“Lo Stato da una parte e i No Tav dall’altra: la solita vecchia storia che divide i cittadini in buoni e cattivi a seconda dei punti di vista, i moderni e gli antichi, chi vive per il futuro e chi pensa solo al passato”.
(L. Mazzetti)
Nei cinque lustri «della vicenda della nuova linea Torino-Lione, l’opposizione all’alta velocità ha cambiato più volte forma, dimensione e caratteristiche, ha modificato gli attori che vi partecipano, ha progressivamente raggiunto fasce di popolazione più ampie: ha quindi dovuto ricostruire e rinegoziare» schemi cognitivi, obiettivi, strategie, identità (Caruso e Fedi 2008: 30). Ma andiamo per ordine.
Le mobilitazioni che negli ultimi tempi hanno suscitato, in Italia, «maggiore eco nei media sono state probabilmente tre: quella No Tav (…), quella No Dal Molin sviluppatasi a Vicenza contro l’ampliamento di una base americana collocata nel territorio della cittadina veneta e quella No Ponte sorta in Calabria e Sicilia per impedire la costruzione di un ponte»
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(Roccato e Mannarini 2012: 10) tra le due regioni del Mezzogiorno d’Italia.
In Valle di Susa, i primi ad occuparsi della costruzione della nuova opera ferroviaria sono stati, «in gran parte, coloro che avevano seguito la realizzazione di un’altra grande infrastruttura: l’autostrada (Torino-Bardonecchia, nda). La vicenda (…) prende avvio negli anni ’70, raggiunge la fase di massimo interesse e coinvolgimento in valle intorno alla fine degli anni ’80 e si conclude (…) con la fine dei lavori» (Caruso e Fedi 2008: 29) a metà degli anni Novanta. Un arco di tempo durante il quale si accende, nella valle, «il dibattito su come affrontare le tematiche ambientali; gli addetti ai lavori e anche l’opinione pubblica si interrogano su temi quali: la coesistenza di ambiente e sviluppo; l’esigenza di coordinare le azioni di lotta contro i “pericoli ambientali” (…); il metodo con cui vengono gestiti gli interventi sul territorio» (Bonjean 1999: 115), anche e soprattutto in termini di presentazione alle popolazioni coinvolte.
Intorno «alla questione dell’autostrada si costituisce un insieme di soggetti ed un modello di azione che poi connoterà anche la prima fase dell’opposizione all’alta velocità: un insieme di militanti politici, attivisti cattolici, docenti universitari ed esperti “autodidatti” (…) interagisce con le istituzioni locali» (Caruso e Fedi 2008: 29) cercando di orientarne il comportamento142, senza però riuscire a fermare la realizzazione dell’opera. L’obiettivo, invece, viene raggiunto con la successiva strategia di resistenza e opposizione (Bonjean 1999) alla costruzione di un elettrodotto (Moncenisio- Piossasco143) sul finire del Novecento: un esito che – grazie alla loro forte articolazione argomentativa, oltre a una maggiore organizzazione144 – «dà soprattutto alle (…) associazioni ed istituzioni della valle la convinzione che la loro coesione ed il
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coinvolgimento dei settori della popolazione meno propensi a mobilitarsi possano essere un modello di azione efficace» (Caruso e Fedi 2008: 30). Il dibattito ambientale si basa ormai su procedure molto più flessibili e complesse di quelle puramente burocratiche e amministrative (Bonjean 1999), perciò «le precedenti opere realizzate in Valle (autostrada, elettrodotto) hanno, da un lato, (…) creato (…) sfiducia nei proponenti per le promesse di compensazioni non mantenute e, dall’altro, hanno fatto nascere e accumulare saperi tecnici e competenze partecipative necessarie ad organizzare una protesta efficace» (Fedi et al. 2008: 146) contro l’alta velocità ferroviaria.
Possiamo distinguere una prima fase della protesta No Tav, che va dall’inizio degli anni ’90 alla fine del decennio, una seconda che va dal 2000 al 2005 – in cui le manifestazioni contro la Torino-Lione vedono per la prima volta la partecipazione di tutti i sindaci145 della valle e di decine di migliaia di persone – e una terza fase che inizia nel 2005 (Caruso e Fedi 2008: 30). Entriamo, ora, nel dettaglio.
Corre l’anno 1991 quando «nasce il comitato Habitat, che raggruppa una sessantina di professionisti, operai, docenti e amministratori della Val di Susa» (Mazzetti 2012: 23), e che ha come suo obiettivo specifico l’opposizione alla nuova linea ferroviaria Torino-Lione, o quantomeno la raccolta di «tutte le informazioni ed osservazioni di carattere ambientale, tecnico e socio-economico inerenti l’infrastruttura al fine di giungere a un confronto con gli enti istituzionali e con i soggetti promotori del progetto146» (Ferlaino e Levi Sacerdotti 2005: 132). La prima manifestazione nazionale contro il Tav si realizza «l’11 marzo 1995 a Firenze, e vede la partecipazione dei comitati delle zone in cui dovrà passare la linea; il 2 marzo del 1996147 quattromila persone manifestano a Sant’Ambrogio148
contro l’alta velocità» (Mazzetti 2012: 23); qui «la protesta inizia a mettere in campo
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alcuni dei repertori di azione che la caratterizzeranno negli anni successivi, come l’allestimento del tendone che richiama quello degli Indiani d’America (…), di fronte alla stazione ormai chiusa da tempo» (Caruso e Fedi 2008: 33). A metà maggio, «sulle montagne di Condove e a Bussoleno appaiono le prime grandi scritte: “No Tav”» (Mazzetti 2012: 23). La presenza degli attivisti sul territorio non passa esclusivamente attraverso le assemblee e le manifestazioni pubbliche, ma sfrutta ogni mezzo e ogni occasione di socializzazione tradizionale: le fiere di paese, i mercati, le ricorrenze, le commemorazioni (Caruso e Fedi 2008).
Un motivo di speranza per gli oppositori del Tav viene fornito il 6 marzo 1999 «da Edoardo Ronchi, ministro dell’Ambiente durante il primo governo D’Alema, il quale dichiara, nella sala consiliare di Bussoleno (…): “Dimenticatevi il Tav, non si farà”. Ma quella stessa speranza verrà fiaccata dopo le dure reazioni di Confindustria, dell’opposizione e di alcuni settori della maggioranza» (Mazzetti 2012: 24). La resistenza contro l’alta velocità ferroviaria e la NLTL deve continuare.
Con il nuovo millennio si apre la seconda fase della lotta, un periodo che si caratterizza perché oscilla tra un non più e un
non ancora; il non più della presenza delle sole minoranze
attive149 e il non ancora della diffusione capillare della protesta. In questa fase cresce decisamente la propensione a rendersi visibili con azioni dirette150 e manifestazioni di piazza151, fra cui spiccano senza dubbio le manifestazioni di Torino e Avigliana, entrambe del 2001, e la marcia Bussoleno-Susa del 2003. Nel capoluogo si verifica il primo scontro fisico tra No Tav e forze dell’ordine, ma si salda anche un’alleanza decisiva per i successivi sviluppi dell’attivismo No Tav, quella tra il centro sociale torinese Askatasuna152 e alcune organizzazioni
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valsusine; l’evento di Avigliana, poi, sposta la protesta nella bassa valle e al confine con l’area torinese153
. Inoltre, proprio ad Avigliana – a testimonianza di una mobilitazione oppositiva sempre più organizzata (Ferlaino e Levi Sacerdotti 2005: 130) – sorge un nuovo comitato, di natura politica e con una definita connotazione di sinistra: il comitato Spinta dal Bass, composto da persone di diverse età, militanti, ex militanti e giovani provenienti dal volontariato cattolico; il corteo da Bussoleno a Susa, infine, costituisce il primo evento al quale partecipano grandi numeri (ventimila persone), decretandone il successo che porterà a una sua riproposizione negli anni seguenti (Mazzetti 2012).
Nel 2003, però, la partecipazione alla protesta è ancora piuttosto «discontinua, perché sono assenti strutture di movimento, luoghi stabili che diano continuità all’azione e riferimenti costanti che sovrappongano il tempo lungo, quello dell’opera e del suo circolare passare dallo stato di astrazione a quello di rischio reale, al tempo sociale della quotidianità della Valle» (Caruso e Fedi 2008: 34). Due anni più tardi le cose cambiano.
A partire dal 2005, una prima novità nella traiettoria delle opposizioni (Roccato e Mannarini 2012) è il mutato atteggiamento delle istituzioni locali154, che diventano più propense a partecipare anche ad azioni non convenzionali e a contrapporsi ad altre istituzioni dello Stato, come accade nei presidi155 di Borgone, Bruzolo e Venaus. In secondo luogo, gli ambiti di discussione, decisione e organizzazione collettiva si dilatano fino a sviluppare approcci di tipo dialogico (Bobbio e Zeppetella 1999) capaci di coinvolgere nuovi soggetti, per esempio aprendo a tutta la cittadinanza le assemblee dei comitati (a loro volta gestiti da un coordinamento): nasce così l’Assemblea permanente, «in cui la popolazione mobilitata auto-
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organizza la propria azione e definisce i propri obiettivi, autonomamente dalle stesse istituzioni locali» (Caruso e Fedi 2008: 35). Grazie a questi processi cresce la partecipazione alle manifestazioni contro il Tav, ma soprattutto (Mazzetti 2012) si intensifica la circolazione delle informazioni sull’opera attraverso le assemblee pubbliche, i mezzi di comunicazione locali, la crescente presenza della tematica nei media nazionali, il suo diffondersi all’interno dei circuiti di socialità e delle reti di relazione personali, diventando così anche “passaparola”.
La visibilità del movimento No Tav, e i consensi intorno alla protesta, si moltiplicano sull’intera Penisola a partire dagli ultimi mesi del 2005, quando «la Valle viene ampiamente militarizzata attraverso la costituzione di alcuni check point (…) delle forze dell’ordine. Si apre così una fase di prove di forza da parte del Governo e di conseguente espansione della mobilitazione, che condurrà agli scontri di Mompantero» (Caruso e Fedi 2008: 38), ovvero la cosiddetta “battaglia del Seghino” (31 ottobre 2005) tra manifestanti e forze dell’ordine nei pressi delle aree destinate ai lavori per la NLTL.
L’innalzamento del livello dello scontro produce una vera e propria «polarizzazione tra le parti in campo che rafforza i sentimenti di appartenenza identitaria dei partecipanti e facilita la presa di posizione di chi è ancora esterno al conflitto» (Mannarini e Fedi 2008: 159), fornendo ai No Tav nuove energie affinché la protesta non si fermi. Infatti, dopo la battaglia citata, l’attività del movimento prosegue (e lo fa ancora oggi) lungo tre direttrici (Caruso e Fedi 2008: 39): la
riproduzione dell’emergenza (gli attivisti maggiormente
impegnati cercano di mantenere sempre vivo quel clima di emergenza che aveva favorito una crescita della partecipazione); il passaggio dalla protesta alla prassi (con l’intento di estendere il modello della democrazia partecipata ai temi dello sviluppo
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locale e della valorizzazione delle risorse specifiche del territorio); la nascita di una vera e propria cultura popolare (per esempio attraverso la rivisitazione collettiva di elementi della tradizione, di episodi e temi legati alla protesta, producendo svariati video, cd, libri e spettacoli teatrali che ricordino le fasi principali del conflitto e riproducano in valle il “senso comune anti Tav”).
Insomma, la lotta nei confronti dell’alta velocità si contraddistingue «per durata, capacità di vision e coerenza» (Roccato e Mannarini 2012: 142), ma in ogni caso «la linea delle istituzioni è ferma: “Il Tav si farà”» (Mazzetti 2012: 30). Il risultato è che i diversi soggetti coinvolti sono sempre più lontani, poiché «si crea una atmosfera di reciproco sospetto o di immotivata ostilità, o perché essi rimangono prigionieri di una certa definizione del problema che li obbliga al ruolo di nemici giurati» (Bobbio e Zeppetella 1999: 11). Da un lato troviamo gli attivisti, perennemente sul piede di guerra specie in un contesto evoluto come quello italiano – caratterizzato da un buon livello di benessere e una crescente attenzione verso le problematiche ambientali – dove le lotte territoriali sono ormai una regola e ci stupiremmo se qualche grande opera non incontrasse un livello minimo di conflittualità (Bartolomeo 2012); dall’altro c’è lo Stato, ogni volta pronto a bollare l’intero dissenso con l’etichetta di «“professionismo del no”, demonizzato e fatto rientrare nell’antagonismo organizzato e quindi lontano e ostile alla moderata opinione pubblica» (Beria 2012: 259-260).
Quella del Tav è una lunga vicenda (Mazzetti 2012): l’opinione pubblica e alcuni decisori politici sono davvero «convinti che le infrastrutture in quanto tali siano la ricetta per il paese (…). Sono illusi che la perdita di vitalità economica della loro città sia dovuta solo alla mancanza di una ferrovia ad alta velocità. Sono persuasi che, dato che la soluzione è ovvia ma
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non viene implementata, ci sia “qualcuno” che rema contro» (Beria 2012: 269-270). Questo “qualcuno che rema contro”, però, non deve per forza rappresentare qualcuno da mandare via, piuttosto qualcuno con cui avviare un dialogo. Certo, ricercare soluzioni negoziate dei conflitti non è quasi mai una cosa semplice, a volte è impossibile, ma è chiaro che questo modo di procedere serve solo a mettere gli interessi in contrapposizione tra di loro: non si può affatto pretendere che una comunità accetti di «sopportare un onere senza che essa sia stata minimamente coinvolta nel processo che ha portato alla sua candidatura» (Bobbio e Zeppetella 1999).
Decine di migliaia di cittadini alzano la mano e chiedono spiegazioni; un evento che per i decisori pubblici può costituire un’opportunità (Calafati 2006). Non resta che coglierla.