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III. I Tempi dello Sprar: struttura e contenuti

4. Ricerca sullo Sprar di Milano: i risultati

4.2 La durata dei percorsi di accoglienza

4.2.1 Voci e opinioni degli operatori

Dall’intervista fatta con un operatore sono emerse delle considerazioni tra- sversali sul sistema d’accoglienza e su come questo sia cambiato nel corso del tempo. Durante il nostro incontro ha osservato di come negli ultimi dieci anni il numero di domande e di persone accolte sia notevolmente cresciuto, mentre le finalità e le caratteristiche del servizio sono rimaste pressappoco le stesse. Anni prima le persone che arrivavano come richiedenti asilo erano in un certo senso

scelte: avevano un determinato livello culturale, più risorse, diverse possibilità

di inserimento sul territorio. I sei mesi pensati inizialmente per l’accoglienza avevano quindi un determinato significato, in relazione alle caratteristiche ini- ziali di questo fenomeno.

La crescita del numero di domande e il cambiamento delle caratteristiche di chi richiede asilo si sono fatti sentire sullo Sprar. Uno degli aspetti più critici, secondo l’intervistato, è la mancanza da parte del Servizio Centrale di chiarezza sui tempi di fuoriuscita dal progetto: questa indeterminatezza, che tocca tanti fronti, riguarda soprattutto le persone che hanno ricevuto in diniego. Attual- mente una risposta negativa da parte della Commissione territoriale getta cia- scuno dei protagonisti del percorso di accoglienza – ospiti, operatori, sistema di accoglienza in toto - in un limbo totale di tempi non certi.

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Avere una prospettiva di uscita definita e la certezza della dimissione sono stati descritti come salutari: se in alcuni casi qualcuno dovesse avere bisogno di più tempo rispetto ai sei mesi standard di accoglienza, si può ricorrere ad eventuali proroghe, ma i tempi rimangono finiti, certi. Questi tempi lunghissimi e indeterminati danno invece vita a una serie di dinamiche nuove e slegate dai motivi dell’accoglienza, che, secondo l’opinione personale dell’intervistato, sono in gran parte negative e rischiano di portare questa forma di accoglienza verso una deriva assistenzialistica.

Dopo il diniego l’attenzione dei beneficiari rimane viva sul documento, che però resta una questione sospesa. Questo può, come già detto, indurre l’at- tivazione di dinamiche regressive – la persona si siede, comincia a vedere lo Sprar come la propria casa, perde di vista l’idea della fine del progetto in una sorta di distaccamento dalla realtà -, ma incide anche su ciò che l’ospite può concretamente fare: dal punto di vista della ricerca del lavoro e del raggiungi- mento di un indipendenza economica, il servizio non ha strumenti infiniti da mettere a disposizione e la situazione documentale del beneficiario rimane pre- caria anche agli occhi di un potenziale datore di lavoro. Ci sono poi dei casi in cui qualcuno riesce a trovare delle soluzioni sul territorio con cui potersi man- tenere, ma non riesce più a staccarsi, non riesce a capire che può andare con le sue gambe.

Alcuni ospiti escono invece in autonomia: come riferito da un altro opera- tore, si sono verificate delle situazioni in cui alla fine con l’ospite si è maturata una scelta spontanea di dimissione, quando si era ormai raggiunta la fase d’ap- pello e la persona aveva una serie di risorse e di contatti per mantenersi in auto- nomia.

Da più di una un’intervista è emerso comunque che il progetto Sprar non è nato, nella sua struttura e nelle sue caratteristiche, per durare due anni e mezzo: secondo alcuni operatori un periodo di tempo mediamente adeguato perché i principali obiettivi del progetto possano essere raggiunti è all’incirca un anno. In quest’arco di tempo è possibile fare un certo percorso di italiano, eventual- mente portare avanti la licenza media e avere più probabilità di accedere a una borsa-lavoro o a dei corsi di formazione professionale. Secondo un altro punto di vista, se una persona entrasse in Sprar avendo già fatto un percorso ipotetico di sei mesi con un buon insegnamento dell’italiano, un periodo tra i sei e i nove mesi in Sprar, con l’attivazione delle stesse risorse sopra descritte, potrebbe es- sere un’ipotetica durata ottimale di un progetto.

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In questa prospettiva andrebbe sottolineata l’importanza dei CAS, non solo perché ogni percorso di accoglienza dovrebbe raggiungere un livello mi- nimo di qualità, ma perché il tipo di percorso fatto nei CAS incide anche su quanto può essere successivamente portato avanti in Sprar.

Con uno degli operatori ci si è interrogati se l’aumento degli ingressi di persone titolate sia da ricondursi allo sviluppo e al radicamento di un doppio binario del sistema di accoglienza – CAS per i richiedenti, Sprar per i titolati – o se non possa essere il risultato di altri fenomeni. Secondo il parere dell’inter- vistato, avere o meno un titolo non dice nulla del percorso che la persona ha fatto in precedenza, né delle sue risorse personali: da una parte è vero che ha un quadro documentale più certo e con maggiori sicurezze, dall’altro però non è affatto indicativo della possibilità o meno di raggiungere gli obiettivi del pro- getto. Al di là dei processi che stanno portando a questa composizione degli ospiti, avere un titolo di protezione non dovrebbe quindi essere comunque adot- tato come criterio di scelta per l’accesso in Sprar.

Oltre alla lunghezza della permanenza, un altro aspetto che incide è quello dell’indeterminatezza: attendere una risposta o una notizia senza avere in mano una data è quello che sembra pesare di più. Tra i momenti di attesa che più generano ansia e creano problemi agli ospiti sono quelli di notifica della data dell’audizione in Commissione – secondo quanto ha raccontato un operatore, in alcuni casi è stata comunicata dopo oltre un anno – e delle udienze in tribunale dopo un eventuale diniego.

Un secondo aspetto che si intende infatti analizzare è relativo al significato e all’entità delle diverse fasi in cui l’iter per il riconoscimento di articola e come esse si ripercuotono sul percorso in Sprar.