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Raffaele Calzini nella Russia della Nep

III. Fuoriuscire dallo schema: le eccezioni

III.1 Raffaele Calzini nella Russia della Nep

Quando R. Calzini giunge nella Russia della Nep, ha già fatto esperienza con uno degli aspetti più duri e sfuggenti della società sovietica: la terribile polizia politica, la famigerata G.P.U., che lo ha fermato per “un’inverosimile irregolarità del «visto» sul passaporto” (Calzini 1927: 3). E dire che per quel visto tanto si era adoperato U. Ojetti, allora direttore del Corriere della Sera, che aveva sollecitato Valori, direttore dell’ufficio romano del quotidiano, per fare pressioni presso il Ministero degli Esteri per ottenere i visti necessari per passare i confini e soprattutto per mantenere la segretezza dell’invio di un giornalista a Mosca.

«[…] Veda di farlo fare nel modo più segreto, perché, come ella sa, qui ci spiano anche dalle finestre. Ma ella ha agli Esteri l’autorità necessaria perché questo segreto sia mantenuto. […] il Calzini andrà in Russia con una mia lettera per il conte Manzoni, nostro ambasciatore, che è mio fraterno amico. Se il senator Contarini o il Marchese Paolucci vorranno anche scrivere al Manzoni annunciando l’arrivo del Calzini, lo facciano pure; ma veda lei se non è meglio che questo avvenga per telegramma quando Calzini sta per arrivare, perché potrebbe benissimo darsi che l’ambasciatore parlasse, e da là telegrafasse al “Secolo”» (lettera dell’11 marzo 1926). Rispondendo a Ojetti, Valori così commenta: «ci diamo attorno per il passaporto di Calzini; ma non potremo averlo prima di dieci giorni almeno, e tutto ciò mettendo in moto il Gabinetto del Presidente, perché in caso diverso ci vorrebbero almeno due mesi; a quanto mi dicono ci deve essere una specie di accordo fra Italia e Russia per rendere difficili questi viaggi da un paese all’altro. I giornalisti in modo speciale non sono graditi. Quanto alla discrezione, per Roma non c’è da temere, speriamo sia lo stesso di Milano. Che il “Corriere” dovesse mandare qualcuno in Russia già si sapeva: lo sapeva quel segretario di Marchiori che è andato al “Secolo” e soprattutto lo sapeva Croci, il quale, per quanto mi risulta, sarebbe già passato anche lui “al nemico” [Pietro Croci, a partire dal marzo del 1926, era diventato corrispondente da Parigi per il «Secolo», ndr]. Speriamo comunque di arrivare primi».176

Come si legge, la Russia era una meta ambita tra gli ambienti giornalistici italiani di quegli anni che, evidentemente, avevano iniziato la loro corsa alla notizia spiando le mosse delle testate

176 Aponte 2010: 496-497. S. Aponte fu il primo inviato corrispondente da Mosca che rimase in Russia per conto del

Corriere per quasi un anno e mezzo (cfr. Ibid.: 464). Il suo incarico al giornale venne sollecitato dallo stesso Calzini al

direttore Ojetti motivandolo con l’esperienza giornalistica pregressa di Aponte, la sua conoscenza della realtà russa e, non da ultimo, quella della lingua.

102 concorrenti e cercando gli appoggi necessari negli uffici diplomatici e nelle ambasciate per ottenere

il permesso d’ingresso nel paese bolscevico.177 Le difficoltà dovevano riguardare in particolar modo

quei viaggiatori che partivano da soli e i quali, seppure con tutti i documenti in regola, potevano andare incontro a spiacevoli incidenti. D’altronde, la sicurezza di girare non vi era neppure una volta arrivati a destinazione, se Calzini lamentava una mancanza di aiuto, soprattutto da parte dell’Ambasciata italiana a Mosca, nell’espletare il proprio lavoro di giornalista.

Qui hanno paura delle autorità moscovite e non vorrei che qualora si rinnovassero incidenti polizieschi contro di me, l’Ambasciata se ne disinteressasse o si dichiarasse impotente a difendermi. Del resto tu [Ojetti] conosci abbastanza bene le condizioni burocratiche e la “paura della responsabilità” dei nostri funzionari. […]178

Appare plausibile il tentativo delle autorità sovietiche di limitare o evitare gli ingressi dei giornalisti dall’Italia fascista, soprattutto per evidenti ragioni legate al controllo della persona (sebbene il controllo degli stranieri avesse una lunga tradizione che risaliva al tempo dell’impero zarista), ma in particolare per il momento cruciale del paese, che dopo l’ondata del terrore rivoluzionario, la carestia, le privazioni, l’imposizione del bolscevismo, sembrava ora volgere un passo indietro con la Nep e il ritorno al libero mercato, la creazione di una nuova sparuta classe di agiati e la visione di tutto un paese che mostrava la sua forza nella parata delle bandiere e nella voce degli slogan nelle piazze, non riuscendo tuttavia a nascondere l’arretratezza e il volto tradizionale della Russia che pure non si era riusciti a cancellare. Inoltre, non si voleva sicuramente dare in pasto alla stampa estera i fatti riguardanti le lotte interne al partito, le difficoltà nella politica estera, soprattutto in riferimento agli aiuti che i bolscevichi stavano dando ai cinesi ai fini di esportare la rivoluzione anche in quel paese e, non da ultimo, la nuova ondata di terrore che da lì a qualche mese si sarebbe di nuovo scatenata con migliaia di arresti soprattutto nella capitale.

Gli articoli di Calzini su La Stampa coprono un periodo non inferiore ai cinque mesi. Mentre è ancora in Russia, egli raccomanda al direttore l’assunzione per l’incarico di inviato in pianta stabile da Mosca di S. Aponte, che prenderà il suo posto, una volta di ritorno “a settembre od ottobre, […] quando smaltito il grosso dei miei articoli” (Aponte 2010: 495). Gli articoli di Calzini compariranno quasi sempre in prima pagina, nell’edizione pomeridiana del quotidiano di Milano, con il titolo introduttivo di Lettere dalla Nuova Russia. Il soggiorno del giornalista si limiterà alle città di Mosca e Leningrado; il viaggio terminerà verso il sud, attraversando in treno il paese per arrivare fino a Odessa, passare per “Costantinopoli” e imbarcarsi su un piroscafo di ritorno.

177 Lo stesso Calzini riferisce che La Stampa aveva a sua volta intenzione di muoversi per mandare un corrispondente stabile a Mosca (cfr. Aponte 2010: 495). Aponte, da Mosca, continuerà a monitorare l’arrivo dei giornalisti in Russia per conto di altre testate italiane (cfr. Ibid.: 467).

103 Sin dall’Introduzione il giornalista scrittore mette in evidenza il carattere “impressionistico” dei suoi articoli, dovuto alla mutevolezza della situazione del paese che non permetteva di fare analisi e trarre giudizi sul lungo periodo. Nondimeno, l’autore assicura di essersi attenuto a quanto osservato, lasciando intendere al lettore che il suo lavoro si è svolto intrecciando il monitoraggio della situazione politica attraverso le esternazioni pubbliche del partito, “i discorsi dei capi”, la consultazione degli organi di stampa sovietici (la “Pravda”), seguendo l’imperversare della crisi economica e i suoi riflessi sulla vita quotidiana, con la mancanza dei prodotti nei negozi, i disordini delle fabbriche, il sistema di controllo diffuso, il problema degli alloggi, il costo della vita altissimo, l’ostilità dei contadini contro i bolscevichi (Calzini 1927: VII-XXIV).

Lo scrittore procede attraverso una registrazione degli stati d’animo della gente a delineare alcuni tratti della vita sovietica di quei mesi, offrendo al lettore “i colori e le forme”, ascoltando le voci e le confessioni di spaccati di vita, delineando le figure umane più che politiche dei protagonisti della vita pubblica del momento, “Trotzki, Zinovief, Cicérin”, ricostruendone le gesta per alcuni, testimoniando i dialoghi avuti con altri. Anche la rappresentazione teatrale della vita sovietica può fornire un ulteriore quadro del mondo costruito dai bolscevichi, così come le vicende personali di giovani poeti schiacciati dagli eventi e dalla stessa rivoluzione che avevano cantato nelle loro poesie.

Qualche lettore potrebbe dubitare che le impressioni della nuova Russia raccolte nel presente volume, corrispondano solo in parte alla verità e siano ispirate da un pessimismo preconcetto e da una valutazione parziale ostinata e cieca, dell’organismo sociale e statale uscito, caotico e deforme, dalla rivoluzione bolscevica.

Ora, se da un lato posso assicurare e affermare che le notizie da me riportate, rispecchiano fedelmente una verità limpidamente osservata, dall’altro le pagine seguenti rivelano quali fossero le condizioni e lo stato d’animo della popolazione nel primo semestre del corrente anno. […] E sarebbe presunzione estendere a un intero periodo le considerazioni che si possono applicare a un momento. Durante il mio soggiorno a Leningrado ed a Mosca niente ho tralasciato, perché questo quadro di costumi, questa pittura d’ambiente riuscissero possibilmente vivi e scrupolosamente fedeli.179

Nell’alleanza che lo scrittore intende stringere con il proprio lettore se da un lato emerge la solita professione di oggettività, dall’altro lato si evidenzia lo scrupolo di Calzini di riferire i particolari che vanno a comporre il “quadro di costumi” senza nulla tralasciare della vita difficile e incoerente della Russia del tempo, dai simboli della rivoluzione che rimodella la “nuova fisionomia” della capitale attribuendo “una maschera ultramoderna al volto dell’antica città”, “Mosca la “rossa” (Ibid.: 12-17), ai riti della vecchia Russia che stentano a sparire: il suono delle campane la sera, la folla contadina presso l’ancora esistente “cappelletta della Madonna d’Iberia” dove “[…] sfumano fiati d’incenso, risuonano echi di cori, luccicano bagliori dorati tra i ceri accesi” (Ibid.: 8-10), visione inattesa per il viaggiatore che immagina che la rivoluzione abbia oramai soffocato tutti i retaggi della religione.

179 Calzini 1927: VII-VIII.

104 Ai venticinque articoli pubblicati sul quotidiano corrispondono i paragrafi dei quattro capitoli del libro (“Giorni e notti di Mosca”, “Persone e personaggi”, “L’agonia di Leningrado”, “Spettri”) con qualche modifica nei titoli e sporadiche aggiunte nel corpo dei testi. Lo scrittore sceglie di dare un diverso piano all’opera, rimescolando in parte la disposizione dei paragrafi rispetto alla successione di uscita dei pezzi sul giornale, per cui l’articolo intitolato ad esempio “Gaìda Troika” e pubblicato in data 5 marzo 1926 (sebbene non sotto il titolo generale di Lettere dalla Nuova Russia esso fu difatti il primo articolo pubblicato sull’argomento) chiude come paragrafo finale la monografia. Nel libro, inoltre, sono stati aggiunti tre paragrafi che non hanno un corrispettivo sul quotidiano: nel capitolo I “La bandiera rossa e le aquile” e nel capitolo II “Piccoli borghesi” e “Il «bonapartista» (Trotzki)”.

La scrittura di Calzini pare inquadrarsi in una pittura di genere, dove il giornalista ama ritrarre scene della vita di tutti i giorni, lasciando spesso la parola all’individuo. Quello che contraddistingue il modo di procedere dell’autore è la ricerca della persona, il racconto di tante vite, l’osservazione dei volti, l’ascolto di confessioni, di sfoghi, i dialoghi che il narratore pretende di ritrascrivere nella forma diretta lasciando la parola ai protagonisti veri della storia della Russia della Nep, il popolo russo. Il richiamo sporadico alla folla serve allo scrittore per evidenziare l’adesione massiccia a una pratica o un’attività (la partecipazione alle funzioni religiose, le code davanti ai negozi, la messa in marcia per godere degli svaghi comuni fuori città (“La folla […] pompata su verso la Tverskaja”), per inquadrare una categoria sociale o una parte della popolazione, “la marea” dei giovani pionieri, “i figli della vecchia borghesia”, “i figlioli dei saccheggiatori di palazzi, dei martellatori d’ufficiali, dei fucilatori di ministri”, “gli orfani”, “i nipoti dei terroristi che si batterono contro la Santa Russia” (ibid.: 40-47). Lo sguardo di Calzini tende a restringere il focus d’osservazione sino ad arrivare a distinguere l’eccezione, poiché è dall’insieme dei singoli che la massa trae la sua forza:

Nella massa risaltavano visetti olivastri e capelli crespi di ebrei e d’ebree sfuggiti alle tradizioni umilianti del ghetto, avviliti dagli incubi del pogroom sanguinoso, gloriosi oggi di appartenere a un piccolo esercito e di marciare al ritmo delle fanfare.180

Anche quando tratteggia una fenomenologia della donna, lo scrittore non ritrae dei tipi, ma delle persone in carne ed ossa, dalle quali raccoglie racconti di adattamenti alla nuova vita soviet ica, di piccole umanità sconvolte nelle loro esistenze fragili di donne sole, inermi: la giovane diciottenne che ha divorziato tre volte e che cerca “un poco d’amore”, la vecchia che cerca di sopravvivere alla durezza della vita sovietica pensando ai dolci e al vino, la borghese che in attesa di raggiungere il marito in Siberia si sposta nella “dacia”, la giovinetta in attesa del fidanzato, “un bianco” rimasto in Europa e che ricorda le atrocità della rivoluzione, la vecchia principessa che parla francese e che si

180 Ibid.: 45.

105 rifiuta di lasciare il paese per raggiungere il figlio a Parigi, disposta a sopportare qualsiasi cosa, “Tutto: sopportare tutto, ma non lasciare la Russia […]” (ibid.: 88); la giovane rimasta sola dopo il suicidio del fidanzato per il quale era scappata da casa, dove ritorna non trovando né casa né famiglia; un’altra, a Mosca, dove studia medicina all’Università sognando però di “diventare artista cinematografica” e che racconta della morte del padre, in carcere, ucciso per i bigliettini portati dalla sorellina. Molte giovani donne, quasi ancora bambine, che sono cresciute in fretta negli anni tremendi della rivoluzione e che ora cercano di tirare avanti le loro vite, di avere perfino raggiunto la loro indipendenza (e a che prezzo):

-Se esci, se vai a comperarmi una bottiglietta di champagne, ti racconto. […]. Per farmi parlare ci vuole il vino: con un sorsetto dico tutto […]. Io non ho religione. Io non credo a niente. Quando i vecchi mi rimproverano, rispondo: “Avete pensato e vissuto come volevate? Noi pensiamo e viviamo come vogliamo”.

-Allora sei contenta?

-Sì: sono contenta della mia vita, contenta di lavorare. Voglio essere in condizione di guadagnarmi da vivere e non farmi mantenere da mio marito, se mai mi sposerò. Molte donne, da noi, mantengono i mariti disoccupati.181

Altre confessioni di donne raccolte dallo scrittore saranno quella di Nina a Odessa, di Raissa Ivanovna a Costantinopoli. Sono piccoli ritratti alla Čechov attraverso i quali Calzini dà il colore della Russia che non può dimenticare gli orrori della rivoluzione, nonostante pochi rimpiangano la vecchia Russia, e le difficoltà ad adattarsi alla nuova società sovietica. Esorcizzare la realtà, finché i tempi della Nep lo renderanno possibile, serve a sopportarne meglio le asperità. Nei locali notturni allora capita di assistere a spettacoli di satira, a rappresentazioni che ridicolizzano i “Fatti di Mosca”, dove vengono messi in scena personaggi grotteschi della vita quotidiana (ibid.: 96-98). Nel capitolo delle barzellette anti-regime Calzini ancora una volta fa riferimento al dettaglio per connotare i vari aspetti della vita russa: l’odio per il Komintern, per la G.P.U., per i capi del Cremlino e delle fabbriche, quello del “mugik” per i Soviet.

Nella sintesi che lo scrittore fa della città di Leningrado definisce meglio la scelta stilistica che contraddistingue la sua narrazione e che mira a ricostruire, pezzo dopo pezzo il puzzle della Russia:

Poi, mentre sto per addormentarmi e le immagini della giornata si ricompongono, mi accorgo di aver intravisto sulle prime, ma di non aver bene osservato anche un altro segno di decadenza. È appena una chiazza in una via, altrove è un eczema che conquista a poco a poco le pietre e gli asfalti; uno smalto che dilaga in un viale, e di nuovo sparisce per riprendere più lontano davanti a un monastero sbarrato o nel cortile di un palazzo incendiato. Sembrerebbe un trascurabile particolare, è un insieme di frammenti poco a poco accostati, saldati dalla luce e dall’aria. Non ancora il colore della città; ma un colore della città, al quale si richiamano persino suoni sparuti di istrumenti vecchi, strida di fanciulli che si inseguono, canti di galline che razzolano. Il sangue della vita s’intoppa in quella vanità verde, si ammala di quella paralisi verdastra, ristagna nei confini di quelle chiazze verdignole.

E mi accorgo di dover definire l’agonia della capitale con poche parole, così: Leningrado dove cresce l’erba.

181 Ibid.: 91-93.

106 Anche quando si tratta di personaggi politici, l’occhio di Calzini tende a cogliere la tonalità, l’inezia per tratteggiare l’individuo: il pallore di Zinovev, Cicérin

affondato in una poltrona, ironico e sottile, dà consulti e benedizioni con un atteggiamento di Gran Lama affaticato e distratto ma sempre sorridente. Lo sguardo dei piccoli occhi cerulei, lontano e inafferrabile, la barba a pizzo, i capelli rigati da fili argentei, attenuano quel tanto di crudeltà che traspare, e di preoccupazione che lo affloscia.182

Il paragrafo aggiunto alla monografia riguardante “Trozki” ha un tono diverso. Viene ricostruita la storia dell’uomo politico e sottolineata la forza e il prestigio dell’oratore, ma senza nessun riferimento all’individuo. Evidentemente Calzini non aveva avuto modo di incontrarlo personalmente e non fu in grado di aggiungere particolari al già noto. Di Esenin l’autore restituisce un ritratto pressoché fantastico, tutto immaginato vista la morte del poeta avvenuta qualche mese prima. Calzini se lo raffigura guardare “contro il cielo diamantino della notte polare” pochi giorni prima del suo suicidio. Lo scrittore si para davanti al giornalista in questo caso lavorando sulla breve biografia letteraria del poeta. E anche nella registrazione di un evento così tragico Calzini non omette di pensare ad un’altra figura umana, quella della madre del giovane poeta, rappresentante di quel mondo contadino che non ha gli strumenti per decifrare la complessità e la violenza del nuovo mondo sovietico, che aveva esaltato e poi schiacciato “col suo peso, con lo squallore, con la negazione della bellezza, dell’individualità, dell’idea, a favore della massa, della forza, del ragionamento” i giovani poeti (ibid.: 161).

Giunge la moglie del poeta, Tolstaia, giunge la madre, dal villaggio. La povera contadina si limita a piangere e a gridare: “Sergino, perché hai fatto questo? Perché?”

La vecchia Russia che interroga la nuova generazione senza capire. “Perché hai fatto questo?”183

È una dei rari rimandi che lo scrittore può fare riguardo al popolo delle campagne, insieme alla visione delle contadine che affollano la chiesetta della Madonna d’Iberia e qualche accenno a sporadiche figure di mužik analfabeti nei villaggi che guardano basiti le parole della propaganda sui muri. Di loro Calzini può fare solo un’analisi teorica, non avendo potuto verificare di persona la situazione delle campagne, sebbene Mosca appaia in quegli anni a molti viaggiatori occidentali nella sua veste asiatica e contadina. Assumendo un tono quasi accusatorio, lo scrittore denuncia il conflitto tra il potere bolscevico e le masse delle campagne, chiuse davanti a qualsiasi mutamento della modernità e impermeabile a qualsiasi imbonimento dall’alto.

182 Ibid.: 142.

107 […] Poiché l’economia russa è per ora tutta rurale (le industrie, comprese le fabbriche, le miniere, i pozzi di petrolio , ecc., rappresentano una percentualità minima) il motto del comunismo è pur sempre “guardare alla campagna , occuparsi della campagna, persuadere i contadini, istruire i contadini”.

Invece li sentono tutti ostili; caparbii brutali; conservatori senza scampo, tradizionalisti senza limiti, egoisti senza misericordia. Al di là della propria derevnia (del villaggio) non sentono solidarietà per nessuno, legami con nessuno, fiducia in nessuno. Ma che dico: al di là della derevnia? Potrei dire al di là dell’isba! Altro che internazionalismo! Come predicar loro “proletari di tutto il mondo unitevi”? Il comunismo ha dato loro molti beni reali; non lo riconoscono perché a quelli aspiravano come a un loro diritto: e il comunismo ha tolto loro due grandissimi ideali: la famiglia e la religione. Lottano ancora, essi, per la culla e per le icone. Lotteranno sempre: se ne infis chiano della macchina agricola, della radio che trasmette il “giornale del contadino” delle scuole e delle biblioteche e ahimé! non credono al valore stabile della moneta bolscevica, il cervonez!184

Poco spazio allora rimane per una visione “gaia” del paese. Solo gli svaghi domenicali dei cittadini di Mosca e Leningrado che evadono dalle città per dirigersi nei villaggi, nelle foreste, nelle campagne, ai laghi, per trarre almeno un giorno a settimana respiro dalla rivoluzione onnipresente, possono dare l’idea di un “presente […] fatto di sole, di sereno, di profumi estivi” (ibid.: 184). Lo scrittore in definitiva non riesce a dare risposte alle domande dell’Occidente: “è possibile una nuova rivoluzione russa? quanto potrà durare il bolscevismo? cessando il bolscevismo quali trasformazioni subirà la Russia odierna? verso quali forme politiche si orizzonterà?” (ibid.: VII-VIII). Ma tanto onesta appare l’analisi del giornalista, quanto più egli cerca di concretizzare il quadro della situazione attuale fornendo, per quanto possibile, una visione d’insieme elaborata mediante una pratica metodologica di registrazione “puntinistica”.

La risposta allora appare tanto più vera, quanto più non segnata da conclusioni definitorie; il giornalista pare in questo modo lasciare il posto allo scrittore nel consegnare gli ultimi quadri finali

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