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“Per ogni amante della velocità (…), ce n’erano migliaia che preferivano il modo in cui i fiumi serpeggiavano e le chiatte andavano nella loro corrente: il Danubio non era mai apparso così deliziosamente lento fino a che egli non suggerì di accelerarlo”.

(S. Kern)

Nella società globalizzata, la mobilità delle cose e delle persone è un diritto che gli Stati efficienti devono garantire (Esposito e Foietta 2012), ma potrebbe non bastare. In un’epoca di accelerazione e di rapido cambiamento (Eriksen 2001, trad. it. 2003), è bene che questi spostamenti siano sempre più veloci, capaci cioè di prendere esempio dalla fisica moderna che, «contrariamente a un’opinione semplicistica, non fa della velocità della luce un limite assoluto e non impedisce affatto di ipotizzare velocità di propagazione superluminali» (Lévy- Leblond 2006, trad. it. 2007: 216-217).

Quello di velocità, però – appunto perché investe ogni ambito della nostra vita quotidiana – è un concetto assai controverso116, capace nel tempo di produrre effetti sia positivi che negativi: basti pensare, nel primo caso, alle immagini in movimento (della televisione e del cinema117) nelle quali nulla si ferma (Virilio 1998, trad. it. 2000) o alla sveltezza con cui oggi è possibile comunicare tramite Internet, e nel secondo alle parole di Eriksen (2001, trad. it. 2003: 73) su quelle che Castells (1996, trad. it. 2002) definisce guerre istantanee: un «secolo fa (…) la guerra procedeva alla stessa velocità della cavalleria (…). Poi sono arrivati i caccia-bombardieri, i missili a medio

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raggio e molto altro, tanto che oggi uno Stato belligerante può in teoria infliggere danni indescrivibili a un Paese nemico nel giro di pochi minuti»; oppure si consideri l’affondamento del Titanic (1912) dovuto al fatto che, «come parecchi esperti marinai hanno testimoniato (…), la pressione ad attenersi ad una tabella oraria obbligava molti capitani a procedere incautamente ad alte velocità in mezzo alla nebbia e al ghiaccio. Un sopravvissuto osservò che il pubblico richiedeva velocità maggiore ogni anno» (Kern 1983, trad. it. 2007: 141), rifiutandosi di frequentare le linee più lente perché – citando Bauman (2000a, trad. it. 2011: 129) – «fare il giro del mondo in ottanta giorni era un sogno affascinante, ma compierlo in otto giorni era infinitamente più attraente. L’attraversamento della Manica e quindi dell’Atlantico furono le pietre miliari con cui venne misurato il progresso».

Ricorrere a questa velocità dai due volti «significa non solo ridurre a poca cosa le dimensioni geografiche del mondo reale come fa l’accelerazione dei veicoli rapidi da più di un secolo, ma dissimulare l’avvenire nella durata ultrabreve di una diretta telematica118 – fare in modo che il futuro accadendo

adesso non sembri più esistere» (Virilio 1998, trad. it. 2000:

90). Ѐ ormai possibile assistere direttamente alla creazione della storia poiché «l’informazione istantanea in tutto il globo, mescolata alla cronaca cittadina live fornisce un’immediatezza temporale senza precedenti a eventi sociali ed espressioni culturali» (Castells 1996, trad. it. 2002: 525), abbattendo le barriere del tempo e dello spazio (§ 1.1) o, meglio, annientando la realtà dello spazio-tempo per riassorbire il primo termine nel

secondo (Virilio 1977, trad. it. 1981; Formenti 2000).

Cosa rappresenta, dunque, la velocità? Un’opportunità da sfruttare? Un nemico da temere e combattere? Un simbolo di vitalità o una preoccupazione che ci rende nervosi e irritabili?

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Domande fuori luogo. Fra «le molte risposte (…), quelle degli allarmisti appaiono più appassionate e più numerose di quelle dei difensori della velocità: ma, per quanto commoventi, le proteste non possono negare il fatto che il mondo ha optato ripetutamente per la nuova velocità119» (Kern 1983, trad. it. 2007: 161) e continua a farlo.

Siamo sempre di corsa, che ci piaccia o meno. Corriamo come Usain Bolt (v. Introduzione), per arrivare prima degli altri, oppure come Forrest Gump120, per sfuggire alle difficoltà della vita quotidiana; corriamo «lungo un’infrastruttura globale, sorpassandoci l’un l’altro come ladri nella notte, fra momenti di riconoscimento, momenti di identificazione, contatti (…) con vite ed eventi» (Silverstone 1999, trad. it. 2002: 180). E anche quando non abbiamo fretta, finiamo per abbandonarci a una

passività attiva, la stessa passività mostrata da Ulrich sin dalle

prime pagine del romanzo L’uomo senza qualità (Musil 1930, trad. it. 1997): «lui immobile, incorniciato nella finestra di casa, a guardare con attenzione da dietro un vetro le immagini- movimento della metropoli» (Denunzio 2004: 245), con un orologio in mano contando le automobili e i pedoni (Kern 1983, trad. it. 2007: 159) per valutare la loro travolgente velocità che non lascia spazio (e tempo) ai «tentativi e gli errori, nessuna possibilità di imparare dagli sbagli commessi e nessuna speranza di avere un’altra chance» (Bauman 2000a, trad. it. 2011: 104).

Sono queste le caratteristiche di un mondo senza sosta, alternativamente sopraffatto e ispirato, inorridito e incantato (Kern 1983, trad. it. 2007: 163), insomma imprevedibile. È finito «il tempo delle fabbriche gigantesche e dei corpi obesi (…); una volta erano testimonianza del potere dei loro proprietari; oggi sono presagio di sconfitta nella prossima tornata di accelerazione (…). Corpi magri e facilità di movimento (…), telefonini cellulari (…), beni portatili o usa-e-

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getta» (Bauman 2000a, trad. it. 2011: 146) si ergono a simboli culturali dell’era dell’istantaneità.

Ma nel periodo storico che stiamo vivendo esistono anche delle velocità solo apparenti, che nascondono al contrario una certa lentezza: è il caso, come vedremo nelle pagine che seguono, del Tav121 e dell’alta velocità ferroviaria, un argomento sul quale l’Italia – al pari degli altri Paesi dell’Europa meridionale, ma a differenza di quelli di cultura anglosassone (Sclavi 2002) – si colloca «in posizione drammaticamente arretrata: continuiamo (…), nella massima parte dei casi, a ricorrere in modo quasi meccanico a processi decisionali chiusi, senza (…) coinvolgere la cittadinanza nelle scelte strategiche che la riguardano o che investono il territorio in cui risiede122» (Roccato e Mannarini 2012: 148), e pagando «talvolta a caro prezzo, in termini di dissenso e di perdita di legittimità percepita, l’imposizione di un progetto indesiderato123» (Fedi e Mannarini 2008: 10).

Parliamo, dunque, di una situazione emblematica in cui lo Stato e la nazione corrono a velocità differenti, e forse anche su strade diverse: la loro «millenaria storia d’amore (…) sta volgendo al termine; non siamo ancora giunti al divorzio, ma una “convivenza” sta sostituendo la consacrata unione coniugale fondata sulla fedeltà incondizionata. Oggi i partner sono liberi di guardarsi intorno e instaurare nuovi rapporti» (Bauman 2000a, trad. it. 2011: 217). Infatti, «è opinione (…) condivisa tra gli studiosi che le ragioni per un coinvolgimento attivo dei cittadini nelle decisioni di interesse collettivo siano ormai imperative» (Roccato e Mannarini 2012: 150), poiché contraddistinte da uno straordinario valore strategico di coesione e integrazione (Esposito e Foietta 2012: 13). Si tratta di ragioni «politiche, motivate dalla necessità di recuperare credibilità (…); ragioni pragmatiche, legate alla consapevolezza che alcune questioni

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(…) non sono semplici da affrontare e le istituzioni non hanno tutti gli strumenti (…) per poterlo fare autonomamente; infine, ragioni sociali» (Roccato e Mannarini 2012: 150), allo scopo di salvaguardare i criteri di equità e giustizia. Tante buone ragioni per ricominciare a correre, ma stavolta tutti insieme e nella stessa direzione.