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III. I Tempi dello Sprar: struttura e contenuti

4. Ricerca sullo Sprar di Milano: i risultati

4.5 Racconti e pensieri dei beneficiari

Cercare di raccogliere le opinioni e i punti di vista dei beneficiari rispetto alle dimensioni analizzate è stato un lavoro molto delicato che si è tradotto nel lasciarsi accompagnare nel racconto della persona più che nel condurre intervi- ste rigidamente strutturate. Le preoccupazioni emerse sono state diverse, così come vari sono stati gli aspetti maggiormente sentiti dagli ospiti: da alcuni la

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durata dell’accoglienza è stata portata come un problema nella sua limitatezza, per altri come un’opportunità, sebbene i tempi fossero gli stessi. A seconda delle situazioni le preoccupazioni hanno riguardato i documenti – nel caso in cui la persona non avesse ancora ricevuto una risposta positiva – o sui problemi con- creti legati alla prospettiva d’uscita e a un percorso di autonomia – quando l’ospite aveva già un permesso per una forma di protezione, ma doveva lasciare lo Sprar -. È emersa inoltre l’importanza della personalità di ognuno nell’affron- tare una determinata situazione e il livello di istruzione – o le basi culturali - per analizzare e rielaborare quanto stesse succedendo nell’iter di riconoscimento.

Tra gli ospiti intervistati, al momento dell’intervista due di loro si trova-

vano in fase d’appello98. D., ragazzo senegalese tra i ventisei e i trent’anni, era

in accoglienza da oltre un anno e mezzo: nonostante avesse da poco ricevuto la notizia del rigetto da parte del Tribunale Ordinario, è stato disposto a incon- trarmi e a parlare del proprio percorso. Ha raccontato di aver aspettato per più di un anno l’audizione della Commissione territoriale e di aver ricevuto il di- niego poco dopo; il procedimento di ricorso è invece durato circa un anno, fino alla notifica del rigetto. Nonostante questo, si è mostrato pieno di energie e an- cora speranzoso rispetto all’ottenimento di un documento. Ha raccontato che avrebbe comunque iniziato un tirocinio - attivato prima della notifica del ri- getto -, ma che il suo pensiero principale rimanevano i documenti: ottenuto un permesso definitivo avrebbe voluto volentieri lasciare il posto ad altre persone, ma senza un documento non avrebbe potuto fare niente fuori dall’accoglienza.

Si possono riscontrare alcuni punti di contatto tra questo e il racconto di N., cittadino gambiano della stessa fascia di età anche lui in fase d’appello. N. ha svolto tutto il suo percorso d’accoglienza presso lo Sprar di Milano, a partire dal fotosegnalamento: questo ha portato a una lunga permanenza nello stesso posto, superiore a due anni e mezzo. L’attesa dell’audizione presso la CT è du- rata per lui poco meno di diciotto mesi, secondo quanto riferisce, mentre la prima risposta negativa è arrivata in termini relativamente brevi. N. ha raccon- tato che dopo il diniego per lui la situazione non è cambiata molto, perché ha potuto avere un nuovo permesso di soggiorno e iniziare una borsa-lavoro, che ha descritto come un’esperienza molto positiva. Ha potuto proseguire con i corsi di italiano e non ha percepito delle interruzioni rispetto al suo percorso. Adesso invece non può rinnovare il contratto con l’ente presso cui aveva fatto questa prima esperienza di lavoro, né può cercare un’altra attività a causa dei docu- menti: trovandosi infatti nella fase antecedente l’udienza sospensiva non può avere un permesso di soggiorno per richiesta asilo e questo sembra essere per lui molto negativo. Rispetto all’incertezza sul documento sembra emergere

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maggiormente una preoccupazione sulle ripercussioni concrete che questa si- tuazione ha: N. mostrava una certa consapevolezza di quello che può fare ri- spetto al suo futuro. Per il momento è tutto in mano al tribunale, per cui ciò che può fare è aspettare e continuare a studiare l’italiano. La sua idea è di rimanere a Milano, l’unica area che conosce e dove ha dei contatti: per poter rimanere deve aspettare i documenti. Rifletteva sul fatto che in realtà non avrebbe più bisogno di stare in una struttura d’accoglienza come quella in cui si trova, ma, come ha detto, quando vai fuori dove vai, senza documenti? Stare due, tre anni

qui, ancora senza documenti … non va bene così.

Altri due ospiti hanno invece affrontato un ricorso, ma hanno infine otte- nuto un permesso per motivi umanitari. Con uno dei due ospiti – maliano, tra i ventuno e venticinque anni, in accoglienza da oltre due anni – l’incontro è stato molto difficoltoso e non si è arrivati a toccare dei punti rilevanti ai fini di questo lavoro, date le difficoltà ad esprimersi del beneficiario e la mancanza di una lingua veicolare – non si ritiene tuttavia che le difficoltà riscontrate siano impu- tabili alla sola dimensione linguistica -. Con E. invece, un ragazzo gambiano tra i diciotto e i ventun anni, è stato possibile scendere in maggior profondità99.

Uscito da una comunità per minori in cui inizialmente era stato accolto ha potuto sottolineare le differenze con l’accoglienza nello Sprar in cui attualmente si tro- vava: qui aveva l’opportunità di gestirsi con una maggiore autonomia. Entrato poco dopo la Commissione – ma prima di ricevere il diniego – ha fatto le pro- cedure di ricorso in Sprar, dove è già stato per un periodo di circa otto mesi: al momento dell’intervista gli mancavano ancora quattro mesi prima dell’uscita. Rispetto a questo ha mostrato molta preoccupazione: diceva che secondo lui un’accoglienza di sei mesi va bene se riesci ad avere una borsa lavoro, altrimenti è un problema. Se esco, non so dove andare, racconta. Adesso le fatiche sono soprattutto rispetto ai problemi concreti che incontrerà all’uscita. Diverso è stato invece il periodo dopo il diniego: quando mi hanno detto che avevo il negativo,

ho pensato tanto …. Stavo impazzendo. Non riuscivo ad andare a scuola, a fare niente … ero davvero preoccupato. Ero contento quando mi hanno detto che avevo l’umanitaria. Però poi ho solo sei mesi per stare qui … non so dove an- dare. Questo mi fa stare male di nuovo.

Tre sono invece gli ospiti che hanno avuto un riconoscimento direttamente

da parte della Commissione e che sono entrati in Sprar avendo già un titolo100.

Tutti e tre riferiscono di non aver atteso molto la notifica dell’esito della CT, arrivata in tempi piuttosto brevi rispetto all’audizione: dalle due settimane ai

99 Con E. l’intervista si è tenuta in parte in italiano e in parte in inglese. Le frasi riportate in italiano sono

in parte frutto di una traduzione sul momento, in parte annotazioni di quanto espresso dallo stesso ospite in italiano.

100 Con A. e con R. l’intervista si è tenuta interamente in lingua inglese, mentre con D. in parte in inglese

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due mesi, tempi ridotti rispetto alla media – poco più di quattro mesi-. A., ospite pakistano con un permesso per protezione sussidiaria tra i trentuno e i trentacin- que anni, ha trascorso un periodo di diversi mesi in un CAS prima di entrare in Sprar: racconta che il CAS era organizzato con l’accoglienza in tende, per cui d’estate faceva molto caldo e d’inverno molto freddo. Questo aveva delle riper- cussioni sulla sua salute, avendo già dei problemi. Ancora non parlava italiano: ha riferito che nel CAS c’era una scuola, ma che non era sufficiente. Dopo aver ricevuto la risposta della Commissione ha raccontato di essere stato dimesso e di aver vissuto per quattro o cinque mesi in strada: non sapeva dello Sprar. Un suo amico gli ha in seguito spiegato di questa possibilità e ha fatto di persona domanda in Comune; dopo un po’ è stato chiamato e accolto nel progetto di accoglienza dove attualmente si trova. Nel corso dell’intervista ha manifestato preoccupazione rispetto all’uscita: ancora adesso non parla italiano, diceva di essere migliorato nella lingua da quando è entrato in Sprar, potendo frequentare più corsi e sentendosi più seguito. Tuttavia, alla fine dei suoi mesi – l’intervista è stata fatta circa a metà del periodo di accoglienza- sa che non saprà già parlare l’italiano e questo sarà un problema. Quando gli ho domandato cosa ne pensasse ha risposto che questa è la legge italiana, e non può dire niente. Non aveva un tono di lamentela né mi è sembrato manifestasse rabbia: mostrava piuttosto una certa consapevolezza rispetto alla situazione e alla propria posizione, seppur con un leggero velo critico.

R.101, un giovane ospite di nazionalità afghana con un permesso per asilo

politico, rispetto ai tempi d’uscita ha condiviso minori preoccupazioni rispetto ad A.: nel corso dell’intervista ha utilizzato più volte l’espressione opportunità in riferimento all’accoglienza. Non poteva dire, sosteneva, che sei mesi sono pochi: ha l’opportunità di stare sei mesi in accoglienza, ed evidenziava nel corso dell’incontro i lati positivi di questo. Adottava un tono molto rispettoso nei con- fronti delle norme che regolamentano l’iter per il riconoscimento e non le met- teva in discussione. Rispetto ai tempi di attesa della Commissione e della noti- fica – nel suo caso comunque attorno ai due mesi – non ha avanzato commenti: ha riferito di essere sicuro che chi si occupa di queste pratiche lavora tanto, quindi non poteva dire se lui ha aspettato tanto o poco. Rispetto alla prospettiva dell’uscita sembrava avere idee molto chiare: la sua priorità è imparare l’ita- liano, poi potrà focalizzarsi su un tirocinio o una borsa-lavoro. L’unico aspetto

101 Si precisa che R. è un ospite del progetto Sprar del Comune di Milano che non rientra però nello

Sprar ordinario: è un ospite del cosiddetto Sprar ampliamento. Tuttavia, è accolto in una struttura gestita da una delle cooperative dell’ATS che gestisce anche lo Sprar ordinario, è seguito dagli operatori di questa stessa cooperativa ed è stato segnalato dall’équipe multidisciplinare che ha individuato i possibili ospiti da intervistare: l’équipe ha infatti convenuto che potesse avere tutte le caratteristiche per l’inter- vista. Si è ritenuto quindi opportuno inserire anche la sua intervista in questo lavoro, dal momento che presentava le stesse caratteristiche degli ospiti dello Sprar ordinario.

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del suo racconto in cui è forse stato possibile cogliere degli aspetti negativi ri- guarda il momento dell’entrata in Italia: intendendo raggiungere dei parenti in altri paesi, non voleva presentare domanda d’asilo qui, ma ha raccontato che al momento dell’ingresso gli hanno detto che doveva lasciare ugualmente le im- pronte digitali, che non ci sarebbero stati problemi, ma che non gli hanno spie- gato che questa operazione lo avrebbe in seguito costretto a presentare domanda in questo paese. Complessivamente però non manifestava risentimento per quanto è accaduto né preoccupazione per l’uscita, quanto piuttosto riconoscenza e una prospettiva molto lucida di quanto pensa di dover fare.

Molto diversa è la posizione di D., ospite afghano tra i diciotto e i ventun anni prossimo all’uscita: dopo aver trascorso un periodo nel territorio attorno a Lecco si è spostato a Milano. Ha lasciato Lecco dopo aver fatto la Commissione e aver ricevuto un permesso per protezione sussidiaria. In un primo periodo ha dormito per strada, dopo dei conoscenti gli hanno consigliato di chiedere in Co- mune di poter entrare in Sprar: dopo venticinque giorni è stato chiamato ed è stato accolto nel progetto. Adesso conosce Milano, sta andando a una scuola di italiano e sta facendo una borsa-lavoro; tuttavia raccontava di non riuscire a dormire, perché pensa continuamente a cosa farà dopo l’uscita. Ha detto di non avere amici o persone del suo paese su cui contare qui, di star cercando delle soluzioni per non tornare in strada, ma che è molto difficile. Avere un permesso valido cinque anni è molto positivo, ma adesso è davvero molto preoccupato di dover uscire.

Dalle interviste e dai racconti degli ospiti emergono quindi delle prospet- tive diverse che, pur presentando delle differenze, hanno comunque dei tratti in comune: sono rimasta colpita dai contenuti e dagli atteggiamenti dei beneficiari in fase di appello, che hanno mostrato desiderio e voglia di fare nonostante una situazione documentale critica e delicata. La loro attenzione ai documenti era forte, ma in nessuno dei due casi ho percepito ansia o preoccupazione, quanto piuttosto un senso radicato di ciò in cui potevano concretamente adoperarsi. In questa fase devono aspettare una risposta dal tribunale, e nel frattempo fare quanto è in loro potere per migliorare la propria prospettiva qui – tirocinio, scuola di italiano -. L’attesa viene descritta come un elemento negativo, ma non particolarmente logorante: è da mettere in evidenza che sono stati gli unici ospiti con cui le interviste si sono tenute interamente in italiano. L’incertezza sui do- cumenti consente d’altra parte accoglienze più lunghe che permettono una mag- giore conoscenza della lingua e del territorio, aspetti su cui chi ha sei mesi di accoglienza è invece potenzialmente più fragile.

Molta più preoccupazione è trasparsa infatti durante gli incontri con A., D. e E., ospiti che pensano all’uscita e che vedono le difficoltà ad essa connesse: con E. è stato possibile mettere in evidenza i cambiamenti che ha sentito tra la

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fase post-diniego e il periodo successivo al rilascio del permesso per motivi umanitari. Tuttavia, con l’approssimarsi della fine del progetto è stato riferito l’affacciarsi di nuovi motivi di apprensione, più concreti, come quelli portati da D. e da A.: uscire senza avere un lavoro e una casa non è facile.

Ancora diversa è la posizione di R., più focalizzato sulle opportunità che ha a disposizione che sui possibili problemi legati all’uscita.

Nessuno degli ospiti ha portato come difficoltà i ritardi nelle fasi di rin- novo dei permessi. Sono state invece al centro quelle legate al riconoscimento del proprio status e ai termini di dimissione dal progetto: sembrano essere questi due aspetti quelli a incidere maggiormente sulle priorità degli ospiti intervistati, pur con le particolarità legate alla posizione personale di ognuno di loro.

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Conclusioni

In Italia l’accoglienza di persone richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale risulta oggi essere articolata in più sistemi che dovrebbero entrare in relazione tra loro nelle diverse fasi del percorso di accoglienza: le strutture e i centri di prima accoglienza – oggi in via di riorganizzazione per l’introduzione degli hotspot - per un primo livello di assistenza, il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati per un secondo livello d’accoglienza e i Centri di Accoglienza Straordinaria per le situazioni emergenziali. Il secondo, per il modo in cui è nato, la sua organizzazione e le sue finalità, è il sistema a cui gli altri dovrebbero tendere e verso cui richiedenti e titolati dovrebbero essere in- dirizzati.

Il D.lgs 142/2015 ha individuato l’accoglienza in Sprar come livello suc- cessivo a una prima accoglienza presso i centri governativi, in cui la permanenza dei richiedenti dovrebbe essere limitata al tempo necessario per l’espletamento delle procedura di identificazione, alla verbalizzazione della domanda e all’av- vio della procedura d’esame della stessa, nonché all’accertamento delle condi-

zioni di salute e alla verifica di situazioni di vulnerabilità102. Espletate tali ope-

razioni e adempimenti, il richiedente che ne faccia richiesta dovrebbe essere trasferito in una delle strutture dello Sprar, se privo di mezzi sufficienti di sus- sistenza e in caso di disponibilità di posti.

L’accoglienza presso i CAS può essere disposta dal prefetto qualora siano temporaneamente esauriti i posti nei centri governativi e nello Sprar: si parla di

strutture temporanee appositamente allestite, nelle quali l’accoglienza do-

vrebbe essere limitata al tempo strettamente necessario al trasferimento del ri-

chiedente nei centri governativi o nello Sprar103.

Tuttavia, anche a causa della sproporzione tra numero di richieste e nu- mero di posti disponibili, questi sistemi finiscono spesso per svilupparsi in pa- rallelo. Nel 2015 su 114.077 persone accolte presso una delle tipologie di acco-

glienza sopra descritte, il 6,5% erano nel circuito di prima accoglienza – CPSA, CDA e CARA –, il 26,3% in Sprar e il 67,2% in CAS. Sebbene si sia

verificata, e sia tuttora in corso, una forte espansione dello Sprar – tra il 2014 e il 2015 si è passati da 3.000 posti finanziati a 22.000, incrementati di ulteriori 4.000 nel primo semestre del 2016 -, nel 2015 la sproporzione tra la disponibilità

102 Art. 9, co.4, D.lgs 142/2015 103 Art. 11, co. 3, D.lgs. 142/2015

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di posti e il numero di richiedenti resta alta: a fronte dei 22.000 posti finanziati nel 2015, nello stesso anno sono state presentate 85.000 domande d’asilo. Que- sto dato rivela una forte asimmetria che può essere considerata strutturale, a cui si cerca di dare delle risposte adottando, tuttavia, delle soluzioni per loro stessa definizione straordinarie.

Il primo semestre del 2016 vede crescere la percentuale delle persone ac- colte in CAS – il 72,4% del totale dei richiedenti e dei titolati accolti – contro il 17,4% dei beneficiari dello Sprar. Tale sproporzione assume una maggiore gra- vità se si considera che, a seguito del D.lgs. 142/2015, chi riceve un diniego attualmente può rimanere in accoglienza fino all’appello. Questo incide sulla durata media della permanenza in Sprar: nello Sprar di Milano, oggetto di que- sta ricerca, essa è risultata essere di circa un anno e tre mesi, con dei ritmi di ricambio relativamente lenti.

Non è quindi realistico pensare che in tempi brevi la norma possa trovare attuazione nel punto in cui prevede un trasferimento degli ospiti dei CAS in altri progetti: la definizione dei centri prefettizi quali strutture d’accoglienza tempo-

ranee e straordinarie è in contraddizione con quanto realmente accade. Per chi

entra in un questo sistema non si prospetta un facile accesso allo Sprar e le mo- difiche introdotte dal D.lgs.142/2015 – prima chi riceveva un diniego doveva lasciare il progetto – restringono ulteriormente tale possibilità.

Il prolungamento dei tempi dell’accoglienza rischia inoltre di incidere sulla natura stessa di questo servizio: nato da percorsi di accoglienza di associa- zioni, enti locali e Terzo settore, nello Sprar viene data grande attenzione alla progettualità del percorso di ogni singolo individuo. La sua finalità non si ap- piattisce su una mera erogazione di sostegni materiali o su obbiettivi di conte- nimento degli stranieri all’interno di strutture per motivi di pubblica sicurezza, ma si apre alla (ri)conquista di un’autonomia nei vari territori da parte dei be- neficiari. Obiettivo finale dello Sprar è che ogni ospite abbia la possibilità di costruire un proprio percorso di vita nel nuovo contesto, grazie anche agli ac- compagnamenti offerti: sebbene il prolungamento dell’accoglienza a chi si trova ancora in una situazione incerta da punto di vista documentale possa rap- presentare una maggior tutela per il singolo, a livello complessivo si intravede il rischio di un impoverimento del senso del percorso e di un aggravamento di una disparità nelle possibilità di accesso a questa risorsa.

C’è una forte asimmetria tra il numero di posti Sprar e il numero di richie- denti, e questo incentiva l’apertura di soluzioni di accoglienza straordinarie, che

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però sono meno tutelanti nei confronti degli accolti. Prolungando l’accoglienza verso termini indefiniti – i tempi della magistratura sono diversi dai tempi che dovrebbero regolare un progetto sociale di tal genere- si rallenta il ricambio de- gli ospiti, segnando in maniera più marcata la distinzione tra richiedenti asilo accolti in Sprar e quelli accolti in CAS: sebbene lo status giuridico sia lo stesso, le opportunità offerte sono diverse e, rallentando il turnover dei beneficiari, si rallenta la strada verso una loro più equa ridistribuzione. L’accesso in Sprar dall’essere un diritto potrebbe sempre più apparire come un privilegio, riservato a un numero ristretto di richiedenti asilo.

Il prolungamento dell’accoglienza oltre un determinato periodo viene inol- tre descritta dagli operatori come non più utile nemmeno agli stessi ospiti -e forse addirittura controproducente rispetto agli obiettivi dello Sprar - : dopo un certo tempo la persona ha solitamente una certa dimestichezza con la lingua italiana, ha usufruito delle possibilità offerte dai vari servizi ed è orientata sul territorio. Permanere nelle stesse strutture può allora diventare un ostacolo a un successivo distaccamento e un disincentivo a muoversi in maniera autonoma.