1885, in occasione del quale fu sancita la libertà di commercio nel bacino del fiume, la libertà della sua navigazione e la neutralità dei territori compresi nello stesso bacino. Al di fuori dei negoziati ufficiali, furono completate le trattative che portarono al definitivo riconoscimento all’Associazione di Leopoldo II della “sovranità” su un territorio vastissimo, che prese il nome di Stato Libero del Congo. Si trattava, comunque, di una sovranità limitata dalla libertà di commercio e di navigazione di cui sopra e che, quindi, rendeva il Congo una vasta area posta sotto controllo internazionale su cui Leopoldo II deteneva determinati privilegi11.
Il Congo rimase un possedimento personale del re belga Leopoldo II fino al 1908, quando cioè egli si dimostrò non più in grado di portare avanti un progetto di tal portata: il sistema delle Compagnie concessionarie attraverso il quale Leopoldo aveva amministrato il territorio era sull’orlo del collasso finanziario, mentre la
9 L. Ferraresi, op. cit., pp. 23-24.
10 A. M. Gentili, Il leone e il cacciatore. Storia dell’Africa sub-sahariana, Roma, Nuova Italia
Scientifica, 1995, pp. 154-155.
4 brutalità con cui i suoi emissari avevano governato la popolazione autoctona aveva preso le sembianze di un vero e proprio scandalo ormai noto a tutti12. Inoltre in quell’anno scadeva il termine ultimo entro il quale Leopoldo II avrebbe dovuto restituire alle casse dello Stato belga la somma di denaro chiesta in prestito dieci anni prima, dietro la promessa della cessione del Congo al Belgio in caso di mancato rimborso. Il 14 novembre 1908 il parlamento belga votò in favore dell’annessione di tale territorio, che divenne a tutti gli effetti una colonia del Regno del Belgio13. Quello belga fu un colonialismo diretto, autoritario e paternalistico, che mirava a tenere i congolesi in un eterno stato di minorità. Il governo della colonia fu affidato a un Governatore Generale belga che gestiva il potere centrale dalla capitale Léopoldville (l’attuale Kinshasa) e da cui dipendevano i Governatori provinciali dislocati nelle province di Basso Congo, Provincia Orientale, Equatore, Kasai e Kivu. Il governo locale, invece, fu affidato ai capi tribù, ognuno dei quali gestiva il proprio territorio secondo gli usi e i costumi di quel gruppo tribale. Così, dietro la parvenza di scelta democratica, questo tipo di sistema amministrativo contribuì a marcare le differenze già esistenti fra tribù, invece di condurre il tessuto etnico congolese verso una omogeneizzazione a livello nazionale. La strategia del divide et
impera poteva essere riscontrata anche nel modo in cui era organizzato l’esercito, la
Force Publique, in cui ciascun corpo era composto su base tribale e veniva dislocato in quella parte del Paese abitata da un’altra tribù o gruppo etnico, in modo da assicurarsi, così, la piena obbedienza dei soldati durante le operazioni di repressione ai danni dei loro concittadini14. Finita la Prima guerra mondiale, la Società delle Nazioni affidò al Belgio il mandato di tipo B sul Ruanda e sul Burundi, appartenenti in precedenza all’Africa Orientale Tedesca, ampliando così la sua presenza nella regione dei Grandi Laghi15; qui, però, i belgi portarono avanti una gestione indiretta del territorio, affidandosi alla locale élite tutsi, di cui parleremo più avanti.
12 Ibidem.
13 L. Ferraresi, op. cit., p. 31. 14 L. Ferraresi, op. cit., p. 35-36.
15 La regione dei Grandi Laghi comprende Uganda, Ruanda, Burundi, le province nord-orientali della
Repubblica Democratica del Congo, Tanzania e Kenya occidentali, ovvero quei territori bagnati dal gruppo di laghi che comprende anche il Lago Vittoria (Cfr. definizione in S. Bellucci, Storia delle
5
Il difficile percorso verso l’indipendenza e il complotto anti-lumumbista
La crisi del dominio belga in Congo cominciò in concomitanza con una crisi economica e finanziaria che si aggravò progressivamente dal 1955 al 1960: sulla scia della congiuntura economica negativa che seguì la fine della Guerra di Corea, in Congo il tasso di disoccupazione aumentava progressivamente, il costo delle materie prime, soprattutto i minerali, si abbassava, anche a causa della concorrenza dei prodotti sovietici e la fiducia degli investitori stranieri veniva meno, mentre il debito pubblico aumentava di anno in anno, danneggiando così anche l’erario della madrepatria. Il forte indebolimento economico e finanziario del sistema coloniale belga fece capire ai congolesi che neppure i bianchi erano infallibili e il mito della loro superiorità lasciò il posto al sorgere dei nazionalismi. Nel 1955 il docente universitario Van Bilsen, de l’Institut Universitaire des Territoires d’Outre-Mer, pubblicò il “Piano trentennale per l’emancipazione dell’Africa belga”, che prevedeva per il Congo un periodo di transizione di trenta anni verso il raggiungimento dell’emancipazione, alla fine del quale il Belgio avrebbe cessato qualsiasi forma di controllo sulla colonia, se non nei limiti di un eventuale mandato delle Nazioni Unite16. Alla luce dei primi sentori di volontà indipendentiste, il progetto belga si proponeva di operare un progressivo trasferimento di poteri che avrebbe condotto il Congo all’autonomia, lasciando però intatte le posizioni economiche pubbliche e private belghe. Il Piano Van Bilsen non piacque assolutamente ai congolesi, i quali fecero sentire la propria voce in particolar modo attraverso il contro manifesto di Joseph Kasavubu, il presidente dell’ABAKO (Associazione dei Bakongo per l’unificazione, la conservazione e l’espansione della lingua Kilongo)17, con il quale si chiedeva l’emancipazione immediata, il ripristino di tutte le libertà, in primis quella di fondare partiti politici, e la nazionalizzazione delle grandi industrie; con tale documento l’ABAKO si qualificò come un vero movimento politico cui la popolazione poteva far riferimento18. Per arginare le prime spinte centrifughe in Congo, l’amministrazione belga decise di fare qualche concessione in campo politico, così nel marzo 1957 re Baldovino autorizzò lo svolgimento delle prime elezioni comunali a Léopoldville, Elisabethville (attuale Lubumbashi) e a Jadotville
16 A. Maurel, Le Congo : de la colonisation belge à l’indépendance, Paris, L’Harmattan, 1992,
pp.251-254.
17 Il Belgio aveva imposto il divieto di formare partiti politici, per cui molte organizzazioni, come ad
esempio l’ABAKO, si dotarono di un nome che evocava finalità culturali, in modo da rientrare nei margini della legalità (Cfr. L. Ferraresi, op. cit., p. 49).
6 (oggi Likasi); alle elezioni non potevano concorrere partiti ma soltanto singoli individui, i quali avrebbero ottenuto incarichi puramente onorifici, mentre la gestione delle finanze e della polizia sarebbe rimasta appannaggio della madrepatria. Kasavubu fu eletto sindaco di Dendale e nel suo discorso d’insediamento condannò apertamente il colonialismo e avanzò nuove e più incisive richieste. Contravvenendo al divieto belga ancora in vigore, cominciarono a formarsi numerosi partiti politici, uno su tutti il Movimento Nazionale Congolese (MNC) di Patrice Lumumba, che si posizionò fin da subito in prima linea nella lotta indipendentista19. Infatti è da attribuire proprio a Lumumba il merito di aver fatto uscire il Congo dall’isolamento internazionale e di averlo connesso con il grande movimento di liberazione che stava travolgendo l’intero continente nero: era entrato in contatto con i maggiori leader del panafricanismo, come Sekou Touré e Kwame Nkrumah, e aveva spostato l’attenzione dei congolesi sulle conquiste anticolonialiste del vicino Congo Brazzaville e del Ghana; degli avvenimenti di tale portata non avrebbero potuto lasciare la colonia belga indifferente20.
Il Belgio cercò di preservare la situazione di dominio ancora per qualche mese, concedendo sempre più libertà civili e politiche, che portarono alla nascita di numerosi altri partiti come la CONAKAT di Moise Tshombé. Ciononostante, le proteste e gli scontri con la polizia continuavano e rendevano il Paese sempre più instabile e ingestibile, non solo dal punto di vista dei circoli politici europei, ma anche e soprattutto dal punto di vista degli investitori esteri, preoccupati sempre di più per lo status dei propri interessi economici in loco. Spinto da tutte queste forze, il re Baldovino indisse una Tavola Rotonda per uno scambio di vedute con i rappresentanti africani circa la situazione congolese: dall’incontro scaturì la volontà belga di concedere subito l’indipendenza, in cambio della promessa di rispettare gli investimenti finanziari in atto21. La scelta belga di concedere immediatamente l’indipendenza, oltre che dalle spinte congolesi, sembrò essere dettata anche da un calcolo degli interessi su cui è interessante soffermarsi un attimo: catapultare verso l’indipendenza un Paese ancora politicamente fragile ed inesperto, bisognoso di aiuti economici e di know-how tecnico per stabilizzarsi, avrebbe permesso al Belgio e alle grandi compagnie finanziarie di accorrere in aiuto e continuare a intervenire in Congo, condizionandone l’autonomia politica e finanziaria; uno Stato debole, che
19 L. Ferraresi, op. cit., 48-49. 20 A. M. Gentili, op. cit., pp. 364-365. 21 L. Ferraresi, op. cit., 54-55.
7 non ha avuto il tempo di rendere ben saldo il legame fra le élite e le masse perché divenuto troppo presto indipendente, avrebbe sicuramente chiesto aiuto al vecchio padrone e spianato la strada al suo “ritorno” 22. Ma, come fu subito evidente all’indomani della dichiarazione di indipendenza, la realizzazione di tale progetto fu tutt’altro che scontata.
In ogni caso, nel maggio 1960 si tennero le elezioni politiche dalle quali il MNC uscì vincitore, Lumumba divenne primo ministro e Kasavubu presidente della repubblica e capo supremo delle forze armate: il 30 giugno 1960 venne proclamata ufficialmente l’indipendenza.
Il progetto neocolonialista belga si scontrò immediatamente contro la volontà del neo premier di voler lottare contro tutti gli ostacoli, interni ed esterni, all’emancipazione congolese e di voler estendere la battaglia indipendentista a tutta l’Africa23; inoltre il MNC di Lumumba si era sempre dichiarato contrario ad una soluzione federalista (a differenza dell’ABAKO e della CONAKAT) e fautore di un controllo centralistico dell’economia e del fisco congolesi24. Specialmente quest’ultimo punto riveste un’importanza primaria nelle dinamiche di potere che hanno caratterizzato le vicende tumultuose del post-indipendenza, poiché la volontà del governo centrale, in mano ai leader della lotta anti-colonialista, di controllare direttamente ogni angolo del Paese, incluse le ricchissime regioni del Katanga e del Kasai, avrebbe costituito un ostacolo enorme per le attività estere. Per rendere l’idea degli interessi in gioco, possiamo citare semplicemente due esempi di società straniere presenti in tali regioni: nel Kasai operava fin da inizio Novecento la Forminière, Société internationale
forestière et minière du Congo, per metà belga e per l’altra metà statunitense, che
all’epoca dell’indipendenza rappresentava il 75% della produzione diamantifera dell’Occidente e la cui attività divenne ancora più preziosa nel momento in cui il Ghana e la Guinea, una volta indipendenti, si rifiutarono di continuare a rifornire il cartello mondiale dei diamanti. Dell’attività estrattiva in Katanga si occupava, invece, l’Union Minière du Haut Katanga, che estraeva principalmente rame, uranio, zinco, radio, ferro, cobalto e che includeva alcune società fra cui l’inglese Tanganyka
Concessions Limited, la Société Générale du Belgique, ovvero una delle più influenti
banche belga, la Compagnie du Katanga, anch’essa belga e, infine, il Comité Spécial
22 G. P. Calchi Novati, Le rivoluzioni dell’Africa Nera, Milano, Ed. dall’Oglio, 1967, pp. 230-231. 23 L. Ferraresi, op. cit., p. 58.
24 C. Carbone, Burundi Congo Ruanda. Storia contemporanea di nazioni etnie stati, Roma, Gangemi
8
du Katanga, in parte di proprietà dello stato congolese e in parte della stessa
Compagnie du Katanga25. Insomma, per dirla con Luciano Ferraresi, «l’imperialismo internazionale doveva neutralizzare subito Lumumba e sostituirlo subito con qualcuno che fosse insensibile al problema della liberazione dell’Africa e disponibile all’interno del paese a soluzioni neocolonialiste per la continuazione dello sfruttamento del Congo»26. La secessione delle province del Katanga prima e del Kasai dopo fornirono già nell’estate 1960 l’occasione per mettere in crisi lo status quo.
Nelle settimane che seguirono la proclamazione dell’indipendenza, il governo si trovò a fronteggiare il malcontento della popolazione congolese circa il perdurare della presenza dei bianchi in numerosi posti di comando all’interno dell’esercito e dell’apparato amministrativo, malcontento che si tradusse dapprima nell’ammutinamento della Force Publique, scoppiato nella regione del Basso Congo e diffusosi in vari centri del Paese, e in seguito in agitazioni sindacali. Lumumba e Kasavubu cercarono di tamponare le sommosse procedendo subito all’africanizzazione dell’esercito nazionale, che cambiò nome in Armée Nationale Congolaise (ANC), mentre i posti di comando furono affidati a due congolesi, Victor Lundula e Joseph Desiré Mobutu, che furono nominati rispettivamente comandante in capo e capo di stato maggiore dell’esercito27. Nonostante il repentino intervento del governo centrale e nonostante la modesta entità dei disordini, il Belgio colse l’occasione per intervenire con 10 000 uomini a protezione dei propri connazionali, senza, però, il previo consenso del governo congolese. Tuttavia, il principale intervento belga fu posto in atto in Katanga, dove Moise Tshombé, a capo della CONAKAT, deteneva le redini del governo regionale28. Approfittando della situazione caotica nel Paese e, in particolare, nei ranghi dell’ANC, l’11 luglio 1960 Tshombé proclamò la secessione della regione del Katanga, e motivò ufficialmente l’atto accusando Lumumba di essere un agente del comunismo internazionale, nonché la causa dei disordini che stavano minacciando il Congo. Da un lato, l’azione
25 L. Ferraresi, op. cit., p. 57. 26 Ivi, p. 58.
27 J. Gerald-Libois, Katanga Secession, Madison, University of Wisconsin Press, 1966, p. 95.
28 Occorre precisare che alle elezioni del maggio 1960, nonostante l’appoggio belga, in realtà non fu la
CONAKAT a raccogliere più consensi, bensì la BALUBAKAT, che si opponeva al federalismo della prima. Tuttavia, attraverso vari brogli, il partito di Tshombé riuscì ugualmente ad ottenere la maggioranza dei deputati nell’Assemblea provinciale e, grazie all’intercessione del parlamento belga, fu modificata la Loi Fondamentale, in modo che sarebbe stata sufficiente la maggioranza semplice, anziché i due terzi, per deliberare all’interno dell’Assemblea provinciale del Katanga. È così che Tshombé riuscì a formare il governo katanghese (Cfr. L. Ferraresi, op. cit., p. 63).
9 di Tshombé fu dettata dalla sua preoccupazione per il mantenimento del proprio potere personale, vista la determinazione del premier di formare uno stato centralizzato, in cui sarebbe stata Léopoldville a controllare politicamente ed economicamente la provincia katanghese. Dall’altro lato, la secessione fu caldeggiata e finanziata dal Belgio e dalla lobby dell’industria mineraria, interessati a proteggere la zona dai tumulti in corso, nell’ottica del mantenimento di un controllo diretto delle ricchezze minerarie della provincia; altro aspetto decisivo riguardava la preoccupazione per le sorti dei numerosi residenti bianchi che abitavano ancora il Katanga, i quali, per altro, si erano mostrati poco disposti a ricadere sotto la giurisdizione di un leader anticolonialista e panafricanista come Lumumba29. Il coinvolgimento belga può essere testimoniato, ad esempio, dal fatto che belgi erano gli ufficiali a capo dell’esercito secessionista e i dirigenti della gendarmeria locale, senza dimenticarci di come l’esercito belga impedì l’atterraggio dell’aereo che stava portando Lumumba e Kasavubu a Elisabethville per intraprendere un dialogo con il leader della secessione30. Immediatamente il governo congolese ruppe le relazioni diplomatiche con l’ex-madrepatria e si rivolse alle Nazioni Unite chiedendo specificamente un intervento militare finalizzato non ad intervenire nella situazione interna del Paese per ristabilirvi la pace, bensì a proteggere il Congo dall’aggressione belga; due giorni dopo, il 14 luglio 1960 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite approvò la Risoluzione 143, con la quale ebbe inizio la prima missione ONU in Congo, che prese il nome di Opération des Nations Unies au Congo (ONUC). Inizialmente tale missione aveva il compito di portare a termine il ritiro dei militari belgi dal Paese e di offrire al governo assistenza tecnica per ristabilire l’ordine pubblico; successivamente il mandato fu esteso fino a comprendere la salvaguardia dell’integrità territoriale e dell’indipendenza del Congo, il mantenimento dell’ordine e dello stato di diritto ed infine l’offerta, ancora una volta, di assistenza tecnica in vari ambiti31.
Intanto, sulla scia di quanto stava accadendo nel vicino Katanga, Albert Kalonji, leader dell’ala federalista del MNC, proclamò l’indipendenza del Sud-Kasai, rinominandolo “Stato minerario del Sud-Kasai”. Per le stesse ragioni menzionate sopra, il Belgio e Tshombé accolsero con favore questa secessione, anche perché andava a costituirsi uno stato cuscinetto fra la zona controllata dal governo centrale e
29 S. Bellucci, op. cit., p.46. 30 L. Ferraresi, op. cit., p. 63.
10 il Katanga32. A fronte di questo ulteriore attentato all’integrità territoriale congolese, Lumumba chiese alla ONUC di intervenire in maniera più incisiva contro le due secessioni, ma si trovò di fronte ad un atteggiamento piuttosto restio del Segretario generale Dag Hammarskjöld, che cercò di far rimanere i Caschi blu al di fuori dei combattimenti in corso33. Lo stesso Hammarskjöld aveva accettato le condizioni imposte da Tshombé per l’ingresso delle truppe ONUC in Katanga e ciò fu interpretato dal governo congolese come uno schieramento a favore delle due secessioni. Profondamente insoddisfatto e deluso da un tale atteggiamento, Lumumba si decise a chiedere aiuto all’Unione Sovietica, la quale non esitò a rifornire l’ANC di equipaggiamenti militari di vario tipo e tecnici specializzati, che permisero all’esercito regolare di sferrare alcuni attacchi in Kasai e Katanga34. Come era prevedibile, l’entrata in scena del supporto sovietico destò la preoccupazione delle potenze occidentali per una possibile infiltrazione comunista nella regione e le spinse a considerare come sempre più inevitabile l’eliminazione, quanto meno politica, del primo ministro. La riprova che un complotto contro Lumumba era già in atto non tardò a palesarsi: a settembre, nel momento in cui l’ANC stava raccogliendo i primi successi contro i secessionisti, il presidente della repubblica Kasavubu annunciò alla radio la destituzione del primo ministro, mentre l’ONUC e Mobutu stavano organizzando un ponte aereo per far evacuare le truppe congolesi dalla provincia del Katanga. Conseguentemente, il regime di Tshombé fu mantenuto in vita, al contrario Lumumba fu tolto di scena proprio quando la vittoria sui secessionisti lo stava portando all’apice del consenso politico nazionale. A fronteggiare la gendarmeria katanghese rimasero solo gli uomini della BALUBAKAT, i quali furono trascinati in una sanguinosa guerra civile che né le forze europee, né i governanti locali si preoccuparono di arrestare35. La crisi congolese mise in evidenza il clamoroso fallimento della missione delle Nazioni Unite, che si dimostrò essere sempre più in balia dello scontro fra gli interessi economici dei Paesi occidentali e delle relative multinazionali del settore estrattivo, il tentativo del blocco sovietico di penetrare in una zona strategica dal punto di vista geopolitico e, infine, le spinte secessioniste dei leader locali.36
32 L. Ferraresi, op. cit., pp. 66-67.
33 A. Mockler, Storia dei mercenari. Da Senofonte all’Iraq, Bologna, Odoya, 2012, p. 174. 34 L. Ferraresi, op. cit., pp. 66-69.
35 Ivi, p. 70.
11 Lo scontro fra Kasavubu e Lumumba, il quale aveva a sua volta destituito il capo dello stato, condusse ad un’impasse politica che il parlamento nazionale non fu in grado di risolvere. Mobutu il 14 settembre 1960 mise in atto il suo primo, seppur breve, colpo di stato: il potere fu affidato ad una commissione di tecnici congolesi e stranieri che avrebbero dovuto preoccuparsi di ristabilire l’ordine nel Paese. L’azione di Mobutu prese subito una piega deliberatamente anticomunista, infatti, oltre ad averlo dichiarato pubblicamente, egli si apprestò a espellere dal Congo i diplomatici sovietici e cecoslovacchi. Sebbene il colpo di stato annientasse allo stesso modo anche l’autorità di Kasavubu, quest’ultimo non tardò a riconoscere il governo tecnico e a rendere omaggio all’intervento salvifico di Mobutu, fornendo la dimostrazione di come tutto ciò fosse stato orchestrato con lo scopo di liberarsi di Lumumba. Quest’ultimo, avendo ricevuto un mandato d’arresto, fu inizialmente posto sotto la protezione dei Caschi blu a Léopoldville, mentre i suoi fedelissimi, guidati da Antoine Gizenga, instaurarono un governo filo-lumumbista nella Provincia Orientale (Stanleyville), proclamando la nascita della Repubblica Libera del Congo37. D’altro canto il leader congolese sapeva di non potersi più fidare delle Nazioni Unite38, per cui decise di tornare a Stanleyville con lo scopo di riorganizzare il suo movimento: fu proprio in tale occasione che Lumumba fu catturato da militari fedeli a Mobutu e condotto prima a Stanleyville e successivamente in Katanga, dove fu ucciso insieme ad altri due ministri del suo governo, Maurice Mpolo e Joseph Okito, per mano dei gendarmi dietro ordine di Tshombé. Era il 17 gennaio 1961, ma la notizia fu diffusa solamente tre settimane più tardi, quando la radio del Katanga comunicò che l’uccisione era avvenuta durante un tentativo di fuga del prigioniero39.
Riguardo la responsabilità materiale e morale dell’assassinio del primo ministro congolese sono state avanzate numerose ipotesi, gran parte delle quali parlano di un coinvolgimento diretto, in primis, di Belgio e Stati Uniti, nonché dell’atteggiamento controverso delle Nazioni Unite. Prima di addentrarci nel labirinto delle responsabilità dirette e indirette di questa vicenda, occorre ribadire come la questione congolese a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta abbia cessato di costituire una
37 L. Ferraresi, op. cit., pp. 72-73.
38 La rottura fra Lumumba e Kasavubu si verificò proprio in contemporanea alla procedura di ingresso
del Congo alle Nazioni Unite, avvenuto nel settembre 1960. Per l’occasione si presentarono due delegazioni distinte del governo congolese, così l’Assemblea generale dovette prendere una decisione e accreditarne solo una: dietro la spinta statunitense, la maggioranza degli Stati membri votò in favore della delegazione facente capo a Kasavubu, lanciando quindi un messaggio politico molto forte in relazione a quanto stava accadendo nel Paese (Cfr. L. Ferraresi, op. cit., p. 73).
12 “semplice” questione di decolonizzazione e lotta per l’indipendenza, ossia solamente un affare riguardante il Belgio e il Congo. Erano gli anni centrali della Guerra fredda e le vicende africane si inserivano pienamente all’interno della contrapposizione fra i due blocchi. Infatti, il coinvolgimento di Stati Uniti, Unione Sovietica e altre potenze non era dettato esclusivamente da motivazioni di ordine economico, legate allo sfruttamento del ricchissimo sottosuolo della regione; certo, le multinazionali del settore estrattivo hanno sempre fatto la loro parte, sia a livello politico che economico, per fare pressione sui rispettivi governi, affinché questi tutelassero i loro interessi. Tuttavia, nel momento in cui il governo Lumumba si rivolse all’Unione Sovietica, chiedendo supporto militare e tecnico contro le secessioni in corso, il coinvolgimento occidentale si era fatto più forte e soprattutto più palese, fino poi a raggiungere l’apice con l’eliminazione fisica del leader anticolonialista.
È del 16 novembre 2001 l’inchiesta parlamentare condotta dalla Camera dei rappresentanti del Belgio, che mirava a determinare le circostanze esatte dell’assassinio di Patrice Lumumba e l’eventuale implicazione dei responsabili politici belgi. Essa elenca i vari piani per la sua eliminazione fisica, fra cui quello
progettato dai katanghesi, l’«Opération L» belga e quello degli Stati Uniti del presidente Eisenhower40, e mette in luce il ruolo dell’Union Minière du Haut Katanga nella sollevazione katanghese e nella morte del primo ministro. In quel periodo l’Union Minière era sicuramente la società di estrazione più importante del Katanga, impiegava 1755 funzionari e 20876 lavoratori manuali, e costituiva una forza economica fondamentale; è facile pensare come essa abbia potuto interpretare l’indipendenza prima, e l’avvento di Lumumba dopo, come un salto nel buio, un cambiamento storico indesiderato. Allo stesso modo, capì ben presto che Tshombé e la secessione del Katanga avrebbero fatto al caso suo e non esitò a finanziare la CONAKAT e il governo secessionista con ben 1.250.000.000 di franchi belgi: va da sé che Tshombé divenne una «marionetta» nelle mani della società belga e il suo potere nei confronti del governo centrale non sarebbe stato così incisivo senza un tale finanziamento41. Le conclusioni dell’inchiesta parlamentare sono chiare e ammettono, anzitutto, che l’indipendenza del Congo non aveva impedito al Belgio e altri Stati di intervenire negli affari interni dell’ex colonia, ben oltre la bandiera
40 ENQUÊTE PARLEMENTAIRE visant à déterminer les circonstances exactes de l’assassinat de
Patrice Lumumba et l’implication éventuelle des responsables politiques belges dans celui-ci,
Chambre des représentants de Belgique, 16 novembre 2001, http://www.lachambre.be/FLWB/PDF/50/0312/50K0312006.pdf, pp. 127-130.
13 dell’intervento umanitario in favore dei propri connazionali ancora residenti nel Paese;; ciò viene dimostrato, continua l’inchiesta, con l’appoggio logistico e finanziario belga alle due secessioni e a Tshombé in particolare, con lo scopo di togliere potere a Lumumba e favorire la nascita di un Congo federale o confederale, più facilmente controllabile dalle multinazionali e dai Paesi occidentali. L’inchiesta sottolinea, poi, come le Nazioni Unite abbiano fatto il resto, a partire dal fatto che furono approvate risoluzioni e inviati i Caschi blu a protezione dell’integrità territoriale, salvando però il regime Tshombé, e come sia stata proprio la CIA a progettare in definitiva l’eliminazione fisica di Lumumba42.
14
L’era Mobutu e la Prima guerra del Congo
Dopo la scomparsa di Lumumba, le Nazioni Unite ripresero le redini della situazione, sconfissero le forze di Tshombé e riconquistarono il controllo di quasi tutto il territorio nazionale. Contemporaneamente ripristinarono il parlamento, il quale affidò la guida del governo di unità nazionale a Cyrille Adula, un moderato che godeva delle simpatie dell’Occidente. Ma la situazione interna non si placò affatto e, anzi, Adula si trovò a fronteggiare nuovi tentativi secessionisti e, in particolare, una guerriglia contadina che si era sviluppata nelle province centro-orientali, guidata da Pierre Mulele, lumumbista e filo maoista. La sua insurrezione mirava a liberare effettivamente il Congo dalla presenza bianca, da qualsiasi legame col colonialismo e con gli interessi occidentali, in modo da procedere alla risoluzione della questione congolese senza ingerenze straniere43. Essa vide la partecipazione del futuro presidente Laurent-Désiré Kabila e fu appoggiata da molti Paesi terzomondisti, fra cui Cina e Cuba; un buon motivo per far intervenire ed interferire nuovamente la potenza statunitense, che offrì supporto bellico al generale Mobutu per la repressione della rivolta44.
Ad aprile 1965 si svolsero nuove elezioni politiche per il rinnovo del parlamento, durante le quali fu protagonista lo scontro fra la fazione facente capo a Kasavubu e quella di Tshombé, maggioritaria; tale rivalità condusse ad uno stallo politico di cui approfittò, ancora una volta, Mobutu, che il 25 novembre 1965 attuò il suo secondo colpo di stato. Il generale si autoproclamò presidente della repubblica e instaurò fin da subito un regime autoritario, in cui l’unico partito legale divenne il suo
Mouvement Populaire de la Revolution, fondato nel 1967. Successivamente si
proclamò anche capo di governo, comandante delle forze armate e della polizia e dette avvio ad un programma di africanizzazione del Congo che prese il nome di “Authenticité”: il popolo congolese avrebbe dovuto recuperare i propri stili di vita e cessare di rifarsi ai modelli occidentali o sovietici; così, ad esempio, fu abbandonata la toponomastica occidentale, il Congo divenne Zaire ed egli stesso si ribattezzò Mobutu Sese Seko. In molti hanno definito lo Zaire di Mobutu, oltre che una dittatura, una cleptocrazia, in cui la corruzione l’ha fatta da padrona e le ricchezze del Paese, nonché gli aiuti internazionali, hanno portato giovamento solamente al
43 L. Ferraresi, op. cit., pp. 79-121. 44 S. Bellucci, op. cit., p, 70.
15 patrimonio del presidente e di una ristretta cerchia di collaboratori, lasciando invece la popolazione in un perenne stato di povertà e sfruttamento45.
Anche sotto Mobutu lo Zaire ricoprì un ruolo geopolitico di prim’ordine nel quadro della contrapposizione est-ovest, in quanto divenne sempre di più «un bastione dell’anticomunismo per tutta l’Africa»46 e un avamposto preziosissimo per il controllo francese e statunitense sull’Africa sub-sahariana; vedi, ad esempio, il ruolo fondamentale che svolse lo Zaire nel sostenere la guerriglia contro il Movimento popolare di liberazione dell’Angola e contro il Frelimo in Mozambico, entrambi sostenuti da Mosca, tanto da fargli guadagnare, per molti anni, l’appoggio e l’amicizia di numerose potenze occidentali, nonostante il suo carattere di regime violento e corrotto. A dimostrazione di quanto detto, l’atteggiamento del mondo democratico nei confronti dello Zaire di Mobutu cambiò radicalmente proprio in concomitanza della caduta del muro di Berlino, quando cioè insieme alla minaccia comunista venne meno anche parte della rilevanza strategica del Congo. Del resto, la sensibilità dell’opinione pubblica occidentale non permetteva più ai rispettivi governi di intrattenere così disinvoltamente buoni rapporti con dei regimi autoritari come quello zairese, ma, soprattutto, erano cambiate le modalità attraverso cui poter mettere le mani sulle ricchezze dei paesi in via di sviluppo; in effetti, dopo essersi liberato dai meccanismi di intervento dettati dalla guerra fredda, l’Occidente adottò sempre di più dei meccanismi di democratizzazione e di liberalizzazione, finalizzati alla creazione di sistemi politici ed economici adatti alle esigenze del capitalismo mondiale47.
Per far fronte alle pressioni interne ed estere, nel 1990 Mobutu decise di reintrodurre il multipartitismo, che ebbe però l’effetto di far emergere la forte opposizione politica al suo regime; prese avvio un periodo di transizione politica che condusse il Paese in una profonda crisi interna, la quale andò a sovrapporsi alla crisi scatenatasi all’indomani del genocidio in Ruanda.
È necessario, adesso, aprire una finestra sul genocidio ruandese, per poi andare ad illustrare come si è arrivati alla caduta del regime Mobutu e allo scoppio della Prima guerra del Congo. Lo scontro tra hutu e tutsi, avvenuto tra aprile e luglio 1994, è innanzitutto il risultato di decenni di politiche coloniali e postcoloniali, sia tedesche sia belghe, incaute, che hanno portato al cambiamento forzato e irreversibile del
45 Ibidem. 46 Ibidem.
16 tessuto sociale di un’intera regione. Il Ruanda precoloniale era un regno in cui le popolazioni hutu e tutsi non costituivano due etnie separate e diverse, e non erano neppure in conflitto fra loro: gli hutu costituivano il gruppo sociale ed economico legato all’agricoltura, mentre i tutsi si dedicavano all’allevamento;; ciò nonostante, vi era perfetta mescolanza e fluidità fra questi due gruppi, nel senso che un hutu poteva diventare un tutsi e viceversa, a seconda del ruolo assunto all’interno della società e, per di più, le cariche politiche più alte potevano essere ricoperte da entrambi48. Le cose cambiarono profondamente già con la colonizzazione tedesca di fine Ottocento, quando cioè la distinzione fra le due categorie si cristallizzò sulla base di connotazioni etniche e razziali, come la differenza di altezza, di fisionomia, di colore della pelle, ecc. La scelta tedesca prima e belga poi di amministrare questi territori in modo indiretto rese necessario individuare un gruppo sociale ben definito che fungesse da fedele emissario del potere coloniale in loco; così, gli europei scelsero l’etnia tutsi, etichettandola come razza superiore, contro l’etnia hutu, maggioritaria in Ruanda, che fu considerata razza inferiore, in quanto “rozza dal punto di vista fisico e intellettivo”, e per questo da escludere tassativamente da qualsiasi posto di comando e da relegare in posizioni subalterne49. A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, gli hutu ruandesi cominciarono a ribellarsi al regime discriminatorio attuato dall’etnia rivale, minoritaria, e lo status quo nella colonia cominciava a vacillare. Dall’altro lato, fra i tutsi, la parte più colta della popolazione, iniziarono a circolare idee di stampo socialista e panafricanista, mentre lo scoppio della lotta per l’indipendenza sembrava imminente. Il Belgio, allora, scelse di voltare le spalle all’etnia tutsi al potere, per sostenere invece la parte hutu, rappresentata dal Parmehutu, partito cattolico conservatore e razzista. Questi ultimi godevano anche dell’appoggio francese, che Parigi giustificava qualificandolo come atto di democrazia, visto che gli hutu continuavano a costituire la maggioranza dei ruandesi. Ancora una volta, la paura del dilagare del socialismo in Africa ha condotto le potenze occidentali a sostenere una fazione piuttosto che l’altra, nonostante le efferatezze che gli hutu avevano iniziato a porre in essere contro i tutsi ben prima del 199450. Nel 1962 il Ruanda raggiunse l’indipendenza e divenne una repubblica governata da un presidente hutu e, di conseguenza, fu inaugurata una stagione di
48 F. Tinti, Il genocidio in Ruanda: il dovere di sapere, in “Afriche e orienti”, n. 1-2, Repubblica di
San Marino, Aiep editore, 2004, p. 218.
49 Ibidem.
17 discriminazioni etnico-razziali e di persecuzioni ai danni dei tutsi, i quali presero a rifugiarsi nei Paesi vicini, come Zaire, Uganda e Burundi. In Uganda i rifugiati tutsi si organizzarono politicamente nel Fronte Patriottico Ruandese (FPR), con l’obiettivo di riprendersi il potere. Già dal 1990 in Ruanda la situazione economica e politica si aggravò sempre di più a causa, principalmente, dei tentativi del FPR di valicare il confine e della reintroduzione del multipartitismo, che spinsero l’élite hutu a progettare il genocidio, così da mascherare l’eliminazione fisica degli oppositori politici in tal modo51. Gli hutu etichettavano l’etnia tutsi come la fonte di tutti i mali, il capro espiatorio contro cui fomentare l’odio di quella parte di popolazione che è sempre stata più povera e sottomessa52. La stessa dinamica si è presentata allo scoppio del genocidio, quando il 6 aprile l’aereo che stava trasportando verso Kigali il presidente ruandese Juvénal Habyarimana e il suo omologo burundese esplose in circostanze tutt’oggi misteriose53; pochi minuti dopo iniziarono i massacri degli hutu ai danni dei tutsi, ma anche contro gli hutu moderati, accusati di essere i colpevoli dell’incidente aereo: nell’arco di tre mesi furono uccise, mutilate, violentate dalle 800.000 a 1.000.000 di persone, su una popolazione di 7,5 milioni di abitanti54. I Paesi limitrofi furono interessati da due diverse ondate di profughi ruandesi, una prima ondata di tutsi e hutu moderati in fuga dalle efferatezze compiute durante il genocidio e una seconda ondata costituita, stavolta, dagli hutu preoccupati da eventuali rappresaglie da parte del nuovo governo. Infatti, il genocidio terminò con l’arrivo in Ruanda dei guerriglieri tutsi del FPR, che presero le redini del potere politico affidando la presidenza a Paul Kagame. In particolare, gli hutu, fra cui molti autori del genocidio, si rifugiarono prevalentemente nei campi profughi del Congo orientale, sotto la protezione di un Mobutu che vedeva nell’ascesa del Fronte Patriottico Ruandese una certa interferenza del nemico storico ugandese. Di fatto, l’imponente esodo di ruandesi hutu e tutsi nello Zaire comportò tutta una serie di problemi sia per essi stessi, sia per gli autoctoni, già profondamente colpiti da condizioni di vita svantaggiose, tanto da far sviluppare una vera e propria crisi dei
51 F. Tinti, op. cit., pp. 219-220.
52 G. Prunier, The Ruanda Crisis: History of a Genocide, London, Hurst, 1995.
53 I due presidenti erano di ritorno da Arusha, in Tanzania, sede dei negoziati di pace fra il governo
ruandese e i militanti del FPR: gli accordi di pace, che Habyarimana si era deciso ad applicare, prevedevano il cessate il fuoco, la condivisione delle cariche politiche e militari, il ritiro delle truppe francesi dalle zone di combattimento, il ritorno dei profughi in patria e l’apertura di un’inchiesta indipendente sulle violenze passate (Cfr. J. L. Touadi, Congo, Ruanda..., cit., p. 29).
18 Grandi Laghi, il cui epicentro si spostò velocemente dal Ruanda alle regioni orientali dello Zaire55.
Più di un milione di rifugiati ruandesi si riversarono in Congo, prevalentemente nelle regioni del Kivu, contribuendo ad aggravare una situazione già precaria da un punto di vista umanitario, sociale ed economico; nei campi profughi mancavano le tende, i medicinali e il cibo per gli sfollati e le associazioni umanitarie non riuscivano più a fronteggiare la situazione catastrofica. Tuttavia, il problema non era solo di ordine umanitario, perché, come ho già accennato, fra gli hutu vi era una forte presenza di ex militari dell’esercito ruandese o capi delle milizie interhamwe, autori del genocidio, i quali continuarono ad imporre la loro supremazia ai connazionali tutsi e cercarono in qualche modo di riprendersi il potere in patria. Inoltre la rappresaglia hutu non si scatenò solamente ai danni dei tutsi presenti nei campi profughi o rimasti in patria, bensì si rivolse anche contro i banyamulenge, cioè i tutsi congolesi che abitavano il Kivu da oltre due secoli e che erano già implicati in una situazione di profonda conflittualità etnica e sociale con le altre etnie originarie della regione56: infatti, le genti di origine ruandese venivano sempre più spesso additate come capro espiatorio per il caos dilagante nel Paese. In verità, il sistema cleptocratico non era più in grado di reggersi in piedi a livello di disponibilità di risorse economiche, mentre la scelta di reintrodurre il multipartitismo aveva portato ad una sorta di apertura del vaso di Pandora con conseguente indebolimento dell’autorità di un Mobutu, per altro, gravemente malato57. Dunque, da un lato vi era il Ruanda che aveva la necessità di mettere in sicurezza il suo confine occidentale, minacciato, abbiamo detto, dalle continue incursioni dei rifugiati hutu contro cui Mobutu non fece mai niente;; dall’altro lato, emerse con forza una problematica più profonda, quella della ricerca, da parte di Burundi e Ruanda, di uno spazio vitale atto a dare sfogo alla crescita demografica che i due piccoli Paesi non erano più in grado di contenere, fino poi a ipotizzare addirittura la creazione di una nazione tutsi etnicamente omogenea. Il tutto considerando l’eventualità dello smembramento dell’agonizzante Zaire: già nel dicembre 1996 sulla stampa internazionale, come l’”International Herald Tribune”, si leggeva che «il Congo era il risultato di un’unione impossibile, non naturale. La frontiera coloniale non poteva essere
55 S. Bellucci, op. cit., p. 72-77.
56 J. L. Touadi, Congo, Ruanda..., cit., pp. 35-37.
57 K. Vlassenroot, I molti volti delle ribellioni nella Repubblica Democratica del Congo. Una
prospettiva dal basso su violenza e guerra nelle province del Kivu e in Ituri, in "Afriche e orienti", n.
19 considerata eternamente come sacrosanta»58, quasi come a voler abituare l’opinione pubblica alla realizzazione di un progetto geopolitico già concepito. Non era un caso che una certa ipotesi ventilasse maggiormente sulle pagine dei quotidiani anglo-sassoni; pertanto, nell’illustrazione delle cause della Prima guerra del Congo, occorre inserire il discorso sulla rivalità franco-americana per l’egemonia nell’Africa sub-sahariana. La scomparsa del nemico sovietico, comune a tutto l’occidente, aveva aperto la strada a nuove contrapposizioni, nel nostro caso a quella fra Francia (ed Europa) e Stati Uniti (e mondo anglosassone) per l’egemonia nell’Africa sub-sahariana: i francesi sostenevano il governo hutu (durante e dopo il genocidio) in Ruanda, e in Zaire quello del generale Mobutu, considerato un prezioso partner per il mantenimento della loro influenza economica e politica nella regione. Al contrario, per gli statunitensi, Mobutu non rispondeva più alle esigenze della politica di good
governance, democratizzazione e liberalizzazione59 che essi stavano introducendo in
tutto il Terzo mondo, dunque a Washington sarebbe servito qualcuno a cui affidarsi per sovvertire gli equilibri africani e per usufruire al meglio delle ricchezze naturali della regione60. L’uomo giusto fu Laurent Désiré Kabila, discepolo di Lumumba e compagno di Mulele nel suo tentativo di insurrezione, da sempre nemico del regime mobutista e dal quale si rifugiò per anni in Uganda e Tanzania, dove si arricchì attraverso i traffici, più o meno leciti, di oro, avorio e diamanti61. Approfittando della rivolta dei banyamulenge a est, della debolezza di Mobutu, nonché dell’appoggio di Ruanda, Uganda e asse anglo-americano, Kabila rientrò in patria e formò l’Alliance
des Forces Démocratiques de Libération du Congo-Zaire (AFDL), a cui si unirono
gli oppositori al regime;; nell’ottobre 1996 ebbe così inizio la lunga marcia di Kabila, che percorse l’intero Stato fino a conquistare Kinshasa nella primavera dell’anno successivo e a determinare, dunque, la caduta definitiva di Mobutu. Kabila e le truppe dell’AFDL ebbero gioco facile in quanto godevano del sostegno logistico delle milizie ruandesi già dislocate sul territorio, mentre le Forze armate zairesi, ormai allo sbando, in alcuni casi si ritirarono e vendettero al nemico le armi ancora in
58 J. L. Touadi, Congo, Ruanda..., cit., p. 36.
59 Alcune statistiche del 1996 rivelavano come l’Africa avesse scavalcato la vecchia URSS come
partner commerciale degli Stati Uniti e che gli investimenti americani in Africa erano diventati tre volte più redditizi rispetto alla media mondiale (Cfr. P. Petrucci, E Clinton inventò Kabila, in “L’Espresso”, 22 maggio 1997, p. 92). Era chiara la necessità statunitense di difendere al meglio tali interessi.
60 G. Prunier, Congo-Kinshasa: la première guerre inter-africaine, in “Géopolitique africaine”, n. 1,
Paris, ORIMA International, 2001, pp. 127-149.
20 funzione62. Ma al successo militare seguì presto una disfatta politica, data dal fatto che nonostante il cambiamento di presidenza e il ritorno ai simboli, alla bandiera e all’inno della prima repubblica, il Congo, rinominato Repubblica Democratica del Congo, continuò a vivere profonde lotte a sfondo etnico per il controllo del territorio e, dunque, una frammentazione nazionale che arriva fino ai giorni nostri. A livello politico, Kabila abolì tutti i partiti politici e concentrò nelle proprie mani i poteri esecutivo, legislativo e militare63. La questione di maggior rilievo riguardava, tuttavia, la mancanza di autonomia di un Kabila ostaggio dei propri Stati protettori, in primis Ruanda e Uganda, tanto che, per dirla con Touadi, «Kigali suonava la musica e Kinshasa ballava»64; perciò il neo-presidente decise di smarcarsi, di allontanarsi dai propri padrini e di continuare a guidare il Paese in tutta autonomia, senza considerare le conseguenze di un gesto tanto precipitoso.
La Guerra mondiale africana
Nell’estate 1998 fu inaugurata una stagione di epurazioni dal governo e dall’esercito di ruandesi e ugandesi rimasti dopo la marcia di Kabila, scatenando così la reazione dei due Paesi limitrofi. Questi adottarono una strategia di attacco indiretto, ovvero non mirarono subito alla capitale, bensì ritirarono le proprie truppe ad est, dove furono capaci di sfruttare il malcontento diffuso, a causa di malgoverno, autoritarismo e corruzione, per fomentare l’odio contro Kabila stesso. Mentre le truppe di Angola, Ciad, Namibia, Sudan e Zimbabwe erano accorse a difesa del presidente congolese, Ruanda e Uganda, appoggiati anche dal Burundi, assecondarono la nascita di due principali gruppi ribelli, sostenendoli in termini di armi e denaro: il primo e più importante era il Rassemblement congolais pour la
démocratie (RCD), presente in una vasta regione che si estendeva dal Kivu al Kasai,
dal Katanga al Maniema, e che si spaccò quasi subito in varie fazioni, fra cui le maggiori erano RCD-Goma e RCD-ML, appoggiati rispettivamente da Ruanda e Uganda. L’altro era il Movimento di liberazione del Congo (MLC) di Jean-Pierre Bemba, sostenuto dall’Uganda e che controllava la regione dell’Equatore oltre alla
62 J. L. Touadi, La guerra mondiale dei Grandi Laghi, in “Limes. L’Africa a colori”, n. 3, Roma,
Gruppo L’espresso, 2006, p. 219.
63 L. Baroncelli, The political transition in the Drc between achievement and unending process, ISPI
Analysis n. 195, agosto 2013, p.4, http://www.ispionline.it/sites/default/files/pubblicazioni/analysis_baroncelli_africa_2013.pdf.
21 parte settentrionale del Paese; per parte sua, il governo centrale godeva dell’appoggio del movimento dei Mai-Mai, nato in maniera piuttosto spontanea negli ambienti rurali del Kivu e del Maniema, sostenitore del tentativo di Kabila di liberarsi dalle ingerenze straniere e di ripristinare l’ordine nel Paese65. Tutte queste scissioni non rispecchiavano solamente una frammentazione politica e militare congenita del Congo orientale, bensì costituivano la riprova della crescente discordia fra Uganda e Ruanda, riguardante il controllo delle zone più redditizie, come quella intorno a Kisangani ricchissima di diamanti: è evidente come il pretesto di attaccare il Congo per una mera ragione di difesa dei propri confini non stava più in piedi. In ogni caso, a partire dal 1998, il Congo orientale si configurò come un territorio diviso in varie
enclave, ognuna corrispondente al territorio controllato da un diverso gruppo
ribelle/Stato estero e facente capo a interessi politici ed economici differenti. Questa situazione così confusa condusse, paradossalmente, ad una certa stabilità o, quanto meno, continuità politica ed economica nella gestione degli affari locali, nettamente più vantaggiosa per gli attori coinvolti rispetto ad uno scenario di guerra aperta66. Vista la situazione di stallo, si intuì che sarebbe stata improbabile una vittoria militare di una fazione sull’altra e, sebbene, come si è detto, si fosse raggiunta una certa “stabilità”, a tratti anche vantaggiosa, occorreva giungere allo sblocco della situazione attraverso dei negoziati. Nel luglio 1999 furono firmati da tutti gli Stati coinvolti nel conflitto gli Accordi di Lusaka, che prevedevano il ritiro dal Congo di tutte le truppe straniere, il disarmo degli Interhamwe, l’avvio di un dialogo inter-congolese sotto gli auspici dell’Organizzazione per l’Unità Africana e, infine, la creazione di una missione delle Nazioni Unite in Congo, che prese il nome di
Mission de l'Organisation des Nations Unies en République démocratique du Congo
(MONUC). Intanto Kabila si impegnò nell’attuazione di una serie di riforme in senso democratico, nel tentativo di favorire l’unità politica e di riacquisire legittimità per il suo governo67. All’indomani della tregua intrapresa a Lusaka e promossa dall’amministrazione Clinton, la situazione non si semplificò affatto, in quanto, da un lato il Pentagono continuò ad appoggiare militarmente i propri gendarmi (Uganda, Ruanda, Burundi), dall’altro l’alleanza fra Ruanda e Uganda si ruppe definitivamente
65 Ivi, pp. 42-43.
66 K. Vlassenroot, op. cit., p. 9. 67 L. Baroncelli, op. cit., p. 5.
22 in seguito a numerose dispute legate alla spartizione dei proventi delle attività estrattive e di contrabbando delle materie prime della regione, in primis il coltan68. Il corso del conflitto cambiò veramente nel 2001, anno in cui Kabila, impopolare, troppo debole in patria e scomodo per gli interessi stranieri, fu assassinato da un suo soldato in circostanze ancora misteriose, lasciando la presidenza a suo figlio Joseph. Il giovane Kabila adottò un atteggiamento più conciliante nei confronti dei belligeranti e si apprestò subito a negoziare con successo il ritiro delle truppe straniere dal territorio congolese. Egli cambiò modo di fare politica e si rivelò molto più in linea, rispetto al predecessore, con il modus operandi occidentale, perfettamente consapevole ed inserito nelle dinamiche neoliberali del mondo globalizzato69. L’Accordo di pace di Pretoria fu firmato nel 2002 nell’ambito dello svolgimento del dialogo inter-congolese di Sun City, in Sudafrica, e condusse all’approvazione di una road map da seguire per approdare alla formazione di uno stato stabile, pacificato e democratico. Durante il periodo transitorio di due anni, il potere politico, militare ed economico sarebbe stato condiviso dai belligeranti, la società civile e l’opposizione politica, fino poi ad arrivare alle elezioni vere e proprie. In più, furono stipulati due accordi bilaterali fra la Repubblica Democratica del Congo, Uganda e Ruanda con lo scopo di normalizzare i rapporti internazionali fra Paesi confinanti. A metà 2003 la guerra poté considerarsi conclusa: le truppe straniere si erano ritirate e si insediò un governo di transizione, in cui furono inclusi i rappresentanti di tutti e cinque i principali gruppi armati, i quali si sarebbero dovuti trasformare in partiti politici, mentre Kabila fu affiancato da quattro vice presidenti (uno del governo centrale, uno del RCD, uno del MLC e uno proveniente dalla società civile)70. Nonostante tutto l’impegno profuso, da più parti, per giungere ad un certo livello di normalizzazione, la popolazione versava ancora in condizioni di vita e sicurezza pessime, dettate da malattie, malnutrizione, ma anche da un esercito corrotto e allo sbando, assenza dei servizi pubblici fondamentali, nonché da una profonda debolezza delle istituzioni.
68 S. Bellucci, op. cit., p. 80-81. 69 Ibidem.
23
Vecchi e nuovi disordini
Il periodo di transizione culminò con il primo esercizio elettorale libero dopo anni di colpi di stato e decisioni imposte dall’alto. Nel dicembre 2005, come previsto dagli accordi di pace, si svolse il referendum col quale fu approvata la nuova Costituzione, entrata in vigore all’inizio dell’anno successivo e che dava alla luce una repubblica semi-presidenziale decentrata, in cui i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario tornavano ad essere separati e le province acquisivano un certo grado di autonomia rispetto al centro. Il referendum fu seguito, nel 2006, dalle elezioni presidenziali, parlamentari e amministrative che sembrarono svolgersi in un clima di relativa calma e trasparenza (anche grazie alla presenza delle forze inviate dall’ONU e dall’Unione europea per visionare il loro corretto svolgimento) e che riconfermarono Joseph Kabila come capo di stato71. Se quest’ultima tornata elettorale pose formalmente termine al periodo transitorio, non si può affermare altrettanto circa la fine dei disordini e dell’instabilità nel Paese, in particolar modo a est, in Nord e Sud Kivu. Il protagonista della nuova ribellione fu il generale Laurent Nkunda, un tutsi congolese strettamente legato al Ruanda fin dai tempi della sua militanza all’interno del Fronte Patriottico Ruandese e che appoggiò la marcia di Kabila in qualità di ufficiale dell’ADFL. Allo scoppio, poi, della Seconda guerra del Congo, combatté nelle file del RCD, qualificandosi come uomo di fiducia per gli interessi del vicino Ruanda in Congo. All’indomani della Pace di Pretoria fu inaugurata in Congo una politica detta di “brassage”, volta cioè ad integrare le forze ribelli all’interno della nuova compagine governativa e militare, in base alla quale Nkunda divenne colonnello del nuovo esercito nazionale congolese (Forces Armées de la République
Démocratique du Congo, FARDC). Tuttavia questo “mixage” ebbe vita breve, in
quanto, già dal 2004, Nkunda si oppose al governo di Kabila dando vita ad una nuova ribellione tutsi nel Masisi, una provincia del Nord Kivu. Kinshasa, infatti, veniva accusata da Nkunda e dal Ruanda di non contrastare abbastanza le milizie hutu presenti ancora nel Paese e che, per altro, si erano riorganizzate nelle Forces
démocratiques de libération du Ruanda (FDLR), costituendo così una minaccia
sostanziale per la popolazione tutsi. Con tale pretesto, Nkunda, a partire proprio dal 2004, sferrò numerosi attacchi, concentrati intorno a Goma e Bukavu, contro l’esercito di Kabila e le FDLR, compiendo atti criminosi per i quali è stato persino accusato di crimini di guerra e crimini contro l’umanità da parte della Corte penale